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Autore: _Frame_    16/07/2017    5 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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134. Rammollita e Impietosita

 

 

L’aria dell’abitacolo del Panzer II stava diventando irrespirabile. Ungheria si sbottonò le prime tre chiusure della giacca, allentò la stoffa scoprendo la pelle imperlata di sudore a cui si era incollato qualche filo di capelli, e sventolò la mano accanto alla faccia prendendo ampi e pesanti respiri che scendevano a gravarle sul petto. Il Panzer sobbalzò, Ungheria saltò e riatterrò sul suo sedile, si aggrappò alla maniglia del periscopio e afferrò un padiglione delle cuffie prima che le cadessero dalla testa. Riappoggiò i piedi a terra, sul pavimento rialzato e tremante, e si trascinò più avanti. Chinò le spalle per accostare il viso alla visiera del periscopio.

La rete di linee perpendicolari scivolò attraverso il campo, seguita dai due triangolino calibrati, scavalcò due colonne di fumo, risalì la parete di roccia, ne percorse la larghezza, dove prima aveva visto lampeggiare gli spari delle mitragliatrici. Una densa nebbia di neve e fumo ne tappava la vista.

Ungheria si aggiustò il padiglione della cuffia che le era scivolato dall’orecchio, prese un altro profondo respiro di quell’aria stantia e tiepida, e rafforzò la voce per farsi sentire da Austria. “Più vicino, accelera.” Diede un leggero colpetto con la punta del piede allo schienale del suo sedile, sull’imbottitura. “Accelera ancora un po’.”

Austria gettò un’occhiata incerta dentro lo spioncino del posto di guida, anche il suo sguardo spianò il campo di battaglia, si soffermò sulle pareti di roccia sempre più vicine e sulle ombre degli altri carri sempre più lontane. Sollevò la punta del piede dall’acceleratore, piegò le spalle all’indietro e indirizzò la voce verso Ungheria. “Così è troppo, entreremmo nel loro campo di azione.”

“Ungheria!” Italia alzò le spalle dalla sua postazione tenendo due dita posate su una manopola della radio, girò il busto aggrappandosi allo schienale e anche lui indirizzò lo sguardo a Ungheria, bagnandosi dalla penombra verde dell’abitacolo. La sua espressione si increspò in una ruga di ansia, un rivoletto di sudore discese la guancia e percorse la curva del collo. “Abbiamo appena perso due carri, ho avvertito il battaglione sanità di andare a recuperare l’equipaggio, ma non possiamo rischiare anche noi di...”

Ungheria scosse il capo. “No, dobbiamo continuare.” Impugnò la manopola che guidava il piccolo cannone della mitragliatrice, strinse le dita fino a far tremare le nocche e gemere la pelle, e posò di nuovo gli occhi sulla visiera del periscopio. “È ovvio che sono guidati da Nuova Zelanda, e che dobbiamo colpire lui se vogliamo rallentare l’attacco.” Tornò a spianare la superficie della montagna, le rientranze di roccia scura e le sporgenze fatte di ghiaccio. Prese un respiro che la caricò di energia, alzò la voce. “Avanti tutta, fin sotto la montagna!”

Austria nascose nella penombra un’espressione contrariata, ma strinse comunque le mani alle due leve di comando, e spostò il peso sulla punta del piede. Abbassò il pedale, accelerò, tremori più forti si propagarono attraverso l’abitacolo del Panzer e aumentò l’odore di benzina che impregnava l’aria stantia.

Ungheria restrinse lo sguardo da dietro la visiera del periscopio.

Una figura corse lungo il profilo della montagna, si allontanò dalle postazioni delle mitragliatrici, zoppicò, inciampò, e il peso dell’arma caricata sopra la sua spalla lo spinse a chinarsi e a rallentare.

Ungheria allargò le palpebre, nei suoi occhi si riflesse l’immagine di Nuova Zelanda, chino, tremante sotto il peso della mitragliatrice che stava trasportando, e tagliato dalla rete di linee calibrate. “Eccolo.”

