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Autore: Arya Tata Montrose    15/07/2017    4 recensioni
Chiuse gli occhi, portandosi i palmi delle mani a coprirsi le palpebre. Non poteva crederci. L’unico dannato aereo in ritardo sull’intero piano descritto dal–
«Fottuto aggeggio di merda»
Ochako spalancò gli occhi, ancora coperti dalle mani. Non poteva averlo detto ad alta voce. Un brivido di sudore si fece strada sulla sua schiena. Panico. Non poteva averlo urlato in mezzo alla sala. Quella non poteva– no, quella non era la sua voce.
Questa storia partecipa all'iniziativa "La notte di Tanabata" di Fanwriter.it
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katsuki Bakugou, Ochako Uraraka
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Iniziativa: Questa storia partecipa alla challenge “Notte di Tanabata” a cura di Fanwriter.it!
Numero Parole: 3.509 (secondo Contacaratteri.it)
Prompt: Prompt 15 – A e B si incontrano per caso in aeroporto dopo molto tempo mentre aspettano notizie dei rispettivi voli. È la notte di Tanabata. + Bonus 9 – Origami + Bonus 15 – Sfortuna






 

Late Wishes




 

Ochako sbuffò, delusa nell’apprendere del ritardo del suo aereo. L’addetto al bancone le aveva spiegato, dispiaciuto, che l’aereo che avrebbe dovuto condurla a destinazione doveva essere sottoposto a dei controlli. «Il copilota ha notato un malfunzionamento durante l’atterraggio». Ochako aveva ringraziato ed era tornata a sedersi sulla sua panchina assieme al suo bagaglio a mano. Prese il cellulare e trovò il numero di Tsuyu tra le chiamate rapide. Le spiegò che non avrebbe fatto in tempo per raggiungerla al festival.

«Non importa. Hai comunque una settimana di vacanza, no?» Tsuyu era sempre pratica, trovava la soluzione più veloce al problema.

«Mh. Ci tenevo a venire alla festa con te» replicò lei, la voce vibrante di delusione faceva percepire quanto ci tenesse. «È da quando sono partita che non ci vediamo.»

Due anni prima, Ochako aveva lasciato la loro città per dirigersi in un’isola del nord praticamente sconosciuta, alla volta della sede centrale della Underground Protection Agency. Si occupava di sgominare bande terroristiche, mercato nero e varie minacce che tenevano un profilo più basso, nascoste negli strati più infimi della società.

«Lo so, ma non ti preoccupare. Passeremo comunque due belle settimane insieme.»

«Mh, va bene. Non vedo l’ora di essere lì»

Si salutarono, concludendo la telefonata.

Ochako affondò ancora di più nel freddo metallo della panchina, osservando pigramente il tabellone degli orari sulla parete di fronte a lei. Controllò l’orologio. Le sei e quarantadue. E la partenza del suo volo, secondo il tabellone, era prevista non prima di tre ore. La luce rossa che componeva i caratteri si spense per un secondo. Quando si riaccese, la partenza era posticipata di altre due ore. Che maledetta sfortuna.

Chiuse gli occhi, portandosi i palmi delle mani a coprirsi le palpebre. Non poteva crederci. L’unico dannato aereo in ritardo sull’intero piano descritto dal–

«Fottuto aggeggio di merda»

Ochako spalancò gli occhi, ancora coperti dalle mani. Non poteva averlo detto ad alta voce. Un brivido di sudore si fece strada sulla sua schiena. Panico. Non poteva averlo urlato in mezzo alla sala. Quella non poteva– no, quella non era la sua voce. Un nuovo brivido le percorse l’intero corpo, un presentimento diveniva sempre più nitido nella sua mente. Di colpo si levò le mani dagli occhi, impiegando preziosi secondi a riabituarsi alla luce al neon dell’aeroporto.

Non poteva credere a ciò che vedeva. La sua ondata di negazioni cresceva, mano a mano che il presentimento si trasformava nella realtà di fronte ai suoi occhi. Non poteva essere lui, non lui tra le poche decine di persone, compreso lo staff, che animavano quello scalo dimenticato dagli dei.

Eppure, il ragazzo dai capelli biondo cenere e gli occhi color cremisi non poteva essere che lui. Non se si includeva l’uso del linguaggio più scurrile e denso d’imprecazioni che avesse mai avuto l’occasione di sentire.

