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Autore: Adeia Di Elferas    16/07/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina si svegliò con la testa pesante e la bocca amara. Nella luce del mattino che entrava pallida e smunta dalla finestra, vide la caraffa di vino vuota che giaceva accanto al letto e comprese quale fosse una delle cause del suo stato.

Si mise seduta sul materasso, avviluppandosi nelle coperte per far fronte al freddo. Si guardò attorno e la visione della stanza in cui si trovava le diede improvvisamente il voltastomaco.

Non le piaceva quello che aveva fatto quella notte e nel corso di molte notti passate. Se si fermava a ragionarci, non poteva che sentirsene disgustata. Quando arrivava il sole del mattino, tutte le illusioni che aveva rincorso tra le braccia di uomini che conosceva a malapena sparivano e restava solo un profondo senso di nausea e straniamento.

Passandosi lentamente una mano sul collo, la Contessa si alzò e si preparò in fretta per uscire.

Essendoci stato solo la sera prima il banchetto per le nozze di Simone Ridolfi e Lucrezia Feo, era probabile che alla rocca ci fosse più di una testa pesante e di certo poca voglia di essere produttivi, e dunque la donna ne avrebbe approfittato, prendendosi una mattina libera.

Dopo aver infilato un mantello imbottito di pelo, la Tigre uscì dalla camera. Passò davanti alla vicina porta di Giovanni Medici. Fu tentata di bussare, per chiedere come stesse, ma poi lasciò perdere.

Nel giro di un'ora scarsa, era già nel mezzo dei boschi a correre dietro a qualche preda, di piccola taglia, in modo da non dover poi faticare nel trasporto delle carcasse.

Mentre si appostava, nel silenzio cristallizzato di ottobre, Caterina allentò le briglia con cui teneva a freno la sua mente. Così cominciò a pensare a suoi figli e, più vi pensava, più si agitava.

Quando poi, proprio nel momento in cui un coniglio ritardatario aveva ben pensato di passarle davanti, la Contessa si trovò nell'assurda situazione di mancare il bersaglio per colpa di un pensiero improvviso.

Stava elencando tra sé i piani per il futuro dei suoi sette figli e, all'improvviso, si era resa conto di non averne più sette, ma solo sei.

Le era già successo qualche giorno addietro. Era soprappensiero e aveva contato Livio assieme agli altri. Solo dopo un minuto abbondante si era ricordata che Livio non c'era più.

Erano meccanismi infidi e la sua anima sembrava volerli sfruttare tutti, al solo fine di soffrire di meno. Il problema era che, appena la consapevolezza tornava, il dolore si amplificava.

Con gli occhi verdi puntati verso la coda a batuffolo del coniglio, che era ormai già lontano, la Tigre si rimise l'arco a tracolla e decise di tornare alla rocca. Non era più dell'umore giusto per cacciare prede tanto piccole e sfuggenti.

 

Il quarantaquattrenne Federico d'Aragona si passò con affettazione una mano, rigidamente aperta e inanellata, sui capelli chiari, come ad assicurarsi che i ricci ampi e un po' sfatti fossero ancora al loro posto.

“Non mi piace per niente.” disse, scuotendo con forza il capo e guardando la sorella, Giovanna d'Aragona: “Questo figlio del papa, questo Juan...”

La donna, che lo aveva appena ragguagliato sulle ultime notizie, che volevano il figlio prediletto del papa, alla testa di un gran numero di uomini, già in marcia verso Bracciano e già vittorioso in almeno un paio di assedi, gli appoggiò una mano sulla spalla: “Dobbiamo fare qualcosa. Dicono di agire in nostra difesa, ma più terreno guadagnano, meno ce ne renderanno a guerra finita. Anche se adesso tu sei re...”

Federico fece una smorfia: “Sono re, ma in pratica non ho un regno.” l'anticipò.

Giovanna strinse le labbra e lanciò un'occhiata infastidita alla serva che aveva appena portato loro qualcosina da mangiare mentre discutevano.