Nuova Zelanda compì gli ultimi passi con le ginocchia flesse e le spalle ingobbite, la schiena tremante. Scivolò con le ginocchia a terra, piazzò la mitragliatrice distendendo il tripode, distese il nastro di caricamento, raddrizzò il corpo dell’arma, rivolse verso il basso la bocca di fuoco, e puntò entrambi i pollici sulla sporgenza della manopola di sparo. Il suo visetto scomparve dietro il corpo della mitragliatrice, si accinse a prendere la mira.

Ungheria agì di riflesso, piegò anche lei le dita sulla manopola di guida della mitragliatrice in cima alla torretta, la sollevò prendendo la mira, irrigidì i muscoli. “Mi spiace, piccolo.” Flesse le dita, i polpastrelli a sfioro del grilletto. “Ma stai facendo troppi danni.” Piegò le falangi, scaricò un rigetto di energia che passò dalle sue braccia al corpo dell’arma. Le raffiche esplosive scoppiarono risucchiandole una scossa elettrica dal corpo e le aprirono un vuoto al petto.

La scia di spari trafisse l’aria, i lampi esplosero e illuminarono le pareti di roccia incrostate dal ghiaccio, i fori scavati dai proiettili disegnarono una scia ondeggiante attraverso lo strato di ghiaccio che sorreggeva la sporgenza dove era accucciato Nuova Zelanda. Un blocco di neve si staccò, precipitò nella sporgenza più bassa ed esplose in un’ondata di schizzi bianchi. Un ramo nero attraversò il ghiaccio appena rotto, la crepa si allargò, produsse il suono secco di un torrone che viene frantumato, e scivolò gonfiando una seconda frana. La sporgenza precipitò e inghiottì Nuova Zelanda all’interno dei suoi frammenti.

Italia si staccò dal pannello della radio, girò lo sguardo sollevando il cavo delle cuffie, e lanciò un’occhiata allarmata a Ungheria. “Sei riuscita a prenderlo?”

Ungheria si morse il labbro, una ciocca di capelli le scivolò sulla guancia ma lei non la toccò. Scosse la testa. “Non direttamente, no, ma credo di averlo fatto cadere.” Aspettò che il gonfiore della frana si dissolvesse, che il vapore si dilatasse aprendo il guscio di nebbia attorno a una piccola sagoma accovacciata sulla sporgenza dove si era schiantata la breve valanga. Nuova Zelanda raddrizzò le braccia reggendosi sulle mani e sulle ginocchia, le sue spalle tremarono, lo fecero tornare a cadere, ad accasciarsi dentro la nebbia di neve appena esplosa.

Ungheria sussultò, fermò la mira del periscopio. “Trovato.” Tornò ad appoggiare le dita attorno alla manopola della mitragliatrice, gli occhi fermi sul suo obiettivo. “Ora...” Flesse le falangi, tornò a sollevarle, irrigidì le dita, e non sparò. Nuova Zelanda ebbe un fremito e quell’immagine la fece esitare. “Ora devo solo...” Riprovò. Piegò le dita ma la pelle prese a sudare, le mani si impietrirono, e una prima ondata di panico le risalì il petto, ghiacciandole il viso. Confusione e paura stagnarono attorno al suo cuore. Ungheria accelerò il respiro. “Devo solo...” Nuova Zelanda tornò a sollevare le spalle, si toccò la testa stringendo una profonda espressione di dolore, e Ungheria sentì un buco al cuore. Non sparò.

Austria si voltò, le rivolse un’occhiata smarrita. “Ungheria?”

Ungheria staccò gli occhi dalla visiera del periscopio, da quella vista che non riusciva a sostenere, e buttò gli occhi sulle sue mani spalancate. Tremavano, sudavano, e cominciò a farlo anche lei.

Perché non ci riesco?

Il panico crebbe in terrore, le sdoppiò la vista che da verde divenne rossa, i tremori del Panzer si trasformarono in un forte fischio che le attraversò la testa, paralizzandola in quella posizione.

La mitragliatrice rimase muta.

 

.

 

La sagoma del Panzer II che si era staccato dalla formazione motorizzata si allargò all’interno delle lenti del binocolo, la torretta ruotò, la punta del cannone si sollevò verso il cielo, la bocca di fuoco rivolta dalla parte opposta a chi lo stava osservando. I fumi delle altre esplosioni che tappezzavano il campo di battaglia gli scivolarono attorno, come tentacoli evaporati dalla neve, lo intrappolarono in un arbusto di nebbia.