 

«Bakugou?» Lo disse a mezza bocca, quasi lo credesse frutto di un’allucinazione visibile solo a lei. Gli sguardi degli altri passeggeri e del personale, sgranati al suono di cotanta maleducazione concentrata, dicevano tutt’altro.

Lui si girò nella sua direzione, ruotando solo il busto e fulminandola con lo sguardo. «Eh?»

Quando i suoi occhi la identificarono, il suo sguardo, che inizialmente l’aveva fulminata, sembrò addolcirsi davanti al volto amico. «Uraraka?»

La ragazza, abituata tanti anni prima alle sue occhiatacce non si scompose e lo salutò allegra, mentre lui ricambiava con un cenno della testa e percorreva in pochi passi la distanza che li separava, piantandosi davanti a lei. Indossava una canotta grigia e dei pantaloni cargo. Del suo stile era cambiato solo il fatto che ora portava una cintura che gli teneva in vita i pantaloni. Forse, anni prima l’avrebbe presa a parole. Ora pareva leggermente più calmo. Ochako ridacchiò alla vecchia immagine di un giovane Bakugou coi pantaloni più lunghi o più bassi di quanto sarebbero dovuti essere.

«Già» rispose lei, contenta. Era passato molto tempo, ma ancora ricordava le loro sessioni di allenamento, quanto l’avessero aiutata a migliorare durante la scuola e, recentemente, ad entrare nella U.P.A. Non lo vedeva dai tempi del diploma, tre anni prima, quando piangendo l’aveva abbracciato millantando “quanto le sarebbero mancate persino le sue minacce”. Lui aveva esitato un poco prima di scacciarla malamente, rosso in viso – di rabbia? Ochako non aveva mai saputo spiegare quell’attimo, ma le faceva piacere ricordarlo. Per qualche motivo, le sembrava una cosa carina. Chi mai si sarebbe sognato di attribuire quella parola a Bakugou, poi.

Uraraka raccolse le sue cose e gli fece spazio per sedersi accanto a lei sulla panca. Non che mancasse lo spazio.

«Tu che diavolo ci fai in questo buco di aeroporto?» Bakugou si buttò accanto a lei, con le gambe accavallate, le braccia incrociate al petto e la solita espressione mista tra l’incazzato e il disinteressato che, ad uno sguardo esterno, avrebbe davvero fatto paura. Uraraka lo trovava familiare.

«Torno a Tokyo.» Uraraka sospirò, guardando l’orologio. Sette e venti. Controllò di nuovo il tabellone. Sei ore. «O almeno, ci provo. Anche tu, immagino»

Interpretò il grugnito che ricevette in risposta come un assenso, mentre Bakugou si alzava e andava a recuperare il suo bagaglio, lasciato dall’altra parte della sala. Quando tornò a sedersi non sembrava propenso a ricominciare la conversazione – o forse non sapeva come farlo; non era mai stato socievole alla U.A. e a coinvolgerlo erano sempre Kirishima, Kaminari e, a volte, lei, quando gli chiedeva se gli andasse un nuovo match di allenamento.

Così fu Ochako a riprendere la parola. «Come mai qui, comunque? Questo posto, per usare le tue parole, è un buco.»

Era l’unico aeroporto nel raggio di miglia, che serviva quella zona boschiva e poco abitata infilata tra le montagne e il braccio di mare che separava l’isola principale da Hokkaido.

«Lavoro. Un fottuto rapporto. Quei cazzoni non potevano aspettare dopo le mie dannate ferie.». Bakugou sbuffò, prima di chiederle “che cazzo ci facesse lei, in quel cazzo di buco dove non c’era un cazzo di nessuno”. Si sentiva che fosse irritato per il ritardo. Ridacchiò leggermente, Ochako.

«Che cazzo hai da ridere?» fu l’immediata replica del ragazzo, leggermente piccato. Ochako, dopo i tre anni di scuola passati assieme, dopo le molte ore che avevano passato ad allenarsi nel combattimento, capiva che non era davvero arrabbiato o offeso. Era semplicemente Bakugou Katsuki, irritato dall’enorme, insolito ritardo del loro aereo. In palestra non era così, era più tranquillo, i suoi occhi cremisi più sereni, ricordò. Combattere lo aiutava a rilassarsi.