Tanto per non far sentire alla servitù i loro discorsi, la donna chiese, come se l'argomento fosse stato quello fin dal principio: “E quindi vostra moglie ha gradito la sua camera?”

“Insomma...” aveva risposto Federico, stando al gioco della sorella: “Avrebbe voluto tendaggi meno vistosi...”

Appena la serva ebbe lasciato di nuovo il salottino, la vedova di Ferrandino riprese: “Ci serve un esercito come si deve. La Francia si sta muovendo. Anche se riuscissimo a contrastare i nemici interni e ad arginare il papa, Napoli ormai non ha più nulla...”

“Sarà bene cominciare a ungere gli ingranaggi della Spagna.” fece Federico, non trovando altra soluzione: “Quando sarà tutto pronto e non ci sarà pericolo per te, ti manderò da nostro cugino Ferdinando. È comunque re di Castiglia! Lui e sua moglie si fanno chiamare i Cattolici! È tempo che dimostrino di avere a cuore la famiglia, come ogni bravo cristiano dovrebbe fare.”

Giovanna annuì e prese dall'alzata un pezzo di formaggio: “Sì, andrò dai nostri parenti. Li convincerò a non lasciarci soli. Ferrandino era contrario a questo piano, ma sapevo che tu l'avresti pensata come me! Partirò subito!”

“No.” si oppose il fratello: “Prima voglio essere sicuro che non ti accada nulla. Non ti devono vedere in nessun modo come un problema, ma come una parente ben gradita. Dobbiamo arrivare al punto che l'idea di aiutarci parta da loro. Lascia che scriva loro per qualche mese, per recuperare i rapporti che Ferrandino aveva lasciato cadere, poi potrai partire.”

Inquieta all'idea della lunga attesa a cui stava andando incontro, l'Aragona sospirò e invogliò il fratello a prendere da mangiare: “Avanti, avremo tempo da morti per digiunare.”

 

“Ci sono delle lettere.” disse il castellano, quando incrociò la Contessa.

La donna, che era appena passata nelle cucine per lasciare le due beccacce che aveva ucciso nel corso della sua solitaria battuta di caccia, allungò la mano per prenderle.

Il castellano gliele porse e poi aggiunse: “E ho messo ad attendere fuori dal mio studiolo, con una guardia, una staffetta che è appena arrivata da Firenze. Dice di dover consegnare delle lettere a Ridolfi e al Medici e che non può lasciarle a nessun altro, nemmeno ai lorosegretari...”

La Tigre si fece pensierosa e disse: “Ci penso io.” poi chiese: “Vostro nipote Tommaso..?”

“L'ho visto uscire di buon'ora. Mi ha detto che sarebbe andato un po' sulla tomba di Giacomo a pregare.” rispose Cesare.

Caterina non disse nulla in proposito e lasciò il il Feo con un rapido cenno di saluto.

A passo svelto, la Leonessa raggiunse il corridoio su cui si affacciava lo studiolo del castellano e vi trovò, come previsto, il messaggero e la guardia che lo teneva sott'occhio.

Congedò il soldato e restò sola con la staffetta: “Date a me quelle lettere che portate con voi e io le consegnerò personalmente a messer Medici e messer Ridolfi.”

Il giovane, i cui capelli umidi dicevano che sulla strada che collegava Forlì a Firenze doveva essere piovuto, scosse il capo: “Non posso. Questi messaggi li si deve dare direttamente dalla mia mano a quella degli ambasciatori.”

“Solo Giovanni Medici è ambasciatore, Ridolfi è qui in veste di suo assistente.” precisò Caterina, guardando con attenzione la staffetta, che parve subito mordersi la lingua.

Tanto che cercò di rimediare con un goffo: “Ma è quel che ho detto anche io...”

“Avanti, date qui.” lo incitò di nuovo la Contessa.

Poiché l'altro ancora scuoteva la testa, la Tigre sospirò e ribadì, a voce più bassa: “Datemi quelle lettere.”