Nuova Zelanda irrigidì, scosso da un brivido di sospetto, e tenne le dita ben salde attorno alla forma del binocolo posato attorno alle sue orbite. Quel Panzer... Strisciò in avanti con i gomiti immersi nella neve, allargò il campo della visuale, e si soffermò sul piccolo cannone in cima alla massa metallica del carro armato. È un Panzer II, praticamente un mezzo ricognitivo. Si morse il labbro, tamburellò l’indice sopra la rotellina metallica del binocolo. Eppure sembra quasi che sia lui a dominare la battaglia e a guidare il resto della divisione. Si tolse le lenti dalle orbite e si strinse il mento, l’occhio nudo si riabituò alla luce riflessa sulla neve, all’aria fredda fra le ciglia. Seguì la corsa del Panzer che era diventato grande quando uno scarafaggio in mezzo al bianco, rimuginò. Prussia e Romano sono fuori, li ho visti correre davanti ai miei occhi. Ma là dentro c’è qualcuno che sta facendo il lavoro al posto loro.  Strinse un pugno a terra e trattenne il fiato, si lasciò cogliere da un unico brivido di timore. Devo neutralizzarlo. Mollò il binocolo lasciandolo penzolare dal collo, aprì entrambe le mani a terra, si diede una spinta con le ginocchia, e pestò i piedi al suolo. Si rimise in piedi scattando come una molla. Devo uccidere il capobranco in modo che tutti gli altri si trovino indeboliti e disorientati.

Altri spari esplosero dalle postazioni neozelandesi, i lampi scoppiarono aprendo aloni di gas che finivano trascinati via dai fischi del vento che sbatteva contro la montagna. Nuova Zelanda si tolse il cappuccio dalla testa, si lasciò pizzicare dall’aria di ghiaccio che gli scosse i capelli sudati, e si gettò verso la mitragliatrice che aveva lasciato dopo che Inghilterra era sceso ad aiutare Australia.

Raccolse il tripode, chinò le spalle per caricarselo sulla schiena, prese anche il nastro caricatore passandoselo attorno al collo, e una prima fitta di dolore gli attraversò la spina dorsale. Le ginocchia tremarono, il corpo cominciò a sudare, ma Nuova Zelanda strinse i denti e resistette. Lo devo attirare lontano. Allungò un primo passo, immerse il piede nella neve, piantò la gamba e indurì il muscolo. Restò immobile fino a che il ginocchio non smise di tremare. Inspirò, espirò. Lasciò che il peso della mitragliatrice che gli gravava sulle spalle si scaricasse sui piedi e che gli desse equilibrio. Devo tendergli una trappola!

Corse via. Superò il battaglione dei mitraglieri, allontanandosi da loro, e mirò a una sporgenza di roccia e ghiaccio più isolata.

Scaricò a terra il peso della mitragliatrice stando attento a non inciampare sul nastro caricatore, si buttò anche lui sulle ginocchia squagliando grani di neve sotto le gambe, e si aggrappò al corpo dell’arma per regolarla. Chinò il capo, restrinse le palpebre, prese la mira inquadrando il corpo del Panzer II che lo stava inseguendo con il cannone della mitragliatrice, e poggiò entrambi i pollici sulla manopola dello sparo. Strinse la punta della lingua fra le labbra, trattenne il respiro.

Fermi così, bravi.

La mitragliatrice del Panzer scaricò una raffica di lampi, e lo scroscio improvviso lo fece sobbalzare.

La scia di spari si schiantò sulla sporgenza dove Nuova Zelanda si era piazzato, aprì una crepa fra la neve che fece tremare tutta la parete della montagna.