Uraraka gli spiegò che la sua situazione era grossomodo simile, un rapporto da consegnare di persona al suo capo, ma che non poteva divulgare molto altro. Che il volo precedente l’avesse perso per un soffio, però, glielo poteva dire.

Bakugou sollevò un sopracciglio, osservandola ridere della sua sfortuna.

«Mi sono persa il festival con Tsuyu» si lamentò ed il ragazzo non cambiò espressione. Uraraka lo prese come un invito a continuare: «Dovevo andare al festival di tanabata con Tsuyu… Asui, e questo aereo era l’unico che potessi prendere per tornare in tempo. Dannata isola»

Seguì uno strano silenzio, appesantito dalle elucubrazioni di entrambi.

«Da quanto?» chiese Bakugou a bruciapelo, nessuna apparente connessione con quello che aveva appena detto. Uraraka si trovò un po’ spiazzata, dopo quella pausa non coglieva il significato della domanda. Inclinò la testa, osservandolo con aria interrogativa, invitandolo a continuare come pochi minuti prima aveva fatto lui.

Bakugou sollevò gli occhi al cielo. «Da quanto cazzo lavori alla U.P.A.» chiarì ed Uraraka sobbalzò dalla sorpresa. Come aveva fatto a–

«Ci lavoro anche io.»

Oh. Nella sua testa, dei puntini si collegarono. Ecco perché non aveva più sentito parlare di lui, come invece sentiva degli altri. Si era sempre, categoricamente rifiutata di pensare che avesse abbandonato la strada dell’eroe e perfino che avesse fallito. Sapeva come lo vedevano gli altri: forte, veloce, testardo, orgoglioso, temibile, arrogante, terrificante. Una bomba pronta ad esplodere. Uraraka, però, aveva imparato tempo prima che queste fossero alcune delle parole che potevano descriverlo. Che un’altra che gli calzava a pennello era eroe. Sapeva che Bakugou lo voleva con tutte le sue forze e che ci sarebbe riuscito. Questo spiegava un bel po’ di cose. Come il fatto che non avesse obiettato alla voluta evasività con cui aveva risposto alla domanda “che diavolo ci fai in questo buco di aereoporto” e gli improvvisi botti che ogni tanto udiva mentre camminava per i corridoi della base, che a suo tempo aveva sbrigativamente liquidato come interrogatori. Avevano metodi tutti loro e Uraraka, per quanto poco li appoggiasse, doveva ammettere che funzionavano e le avevano fatto portare a termine più di una missione, quindi non aveva mai mosso più di tante lamentele.

Non si era accorta di starlo fissando fino a che lui non l’aveva richiamata con un ohi parecchio scocciato.

«Eh?»

«Da quanto cazzo sei lì.» Bakugou ripeté la richiesta per la terza volta. Non si era accorta di non avergli risposto.

«Oh… Due anni. Tu?»

«Quasi», sottintendendo quanto lei aveva appena detto e mascherando il moto di rabbia che per un momento aveva sentito dentro – ci stava ancora lavorando. Perché alla U.P.A. sono loro a contattarti. «Pensavo fossi la spalla di quell’altro» aggiunse.

«Quando mi hanno chiamato qui ho lasciato il posto ad Ashido» spiegò. Stava per chiedergli come avesse passato il periodo tra il diploma e quell’impiego, quando venne interrotta dal ragazzo della reception, quello che l’aveva informata sul motivo del ritardo.

«Vi porgo le mie scuse,» iniziò questo, «ma purtroppo il vostro aereo non sarà operativo prima di domani.» S’inchinò leggermente e tornò al suo posto.

«Merda»

 

Sentiva Bakugou imprecare nonostante i diversi metri di cui si era allontanato per telefonare. Da come appellava la persona all’altro capo del telefono – brutta strega –, doveva essere sua madre. La immaginava una versione più femminile dello stesso Bakugou, con i capelli biondo cenere e, a giudicare dai toni della chiamata, lo stesso temperamento.

Lei aveva inviato a Tsuyu e sua madre un messaggio in cui le informava dell’ulteriore ritardo e, qualche minuto dopo, aveva ricevuto le loro risposte dispiaciute. Tsuyu l’aveva consolata un po’, quindi l’aveva salutata. Ochako, poi, distrattamente s’era messa a giocherellare con uno dei fogli bianchi che portava sempre nella borsa del pc e, non sapeva come, era finita a creare origami. Prima aveva formato una piccola rana e, con un sorriso, il pensiero era andato all’amica che non avrebbe rivisto fino al giorno dopo, con cui non avrebbe potuto visitare il coloratissimo festival o assaggiare le prelibatezze alle bancarelle. Un profondo sospiro le salì dalla gola, proprio mentre Bakugou tornava a sedersi borbottando «maledetta strega».