“Non posso, io...” iniziò il messaggero, ma non finì la frase, perchè la lama del pugnale della Contessa Sforza Riario era guizzato subito alla sua gola.

“Firenze ne trova mille come te. Se ti taglio la gola adesso, chi credi che si prenderebbe la briga di chiedere giustizia per la tua memoria? E, anche se lo facessero, tu saresti morto comunque. Non mi pare un bell'affare.” sussurrò, minacciosa: “Adesso dammi quelle lettere e poi sparisci. Alla Signoria dirai di averle date a chi di dovere e nessuno si farà male.”

Con gli occhi sgranati e la fronte che si imperlava di sudore, il ragazzo cercò nella scarsella che portava in spalla e ne estrasse due buste sigillate con lo stemma della repubblica.

“Adesso sparisci.” concluse Caterina, dopo averle prese.

Il giovane corse via come un lampo, ben felice di avere ancora la testa attaccata al collo e così la Contessa decise di cercarsi un posto tranquillo in cui controllare la corrispondenza propria e quella altrui.

Una volta al sicuro nella stanza che aveva ospitato sua madre Lucrezia, quando viveva a Ravaldino, Caterina si sedette alla scrivania e prese la prima lettera della pigna.

Seguì un ordine casuale e per primo le capitò un messaggio di uno degli alchimisti con cui era stata in contatto per anni.

Ripensò a tutte le lettere che ancora erano custodite al Paradiso. Le venne voglia di andarle a recuperare, ma poi si disse che non voleva tornare là. Pensò a chi mandare al suo posto e alla fine non le venne in mente nessuno di abbastanza fidato. Riaccantonò così l'idea.

La seconda era di Antonio Sassi che le assicurava che la prima fornitura di sale sarebbe arrivata per certo a Forlì il 27 ottobre e che il prezzo di vendita ideale sarebbe stato di un baiocco alla libbra.

Non si trattava certo di un prezzo di favore, ma era meglio di niente. La Contessa prese nota mentale di promulgare un editto in cui si vietava la vendita e l'acquisto di altro sale che non fosse quello dello Stato. A quel modo, sarebbe stata sicura di recuperare tutti i soldi necessari per coprire il debito contratto per comprarlo in Schiavonia.

Seguivano una lettera di Niccolò Castagnino, che, facendo finta di nulla, chiedeva come stesse Bianca e, soprattutto, Ottaviano.

Siccome la lettera appena sotto era dei Bentivoglio e ribadiva il concetto dell'impossibilità di accettare le richieste dei Riario per il matrimonio tra Isotta e Ottaviano, Caterina comprese che i faentini altro non stavano facendo se non chiedere conferma del fallimento del fidanzamento.

Tentata di rispondere in modo sprezzante, la Contessa mise da parte entrambi i messaggi e non scrisse nulla né al Bentivoglio né al tutore di Astorre Manfredi.

Finito di leggere tutto ciò che era indirizzato a lei, Caterina prese la lettera che aveva come destinatario Giovanni.

La busta con lo stemma di Firenze era solo il segno che quel messaggio – arrivato in realtà dalle Fiandre – era stato prima vagliato anche dalla Signoria che, dopo averlo ritenuto innocuo, aveva permesso il suo passaggio di mano in mano fino a giungere a Forlì.

La Tigre lesse con attenzione le parole che portavano in calce la firma di Lorenzo Medici, ma non vi trovò altro che chiacchiere sul clima e sulla famiglia. Erano cose tanto insulse e a volte tanto sconclusionate che Caterina pensò subito che in realtà si trattasse di un codice cifrato.

Ripiegò così il messaggio e provò a leggere quello destinato a Ridolfi che, invece, era firmato niente meno che dal Gonfaloniere di Giustizia.

Era una lettera abbastanza lunga e fin dalle prime righe era chiaro che per la Signoria il reale ambasciatore fosse ormai Simone Ridolfi, anche se ufficialmente quella carica spettava ancora a Giovanni Medici.