Il terreno franò sotto le sue gambe, il suolo si aprì risucchiandolo in un vortice di neve e rocce che lo trascinò verso il basso, e l’improvvisa caduta gli aprì un buco nello stomaco. “Whaa!” Nuova Zelanda gettò le braccia verso il cielo, spalancò le mani verso le immagini delle rocce frananti che gli stavano crollando addosso, e batté la schiena sulla rientranza sottostante prima di riuscire a strizzare le dita e ad aggrapparsi al vuoto. Il colpo al fianco gli fece ingoiare il respiro. “Bwah!” Il suo corpo rotolò, scivolò contro un mucchio di neve che si era raccolto dopo essere piovuto dalla parete di roccia, e Nuova Zelanda batté la testa contro uno spigolo metallico. Cleng! La vista si macchiò di nero, le orecchie si tapparono ovattando il rombo della frana che stava finendo di crollargli attorno, e un senso di vertigini gli vorticò attorno alla testa sollevando un profondo senso di nausea.

Gli ultimi mucchi di neve finirono di piovere dalla sporgenza crollata, cristalli di ghiaccio precipitarono sulla sua schiena, gli macchiarono i capelli e gli punsero la nuca. Il sapore ferroso, di pioggia gelata, gli scivolò in bocca mescolandosi a quello del sangue.

Nuova Zelanda sputò un grumo di neve sciolta e insanguinata, strizzò gli occhi, rantolò di dolore, e portò una mano alla testa, nel punto dove aveva battuto contro la mitragliatrice che era crollata assieme a lui. Si massaggiò fra i capelli con le punte delle dita. “Ghn, che male.” Spostò le gambe, tirò a sé il ginocchio destro, ma un ramo di dolore risalì l’anca e gli trafisse la schiena, lo costrinse a tornare immobile. N-non riesco... Nuova Zelanda si accasciò sul fianco, i gomiti raccolti al petto e la gabbia di dolore a inguainargli il torso. Boccheggiò. Sudori di dolore e paura gli bagnarono la faccia. Non riesco ad alzarmi.

Tese il braccio e si aggrappò al corpo della mitragliatrice che gli era caduto affianco, si trascinò più avanti usando solo i muscoli delle braccia. Cosa faccio? Mi colpiranno di nuovo se resto fermo.

Scricchiolii simili a quelli che aveva udito prima della frana vibrarono sotto di lui, attraversarono la sporgenza di roccia sulla quale era crollato, e Nuova Zelanda visualizzò già una nuova crepa pronta a spaccarsi per farlo precipitare in bocca ai Panzer.

Nuova Zelanda si diede una spinta più forte. Dai, gambe muovetevi, vi prego. I gomiti cedettero e lui tornò a crollare. Il respiro affaticato aveva il sapore della neve sciolta e del sudore, del suo sangue. Non posso lasciarmi sconfiggere qui.

 

.

 

La sagoma di Australia che stava correndo dandogli le spalle si macchiò di foschia, si sdoppiò, tornò a unirsi, i bordi sfumarono mescolandosi all’ambiente grigio, sporcato dai fumi delle esplosioni e dal nero delle rocce franate. Gli girò la testa.

Prussia scosse il capo, si strofinò la manica della giacca sugli occhi strizzati per rischiarire la vista storpiata dalle vertigini, e rallentò la corsa. I muscoli delle gambe si indebolirono, il fiato pesante già premeva sui polmoni, le piaghe aperte dall’esplosione della bomba anticarro bruciavano a contatto con i soffi del vento ghiacciato. Strinse i denti, gettò il braccio lontano dalla faccia, tornò a portare la vista sul corpo di Australia che si stava allontanando. Merda. Trattenne il fiato, raccolse tutte le energie in mezzo ai piedi, e accelerò ignorando le grida di dolore delle ossa. Non riuscirò mai a raggiungerlo, lui ha meno ferite di me.

Il peso della pistola infoderata gli batté sul fianco. Prussia compì un’altra falcata schivando una roccia ed estrasse la pistola tenendo l’indice intorpidito fuori dall’anello del grilletto. Il braccio tremava, la mano sporca di sangue stava perdendo sensibilità.

Speriamo di riuscire ancora a prendere la mira.

Piegò la falange dell’indice, infilò il dito nell’anello del grilletto, l’unghia scivolò sulla levetta, si aggrappò senza far pressione. Prussia sollevò il braccio reggendosi la spalla dolorante, socchiuse un occhio, e rivolse la punta della canna in mezzo alle scapole di Australia. Schiacciò il grilletto tre volte di seguito. I tre proiettili trafissero l’aria e fischiarono addosso ad Australia.