Ochako non si voltò a guardarlo, troppo concentrata sulla rana che saltava sotto la pressione del suo dito. «Non le hai detto di guardare il lato positivo?» domandò, retorica. Ovvio che non l’avesse fatto, conosceva Bakugou e, sebbene non avesse prestato ascolto alle sue imprecazioni, non era il genere di cose che lui potesse dire. Era giusto per fare conversazione, una sciocchezza che le era venuta in mente pensando alla madre. Nemmeno si aspettava una vera risposta, pensava l’avrebbe mandata a quel paese.

«Che cazzo stai dicendo?»

Appunto. «Almeno può passare questa romantica festa da sola con suo marito. Io ho detto così a mia madre. Lei era preoccupata che non potessi esprimere il mio desiderio.»

 

Bakugou più la guardava, meno capiva. Cosa cazzo voleva dire? «Affaracci suoi» rispose, mentre lei continuava a fissare malinconica quella maledetta rana di carta. Che ricordasse, non l’aveva mai vista così abbattuta, nemmeno dopo il loro primo scontro, quando l’aveva sconfitta al festival sportivo. La cosa lo destabilizzava. Non aveva idea del perché, ma sapeva che non gli piaceva affatto. Con lo sguardo, intanto, sondava lo stanzone fatto di vetro e acciaio, silenzioso e forte solo della loro presenza. Era un aeroporto troppo piccolo per funzionare attivamente anche di notte. Solo pochi membri dello staff stavano ancora al loro posto, per il loro turno in caso di emergenza o per dare il cambio alla torre di controllo, cosa diamine poteva saperne lui. Era calato il silenzio, rotto solo dal ronzio dei vecchi computer di cui quel buco era dotato. L’orologio digitale indicava le undici e venticinque; nessuna traccia di un misero albero di bambù a cui legare il desiderio. Merda. Detestava vederla così triste, senza nemmeno averne un motivo preciso. Provava qualcosa di simile all’odio per il mondo quando la pioggia riduceva la potenza delle sue detonazioni. Gli piaceva di più vederla felice, quando le sue guance assumevano un colore rosa più intenso rispetto al resto della pelle, come le punte delle sue dita. Katsuki interruppe il flusso dei suoi pensieri, una diga di stupore contro un fiume in piena. E questa da dove cazzo l’aveva tirata fuori?

Con uno sbuffo sonoro, decise di ignorare il pensiero, ma i suoi occhi corsero di nuovo alle mani della ragazza e alla stramaledetta rana di carta. Non si stupì della fermezza dell’oggetto nelle mani della ragazza, negli anni era diventata sempre più padrona della sua Singolarità. Il suo controllo vacillava solo se era troppo emozionata, come quando, il giorno del loro diploma, gli si era gettata addosso piangente e la sua stretta aveva fatto sollevare entrambi di qualche centimetro. In quell’occasione l’aveva sentita frignare che persino le sue minacce le sarebbero mancate e lui era rimasto, ancora una volta, stupito. Non pensava di poter mancare proprio a nessuno, fatta eccezione per quella testa di merda di Kirishima, che si professava a ragione il suo migliore amico – si chiamavano anche per nome ed era l’unico che considerasse degno di vedere la parte umana di lui, quella dietro all’arroganza; e invece Uraraka gli aveva detto che le sarebbe mancato e l’aveva persino abbracciato. Nemmeno Eijirou si era azzardato a tanto. L’aveva respinta, ma aveva esitato un secondo, assaporando un calore umano che era troppo tempo che non sentiva.

«Ohi?» la richiamò e Uraraka sollevò il viso a guardarlo. Aveva gli occhi lucidi di lacrime che non voleva versare e quasi gli mancò la voce. Non esitò. «Scrivilo sul foglietto e fai una gru.»