Il Gonfaloniere spiegava a Ridolfi la situazione di Firenze, sorvolando molto su Girolamo Savonarola, e poi – e questa era la parte più consistente dello scritto – gli chiedeva di riprendere con fermezza Giovanni per la sua condotta.

La Signoria accusava il Medici di non aver fatto ancora gli interessi di Firenze, ma, anzi, di aver fatto solo quelli della Contessa Riario. Ne criticavano l'atteggiamento troppo premuroso nei confronti dello stato dei Riario e della noncuranza con cui aveva accantonato i suoi impegni per far propri dei doveri che non gli spettavano.

'Così facendo – aveva concluso il Gonfaloniere – messer Medici non mette a rischio solo la credibilità della sua famiglia, ma anche e soprattutto quella di Firenze, dato che il suo interesse nei confronti della Leonessa di Romagna a noi non è ancora valso nemmeno una nuova alleata contro Venezia. Se a lui sia servita per ottenere altro, alla Signoria non è d'interesse e dunque, se anteporrà ancora i suoi privati affari a quelli della repubblica, non potremo che prendere provvedimenti.'.

Caterina si morse le labbra. Aveva creduto, almeno fino a quel momento, che dietro al comportamento di Giovanni si nascondesse comunque anche una certa dose di diplomatico opportunismo.

Essendo nata e cresciuta alla corte di Milano, dove il cancelliere Cicco Simonetta le aveva suo malgrado insegnato a diffidare di tutto e tutti, la Sforza si era convinta che un uomo nella posizione del Medici non potesse non essere condizionato, e pesantemente, dalla propria carica.

E invece leggere che la repubblica si stava stancando di lui proprio perché egli si stava dimostrando più leale verso una donna appena conosciuta che non verso la sua città, riscosse qualcosa nel petto di Caterina.

Quei dubbi che ancora l'attanagliavano si dissolsero quasi del tutto e, dopo aver rimesso le lettere nelle buste, decise che avrebbe consegnato solo quella destinata al Medici, bruciando alla prima occasione quella per Ridolfi.

 

Bianca Riario aveva ancora molto sonno. Da tempo non stava sveglia fino a tardi a ballare e poi a giocare ai dadi come aveva fatto la sera prima e nemmeno il potente intruglio a base di spezie che la cuoca le aveva preparato sembrava capace di risvegliarla.

Le cucine erano sonnolente quanto lei e al tavolone a tagliare le verdure c'erano solo lei, una paio di serve e la cuoca.

Era da poco passato il mezzogiorno, ma i domestici che avevano servito in tavola avevano fatto sapere che praticamente nessuno si era presentato a mangiare.

“Dopo i banchetti di nozze – aveva commentato la cuoca, i pochi denti che luccicavano in un sorriso saggio – ci sono molte teste pesanti e molti stomaci sottosopra!”

“E messer Ridolfi s'è visto?” aveva chiesto una delle due serve ai camerieri.

Uno di loro aveva scosso il capo: “No, ma ho sentito che ha chiesto che gli venisse portato qualcosa in camera.” poi sogghignò: “Lui e la sua signora non ne sono ancora usciti, sapete...”

Appena i due uomini erano usciti di nuovo dalle cucine con una pentola da portare di sopra, la cuoca aveva riso: “Beato messer Ridolfi e anche madama Feo!”

“Io non sopporterei mai un matrimonio così...” sussurrò a un certo punto la serva che aveva chiesto notizie di Simone: “Dover restare legato per tutta la vita a una persona che conosci solo sull'altare...”

“Questo vale se non ci si intende – la contraddisse l'altra serva, che aveva più o meno l'età di Bianca – se invece ci si piace, come è successo a loro due... Ebbene, in quel caso la scoperta reciproca è solo uno stato di grazia!”