Una pallottola si schiantò accanto al suo piede destro. Australia scattò di lato, schivò anche il secondo proiettile che gli volò sopra la spalla, e abbassò la testa sentendo il terzo volare a uno sfioro dai suoi capelli. Continuò a correre verso la frana, gettò lo sguardo all’indietro e lanciò uno sfrontato ghigno di sfida a Prussia, macchiato dai rivoli di sangue che gli rigavano il viso. Tutto qui?

Tutta la rabbia esplosa nel cuore di Prussia corse attraverso il sangue e si raggrumò all’interno del pugno che stringeva la pistola. Prussia impennò il braccio sopra la testa, puntò la canna della semiautomatica contro la neve che si era solidificata contro le rocce, e sparò altri tre colpi.

Una rete di crepe ramificò attorno alla parete, scricchiolò sbriciolando ghiaia e neve, e staccò una porzione di ghiaccio.

Il blocco si schiantò davanti ad Australia, lo travolse con un’ondata di neve che lo fece saltare all’indietro. “Ah!” Australia si riparò la testa incrociando le braccia davanti alla faccia, indurì i muscoli dei polpacci per tenersi saldo a terra e non finire trascinato via dalla risacca di aria che si era gonfiata venendogli addosso.

Prussia ghignò. Abbassò di colpo la pistola, allungò uno slancio di corsa più ampio, e tornò a mirare alla sua schiena, l’indice già ricurvo sul grilletto.

La scintilla argentata catturò lo sguardo di Australia. Lui si girò, si ritrovò la bocca della pistola riflessa negli occhi spalancati, e scivolò di lato. Sfoderò la sua. Sparò ancora prima di aver raddrizzato il braccio.

Il proiettile esplose in mezzo ai piedi di Prussia, lo fece inciampare. “Ghn!” Prussia poggiò il piede di traverso, una scossa di dolore schioccò fino alla ferita al bacino, e quel colpo improvviso lo fece cadere su gomiti e ginocchia.

Si ritrovò con il naso nell’odore di neve e ferro, i pugni tremarono, la martellata di rabbia gli colpì la nuca e gli fece stridere i denti, gonfiò le vene del collo. No, no, merda, non posso crollare qui.

Australia ritirò la pistola, gli lanciò un ultimo sguardo di disprezzo, e scivolò di un passo all’indietro per continuare la corsa.

Lo scroscio di un’altra frana catturò lo sguardo di entrambi.

Australia spalancò gli occhi, seguì l’esplosione bianca che si dilatava inghiottendo una porzione di cielo, e la paura cancellò l’espressione di odio che gli aveva attraversato il viso. “Oh, no.” Riprese a correre, schivò due rocce che erano franate dalla parete a cui Prussia aveva sparato, e volò incontro al nuvolone.

Prussia si strinse la spalla che perdeva più sangue, sollevò le ginocchia da terra, premette i piedi al suolo ignorando i crampi di dolore ai muscoli, e anche il suo sguardo percorse il campo di battaglia fino alla parete di roccia da cui era crollata la seconda frana. Sbatté le palpebre. Gocce di sangue ormai freddo piovvero dalle punte dei capelli e gli bagnarono il viso. Sono loro? Abbassò gli occhi sull’immagine del Panzer II fermo sotto la parete, la punta della mitragliatrice rialzata ma muta. Hanno fatto partire loro i colpi, come avevo detto. Ma allora perché adesso...

“Che stai facendo?” Zoppicò di un passo in avanti, il respiro tornò a pesare e a dolergli all’altezza del petto, rese la voce soffocata. “Sparagli.” Altro passo. Il piede affondò fino alla caviglia, gli strappò un gemito di dolore che gli fece strizzare l’occhio. “Sparagli, stupida, prima che possa scappare.” Allungò un altro passo, lo pestò con più violenza. Si gonfiò i polmoni e lanciò un urlo che ruggì come un’altra franata di roccia. “Sparagli!”

Un altro crollo. E anche Australia sparì, inghiottito dalla valanga che aveva travolto la conca.