Gli occhi della ragazza si fecero immediatamente più grandi, osservandolo con un certo sconcerto misto a qualcosa che Katsuki non fu in grado di identificare. Si sentiva andare in fiamme le guance. Uraraka non replicava, ma vedeva i suoi occhi sondarlo, come alla ricerca di qualcosa che non andasse. Non lo sapeva nemmeno lui cos’era che non andasse. «Avanti»

Sulle labbra della ragazza nacque un sorriso riconoscente. «È davvero una bella idea. Lo fai anche tu?» Gli porse il foglio, gli occhi ora allegri.

Gli occhi di Bakugou parvero lampeggiare. Lui cosa? Qui si stava andando troppo oltre. Bakugou lo disse a sé stesso e alla strana sensazione che gli si era accesa dentro nel rivedere quel sorriso che gli rivolgeva dopo ogni sessione di allenamento. Assieme a lei, era tornata anche quella morsa, quella sorta di calore che si impossessava di lui e della sua mente ogni dannata volta, quella che lo spingeva ad essere più gentile, a esporsi, anche se di poco. Si sentiva quasi al sicuro, come a quando parlava con Eijirou ma in qualche modo diverso. Si rifiutava di dargli un nome, ma ne riconosceva la presenza. Ora che non era più un ragazzino, l’accettava.

Uno sbuffo. «E va bene.»

Un altro sorriso, un’altra piccola parte di lui che si sentiva sciogliere davanti alla sensazione che la sua presenza gli dava. Era persino meno scurrile del solito, cazzo.

Prese il pezzo di carta e la penna che la ragazza gli porgeva e scarabocchiò una frase meglio che poté, senza un vero e proprio supporto su cui scrivere, poi seguì i movimenti delle sue mani piegando il foglio fino a formare una piccola gru. Si sentiva maldestro, più abituato a bruciare le cose e a distruggerle che non a modellarle. Si sentiva in imbarazzo, lui, Bakugou Katsuki, a scoprirsi incapace di fare qualcosa. Irritato a scoprirsi secondo a qualcuno. Ma lì c’era solo Uraraka e una vocina in fondo alla sua testa, una che spesso ignorava e malediva con tutto sé stesso – nonostante fosse la medesima che l’aveva portato ad accettare l’amicizia di Eijirou –, gli diceva che poteva fidarsi, che lei non l’avrebbe giudicato o guardato dall’alto in basso. Un po’ ammaccata, un po’ annerita – non era riuscito a controllare i palmi che ribollivano di tutte quelle sensazioni –, ma comunque una gru. Soffiarono sul piccolo origami, come a dargli la spinta per portare fino agli dei il proprio desiderio.

Proprio in quel momento, l’orologio digitale dai caratteri rossi segnò lo scoccare silenzioso della mezzanotte.

«Grazie.»

«Tsk»

 

 

 

Sentì un peso sulla spalla e non ebbe bisogno di voltarsi per comprendere che fosse la testa della ragazza accanto a lui. L’occhiata che le scoccò, invece, gli servì per constatare che non dormisse. Aveva un’espressione rilassata, serena, gli occhi puntati sulla parete davanti a loro. Gli ricordava il viso della ragazzina con cui si allenava, che insultava quotidianamente e che si era guadagnata il suo rispetto sul ring, combattendo con tutte le sue forze e costringendolo a tenere sempre la guardia alta. La stessa che l’aveva fatto fluttuare davanti a tutti senza che facesse esplodere qualcosa. L’aveva pensata spesso, da quell’incontro, e mano a mano cresceva quella strana sensazione alla bocca dello stomaco che lo faceva sentire felice, che gli faceva ribollire le mani e le guance e a cui non voleva dare un nome, che gli diceva di non farla spostare.

«Ti do fastidio?» mormorò lei, accortasi del suo sguardo.

Lui lo distolse, repentino, colto a fissarla. Lo puntò nella stessa direzione di quello della ragazza, senza davvero fare caso a cosa ci fosse scritto sul maledetto tabellone. Non disse nulla, ma non la scacciò nemmeno.

 

Ochako si rilassò sulla sua spalla, i muscoli del corpo coordinati con l’espressione sul suo viso. Gli si era poggiata addosso senza un reale proposito, la voglia di un abbraccio e la stanchezza a comandarne le azioni. Non si sentiva sola. All’inizio l’aveva pensato, tremava all’idea di passare la notte a fissare il soffitto e a sentire la mancanza dei suoi genitori e della sua migliore amica premerle nella testa. Bakugou era stato molto carino ad aiutarla, lo sentiva vicino e ora lei voleva ricambiare. Non era riuscita a pensare ad altro che a fargli sentire che lei c’era.