Le due serve e anche la cuoca – che delle tre era l'unica ad avere avuto un marito, morto ormai da anni – continuarono a parlare fittamente sempre dello stesso argomento.

Si chiedevano come fosse stata la prima notte di nozze dei due novelli sposi. Il fatto che non fossero più giovanissimi e che la donna fosse una vedova, avevano detto, doveva aver reso il tutto meno imbarazzante e più semplice. Una di loro colse la palla al balzo per chiedere cosa ne pensassero le altre del fatto che agli uomini fosse moralmente concesso fare esperienze anche prima di sposarsi, mentre alle donne no.

A quel punto Bianca ne ebbe abbastanza. Quel genere di discorsi la metteva in forte disagio e le faceva anche tornare in mente il fatto che sulla carta pure lei era una donna sposata, benché in realtà non ne sapesse nulla di quello di cui stavano parlando le sue amiche.

“Mi sono ricordata che devo fare una cosa.” si scusò e, sguardo basso, lasciò le cucine.

“Povera ragazza...” fece la cuoca, appena la figlia della Contessa fu a distanza di sicurezza: “Siamo state indelicate.”

“Non credo sia rimasta sconvolta. Sa benissimo di cosa parliamo – fece la serva più vecchia delle due – ha studiato come i suoi fratelli e i precettori, ai maschi, certe cose le spiegano. E non credo nemmeno che fosse scandalizzata. È figlia di sua madre.”

La cuoca mise a tacere la giovane con uno scapaccione e poi concluse: “Sei un'insensibile. Vorrei vedere te, sposata a un bambino che vive in un altro Stato.”

“Astorre, però, mi è ricco e diventerà un uomo potente. E poi mi è sembrato un signorino a modo...” disse la serva più giovane, che ricordava vagamente di aver intravisto il signore di Faenza quando era stato in visita a Forlì.

La cuoca prese un coltello e si mise a fare a pezzetti le verdure come le altre: “A modo o non a modo, è chiaro che la nostra Bianca non lo vuole.”

 

“Questo è tutto quello che vi posso anticipare.” disse Achille Tiberti, porgendo un sacchetto pieno di monete all'armigero che gli stava davanti.

Questi controllò il contenuto e poi fece una faccia abbastanza soddisfatta: “Va bene, come acconto lo posso accettare. Quando volete attaccare?”

Achille ci ragionò un istante. Avrebbe voluto farlo subito, quello stesso giorno, ma sapeva che non sarebbe stato possibile.

Civitella era lì a un passo, ma i mercenari che aveva trovato, gli unici che avessero accettato una condotta da un uomo di poco conto come lui, erano di stanza a qualche giorno da lì.

“Il prima possibile – disse, pensando a suo fratello, che era prigioniero della città, attorniato da nemici pronti a farlo a pezzi – anche se ci fosse un sovrapprezzo.”

“Oh, non temete, ci sarà.” confermò il soldato, tuttavia, poi, gonfiò il petto e si mise a fare i suoi calcoli a mezza bocca, per concludere: “Entro i primi giorni di novembre dovremmo farcela.”

“Se non si può fare di meglio...” disse Tiberti.

“No, non si può.” rimbeccò il mercenario.

Al che il forlivese altro non poté fare se non allargare le braccia e poi sollevare il bavero della giacca contro il vento pungente: “Avanti, fate quello che dovete. A lavoro finito, vi farò avere il resto dei soldi.”

 

Era ormai quasi sera e Caterina aveva passato tutto il giorno a ripensare alla lettera arrivata da Firenze.

Sapere che Giovanni aveva agito contro gli interessi dei suoi stessi concittadini pur di fare qualcosa di utile per lei l'aveva addolcita parecchio. Tanto da farle rimpiangere il suo comportamento della sera prima.

Le era parso impossibile che un Medici potesse seriamente provare per lei quel genere di sentimenti, ma poi la dichiarazione di Giovanni e la lettera di Firenze avevano sciolto ciò che restava del suo muro di resistenze.