Prussia ringhiò. “Verdammt!” Raccolse le ultime energie che gli erano rimaste e le usò per sfrecciare verso il Panzer che non si era ancora mosso.

 

.

 

Nuova Zelanda si mosse all’interno del quadrante del periscopio. Raccolse la gamba contro il petto, si girò sul fianco portando una mano alla testa. Le ciocche di capelli che si erano scompigliati durante la caduta gli celarono l’espressione di dolore che gli aveva stropicciato il viso. Altre briciole di neve piovvero dalla sporgenza dalla quale era caduto, gli infarinarono l’uniforme di bianco, e lui tornò immobile, le gambe distese e il volto accasciato fra le braccia.

Italia si mise con le ginocchia sopra il suo sedile, si girò aggrappandosi allo schienale con entrambe le mani, e sporse le spalle arrotolate nel cavo delle cuffie verso la postazione del capo carro. “Ungheria?” la chiamò. “U-Ungheria, cosa...”

Ungheria tremò ancora. Gli occhi fissi sulle mani spalancate, e le labbra vibranti attraversate da quei sospiri rotti dal caldo dell’abitacolo. Cosa mi succede? Perché... Il cuore accelerò, tornò a gonfiarsi di panico. Perché non riesco a sparare? No, non posso... Impugnò di nuovo i comandi della mitragliatrice e le dita ghiacciarono, divennero tutt’uno con l’arma. Non posso fare questa fine. Devo... Forzò le dita a muoversi, piegò le spalle in avanti come se dovesse spostare un peso, staccò gli occhi dal periscopio per non trovarsi davanti all’immagine di Nuova Zelanda, ma non sparò. Io devo combattere!

All’interno del quadrante calibrato, Nuova Zelanda raddrizzò i gomiti, si resse sulle braccia tremanti, la testa china fra le spalle, e un altro crampo di dolore lo fece accasciare di nuovo a terra.

La crepa che si era aperta quando era crollato si dilatò, staccò un altro blocco di neve, e una seconda frana lo ingoiò, lo fece piovere a terra con tutta la sporgenza sbriciolata.

Italia si coprì la bocca. “Oh, no!” E anche Austria emise un gemito allarmato, tenne il Panzer fermo davanti al crollo, davanti a Nuova Zelanda che stava cadendo davanti ai suoi occhi.

Una sagoma saltò fuori dalla nuvola di neve. Australia spiccò un balzo rannicchiando le ginocchia al petto, allungò le braccia verso il corpo di Nuova Zelanda che stava cadendo, e torse il busto per acchiapparlo al volo. Nuova Zelanda gli atterrò fra i gomiti, e Australia chiuse la presa. “Preso, Kiwi!” Se lo strinse al petto e atterrò a piedi pari al suolo, sotto la cascata di neve che continuava a franare assieme ai frammenti di roccia. Caricò Nuova Zelanda sulla spalla lasciando che le gambe ciondolassero lungo la sua schiena e le braccia lungo il suo torso ferito, e corse via. Lanciò un’ultima occhiata distratta in direzione del Panzer fermo e sparì dalla loro vista.

Italia aveva ancora le ginocchia premute sul sedile, lo sguardo perso nella confusione. “Ma cosa...” Scosse il capo, tenne le cuffie ferme, e si rivolse ad Austria. “Dobbiamo andarcene subito!”

Ungheria sussultò, una scossa di lucidità le attraversò la testa. “S-sì.” Tornò ad accostare gli occhi al periscopio, ma l’anello di panico non aveva ancora allentato la stretta attorno alla sua testa. “Solo...”

Qualcosa sbatté contro il portellone della torretta.

Italia lanciò un grido. “Ah!” Si appese al braccio di Austria ed entrambi sollevarono gli sguardi. “Cos’è stato?” esclamò.

Austria sovrappose la mano alla sua, si sporse dal suo sedile, tese il braccio verso la maniglia interna del portellone. La sfiorò. La torretta si aprì da sola, rivelò un’immagine nera contro la luce del cielo offuscato dai fumi e dai gas, avvolta dal vento che le fischiò attorno scuotendo vestiti e capelli.

Prussia aprì la mano libera – quella che non reggeva il portellone –, la accostò alla bocca, e gridò per farsi sentire da tutti e tre. “Via da qui se non volete finire sepolti dalla neve un’altra volta!”