 

«Mi sei mancato davvero, sai?»

Bakugou quasi sussultò, sorpreso dall’improvvisa domanda. Pensava dormisse. Non rispose, ma ci mise poco a capire a cosa si riferiva.

«Mi siete mancati tutti» riprese Uraraka, il tono morbido e basso. «Ma tu e Tsuyu più degli altri.»

Bakugou le lanciò un’occhiata fugace. Uraraka aveva gli occhi socchiusi, non guardava lui, ma il pavimento. Forse anche lei pensava stesse dormendo e lui non fece nulla per indurla a pensare il contrario. Voleva che continuasse.

«Ho pensato di chiamarti, qualche volta, ma avevo paura di darti fastidio. Così ho lasciato perdere, però mi sei mancato davvero, Kacchan

Decisamente pensava stesse dormendo.

«Mi piacevano i nostri allenamenti. E quelle mezze chiacchierate. Imprecazioni e occhiatacce incluse. Eri diverso da come apparivi in classe. Non so perché, sembravi pure più simpatico. E ho sempre combattuto la tentazione di chiamarti Kacchan. Non so perché non ti piaccia, è adorabile.» Il suo era un monologo a mezza voce, una confessione che sapeva non sarebbe mai stata in grado di fare con lui sveglio, ad osservarla. Credeva di essere insultata, derisa, che non avrebbe potuto finire di parlare. Credeva bene, pensò, una nota di disprezzo per sé stesso nel tono. Katsuki sapeva di essere assurdamente inavvicinabile. Molti desistevano ancor prima di aver passato i primi ostacoli del suo caratteraccio. Kirishima li aveva sfondati a testa bassa. Uraraka, si rese conto, li stava sorvolando uno ad uno in un tempo sorprendentemente breve – o forse l’aveva fatto molto prima e nessuno dei due se n’era reso conto?
«Perché mi chiamo Katsuki.»

Uraraka sobbalzò e fece per togliere la testa dalla sua spalla. Katsuki, però, la fermò con la sua prima che potesse muoversi. Sentiva che la ragazza stesse morendo d’imbarazzo, poteva capire il suo guardarsi febbrilmente le mani con la speranza di potersi sotterrare. Lo voleva anche lui, accidenti, non capiva che diavolo gli fosse saltato in mente per uscirsene così.

Attese qualche minuto, in silenzio, soppesando il danno che poteva aver fatto e sperando che lei facesse due più due e capisse il sottinteso della sua frase. I suoi muscoli erano tornati tesi come corde di violino, come la prima volta che gli aveva chiesto di aiutarla ad allenarsi.

«Oh, sì, lo so, ricordo come ti chia- oh.» La sentì emettere un poderoso sospiro, come a buttar fuori qualche emozione che la bloccava. «Ochako»

Katsuki non seppe di aver trattenuto il respiro fino a che non la sentì mormorare il suo nome in risposta. Con la coda dell’occhio, la vide sorridere, sollevata. Lo fece anche lui e dopo poco, la sentì farsi più vicina, sistemarsi più comoda ed il suo calore invaderlo.

Prima di cadere nel sonno, cullato dal profumo dei capelli di Ochako, pensò di volere conservare quel momento come un ricordo speciale e si sentì più leggero

 


 

Angolino autrice

Buondì!
Seconda One-shot ispirata al meraviglioso evento "La Notte di Tanabata" di Fanwriter.it! Ecco, questa volta ho preso ispirazione dal prompt e me ne sono uscita con una sorta di "prequel" di Corde sulla sabbia – altra one-shot ma incentrata sul pairing Yaoyorozu/Todoroki.
Perchè proprio Bakugou e Uraraka? Non lo so, davvero. Il fatto è che li shippo da morire, ben sapendo che non saranno mai canon. E allora, che c'è di male nel fantasticare un po'? E poi avevo voglia di scrivere di loro, quindi eccomi qui ù.ù
Un grazie enorme a Teony che mi ha aiutato con la caratterizzazione dei personaggi, Bakubae in particolare, e alla splendida NanaLuna che mi beta tutto :3
Domani, per la fine dell'evento di Tanabata, pubblicherò il "sequel" di questa shot, ambientato un anno esatto dopo questa e un anno prima di Corde sulla sabbia. Spero abbiate apprezzato!

Baci,
Tata

 

   
 
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