Adesso restava da abbattere solo l'ultima barriera, quella costituita dal ricordo di Giacomo.

Malgrado ciò, però, ormai la Tigre aveva capito che, nel bene o nel male, la situazione con il fiorentino si sarebbe sbloccata. Aveva ragione lui, lei non poteva lasciarlo in un limbo ancora a lungo. Doveva decidersi. Accettarlo o rifiutarlo una volta per tutte.

Quel giorno Simone Ridolfi non si era visto nemmeno per cinque minuti e la Contessa aveva sentito dire dai servi che lui e la sua fresca sposa si erano chiusi in camera senza voler altro che qualcosa da sgranocchiare tra un bacio e l'altro.

Sotto molti punti di vista, li invidiava. Ma in fondo era contenta per loro. Da troppo tempo alla rocca di Ravaldino non soggiornava una coppia innamorata e se loro la erano, erano ben accetti.

Tommaso era rimasto fuori tutto il giorno ed era rientrato da poco. Aveva avvicinato Caterina in modo guardingo e aveva chiesto perdono per le parole della sera prima, accampando la scusa del troppo vino e del pessimo umore che il matrimonio gli aveva messo in corpo, riportandogli alla mente la sua defunta moglie. Ne aveva anche approfittato per chiedere di poter avere un colloquio il giorno seguente, per parlare di affari di Stato riguardanti l'organizzazione di Imola, e la donna aveva accettato.

I figli della Contessa, invece, avevano passato la loro giornata come facevano sempre, chi a leggere, chi a studiare e chi a tirar di spada.

Il cielo su Forlì era di un grigio scuro e la luna era del tutto coperta da una spessa coltre di nubi, quando Caterina si avviò titubante alla porta di Giovanni.

Teneva stretta in pugno la lettera di Lorenzo, quella che per certo era stata stilata in codice cifrato, e aveva la testa piena di domande e incertezze. Malgrado ciò, sapeva che quella era la cosa giusta da fare.

Senza contare che, quando aveva chiesto in giro se qualcuno quel giorno avesse visto l'ambasciatore di Firenze, tutti le avevano confermato che il Medici non aveva lasciato la sua stanza nemmeno per mangiare.

“Ieri gli avete consegnato la pozione di cui vi avevo parlato?” aveva chiesto la donna al castellano.

Cesare Feo aveva annuito e assicurato di sì, così Caterina aveva voluto sapere in che stato l'uomo avesse trovato il fiorentino.

“Mi ha ringraziato ed è stato gentilissimo come sempre – aveva risposto lui – ma aveva una gran voglia di spedirmi fuori dalla sua camera, questo l'ho capito. I suoi dolori dovevano essere molto forti. Ma di cosa soffre, di preciso?”

La Tigre non aveva risposto e aveva lasciato cadere il discorso passando ad altro.

Il fatto che Giovanni fosse stato in stanza tutto il giorno non era un buon segno. La pozione, probabilmente, non aveva fatto alcun effetto, come Caterina aveva immaginato. Si trattava di un antidolorifico abbastanza blando, usato soprattutto per i dolori legati alle esigenze femminili. Le era capitato di suggerirla anche a un membro del Consiglio, suo conoscente, per la gotta, ma egli non ne aveva tratto alcun giovamento.

Siccome, però, era l'unico intruglio che conosceva, ci aveva provato. In teoria avrebbe potuto azzardare anche un tentativo con la sua pozione per far dormire, ma i rischi che succedesse qualche imprevisto, in un quadro così delicato, erano troppi.

Con un profondo sospiro, Caterina batté due colpi alla porta del Popolano. Non si sentì nulla, così riprovò.

Non aveva alcuna intenzione di desistere e, in più, quel silenzio la stava inquietando. Colpì il legno con molta più forza e finalmente suscitò una risposta.

“Andate via!” gridò la voce di Giovanni, storpiata tanto dalla presenza della porta chiusa, tanto dalla rabbia.

“Sono io...” provò a dire Caterina.

Seguì uno strano silenzio e poi si sentirono dei rumori e alla fine la serratura della porta scattò.

“Avevo chiuso a chiave perché non volevo essere disturbato.” spiegò il Medici, che portava addosso un camicione da notte e basta.

Mentre l'uomo tornava con grande fatica al suo letto e si rimetteva sotto le coperte, la Contessa deglutì e disse: “Se vi disturbo, torno in un altro momento...”

“No, voi potete restare.” disse subito il Popolano, facendole anzi segno di avvicinarsi.

La Tigre fece qualche passo verso lui e gli allungò la lettera: “Questa è di vostro fratello. È appena arrivata.”

L'uomo, i cui capelli erano incollati alla fronte dal sudore, strinse un momento gli occhi e prese la busta: “È stata già aperta.” notò.

La donna annuì: “L'ho aperta io. Volevo leggerla.”

Giovanni represse un gemito di dolore e lasciò il foglio di pergamena sul comodino. Il fatto che non si precipitasse a leggere ciò che il fratello che diceva di amare così tanto gli aveva scritto stava a indicare la gravità del suo stato.

“La pozione...” cominciò Caterina, ma l'uomo stava già scuotendo il capo.

“Non mi ha fatto nulla. Ma non abbiate pena per me. Mi passerà. Mi passa sempre.” disse Giovanni, stringendo i denti.

“Posso vedere?” chiese la donna, indicando le gambe del Medici coperte dallo spesso lenzuolo.

Benché nella stanza non facesse caldo, l'uomo era in un bagno di sudore e dal rossore del suo volto pareva molto accaldato.

“Cosa cambia?” chiese lui, ricordandosi come tutti i dottori a cui si era rivolto in quegli anni avessero fatto la stessa identica richiesta della Tigre.

“Lasciatemi guardare.” insistette Caterina e, senza troppe cerimonie, tolse le coperte per conto suo e si mise a guardare con aria critica le gambe di Giovanni.

Erano asciutte, dritte e si vedeva che, in stato di benessere, erano agili. Però le ginocchia erano scarlatte, con la pelle tirata e rigonfia e così la zona della caviglia e pure i piedi. Come s'era abituata a fare anche quando seguiva il medico di corte nel visitare gli appestati, la donna toccò le zone colpite dalla malattia per saggiarne la consistenza.

La cute era rovente e appena appoggiò la punta delle dita sui punti più sensibili, Giovanni gridò di dolore. Tanto bastò a farla fermare.

“Aspettate.” disse la Contessa e lascò la stanza.

Quando tornò, Caterina portava con sé dei sacchetti di stoffa: “Ho portato del ghiaccio. È quasi finito, ma nella ghiacciaia ne ho trovato ancora qualche pezzo.” spiegò e poi, ignorando le proteste del Medici, li sistemò uno per uno laddove servivano di più.

“Mi avrete sentito urlare, stanotte...” disse piano Giovanni, un po' ansante per il male che si acutizzava ogni volta che la Contessa sistemava un nuovo sacchetto sulla sua pelle sensibilissima.

La donna scosse il capo: “Le pareti sono molto spesse.”

Il fiorentino alzò un sopracciglio, il volto che finalmente si distendeva un po', grazie al sollievo dato dal ghiaccio, e commentò: “Meno male.”

Caterina ripensò alla notte appena trascorsa e all'uomo con cui l'aveva passata. Come le capitava spesso, si era completamente dimenticata di essere nella stanza confinante con quella di Giovanni.

Con un soffio, anche lei disse: “Già, meno male.”

“Come mai siete qui?” chiese il Popolano, quando riuscì a ritrovare un po' di presenza a se stesso.

“Dovevo portarvi la lettera.” disse la Tigre, piatta.

“Solo questo?” ribatté il fiorentino, con una smorfia a metà tra il dolore fisico e l'amarezza.

“No.” rispose la donna e, mentre Giovanni spalancava gli occhi, lei spiegò: “Ho ripensato a quello che mi avete detto ieri sera.”

“E..?” provò il toscano, teso.

“E non posso ancora dirvi che cosa provo, perché...” cominciò Caterina, mentre tutto il suo coraggio rispariva chissà dove.

“Avete ragione. Io sono merce avariata.” disse l'ambasciatore, indicando le proprie gambe con un breve gesto della mano: “Nessuno mi vorrebbe.”

“Non ho detto che non vi voglio.” lo contraddisse piccata la donna: “E poi anche io sono merce avariata.” si trovò a dire.

“Restate qui, stanotte.” propose Giovanni, guardando altrove, in imbarazzo: “Non è una proposta galante, lo capirete da voi. Solo per alzarmi e aprirvi la porta, credevo di morire. Vi chiedo solo di farmi compagnia.”

Felice di aver ricevuto quella richiesta, Caterina non se lo fece ripetere e, prima che il Medici si sentisse in dovere di aggiungere qualcosa per riuscire a convincerla, si coricò accanto a lui, stando ben attenta a non fargli involontariamente del male.

Il Popolano avrebbe voluto colmare la distanza tra loro, ma sapeva che la Tigre aveva scelto di stare così lontana solo per non farlo soffrire. Se solo l'avesse sfiorato, anche per errore, avrebbe rischiato di ripiombarlo nel tormento da cui, con fatica, lo stava strappando.

“Il ventisette del mese arriverà la prima mandata di sale.” disse piano la Contessa, guardando Giovanni con un mezzo sorriso stampato in faccia.

L'uomo si accese per un breve istante di incredulo giubilo: “Davvero? Lo sapevo che ce l'avremmo fatta..!”

Mentre il Popolano ripercorreva in fretta quello che avevano fatto, ringraziando il fato del fatto che il Magistrato avesse trovato qualche commerciante disponibile a quella transazione, Caterina lo guardava assorta.

Il suo volto, anche se stravolto della giornata passata tra i dolori e la solitudine, aveva un tratto che le sembrava unico e inconfondibile. I suoi occhi chiari erano vivi, nonostante la sua condizione, e saettavano qua e là come quelli di un ragazzo che ancora prova interesse ed entusiasmo per la vita.

I suoi capelli, anche se schiacciati contro il cuscino e impregnati di sudore freddo, lasciavano intravedere i suoi morbidi e larghi riccioli e il loro colore, un castano tranquillo, con una punta di rosso.

Le sue spalle, benché in quel momento fossero un po' incassate per la posizione antalgica che aveva assunto, erano larghe e accoglienti e la Tigre sentì la tentazione di lasciarsi prendere dalle sue braccia lunghe e affusolate, ma poi si trattenne.

Sapeva che ogni movimento, per il Medici, in quel momento sarebbe stato una tortura.

“Vi va, se vi leggo qualcosa?” propose la Contessa che, malgrado tutto, non riusciva a spegnere completamente né la mente né il suo corpo e quindi voleva tenersi impegnata in qualche modo alternativo.

Giovanni annuì e così Caterina si alzò con cautela, gli chiese che libro volesse che lei gli leggesse.

L'uomo ci pensò un momento e poi propose il volume di Boccaccio che lui stesso le aveva prestato quando era a Forlì da poco.

Mentre la donna si aggirava per la stanza, guidata delle parole del fiorentino, alla ricerca del libro, Giovanni ne guardò i morbidi capelli biondi, inframmezzati da qualche ciocca più chiara, che ondeggiavano a ogni suo movimento e ne restò tanto rapito che a un certo punto smise anche di darle indicazioni.

La Leonessa, allora, dopo aver trovato il tomo richiesto, tornò a sistemarsi sul letto con il Decameron in mano: “Da che novella partiamo?”

“Da quella che preferite voi.” rispose il Medici, con il cuore che scoppiava di gioia per il risvolto inatteso preso da quella serata.

   
 
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