Austria capì al volo, annuì. Si rimise ai comandi con ancora Italia appeso al braccio, e diede una brusca accelerata allontanandosi dalla frana.

Italia si slacciò da lui, tornò ad appendersi allo schienale del suo sedile, e salì sulle punte dei piedi per avvicinarsi alla torretta spalancata. “Prussia!” lo chiamò. “Prussia, dov’è Romano?”

Prussia si riparò la fronte dal vento, abbassò leggermente le spalle per stare in equilibrio sul carro in corsa, e guardò davanti a sé. “Andiamo a prenderlo proprio ora!” Chinò la testa, guardò all’interno dell’abitacolo, restrinse le palpebre per scavare nel buio, e raggiunse Ungheria, guardandola duramente. “Si può sapere che ti è preso?” Le urlò per andare sopra le vibrazioni del motore. “Ti sono cadute le mani?”

Ungheria sobbalzò, divenne viola in faccia. “N-no, io...”

“Te l’ho detto che ti sono venuti i calli da massaia.”

“Ti dispiacerebbe affrontare l’argomento più tardi?” intervenne Austria. “Abbiamo altre priorità, al momento.”

Prussia sbuffò, si sedette sulla torretta, lasciò ciondolare le gambe all’interno del carro, e si tenne appeso al portello aperto con una mano sola. “Tu stai zitto e pensa a guidare.” Aprì di nuovo la mano davanti alla fronte, come una vedetta, e un’idea cominciò a ronzargli nel cervello, sempre più rumorosa e solleticante. “Andiamo a recuperare Romano, ma prima...” Allargò un ghigno ampio e affilato. Gli occhi brillarono di entusiasmo, si infuocarono. “Ci fermiamo a prendere un giocattolo più bello.”

 

.

 

Romano compì un passo avanti, schiacciò un’impronta che scricchiolò sulla neve fresca, e tese il braccio che sosteneva il peso della pistola verso il basso. Strinse le dita rosse e infreddolite attorno al calcio dell’arma, flesse l’indice e lo sollevò sul grilletto. “Sbaglio...” Accostò la bocca di fuoco alla nuca di Inghilterra, e la sporgenza a forma di dente del mirino grattò in mezzo ai suoi capelli, gli trasmise una fredda scossa di timore. Inghilterra strinse i denti e chiuse i pugni fra la neve. Stette immobile, ma lo sguardo rimase alto. Romano aggrottò la fronte. Il volto buio, gli occhi brucianti di rabbia. “O abbiamo ancora qualcosa in sospeso, io e te?”

Inghilterra spostò la vista sulla parete di roccia appena travolta dalla valanga. La nuvola di neve iniziò a sciogliersi come la foschia di una nebbia, l’eco del rombo si affievolì, risucchiato dalla vallata, e le sagome di Australia e Prussia che si stavano inseguendo erano sempre più piccole. Inghilterra soffiò un denso e bianco sospiro di sollievo. Va tutto bene, si disse. Finché Australia e Nuova Zelanda sono ancora in grado di proteggersi a vicenda, non ho nulla di cui preoccuparmi. Ruotò la coda dell’occhio verso Romano, e la canna della pistola si mosse fra i suoi capelli, grattò la nuca come un’unghia affilata. Inghilterra restrinse le palpebre in uno scuro sguardo di minaccia che Romano non vide. Riuscirò a uscire anche da questa situazione. “Che aspetti, allora?” Si strinse nelle spalle, distese lo sguardo in un’espressione distratta e parlò con tono indifferente. “Vuoi la tua vendetta? Hai la tua occasione davanti ai tuoi occhi.” Tornò a rivolgere gli occhi in mezzo alla neve, davanti alle sue ginocchia piegate, ed emise uno sbuffo svogliato. “Sparami, se pensi che questa sia la cosa giusta.” Piegò un fine sorriso da furbo che gli inasprì la voce e lo aiutò a ignorare il prurito bollente della pistola posata sulla sua testa, pronta a esplodere in uno sparo e a vomitargli un proiettile attraverso il cranio. “Ma non credere di ottenere qualcosa, non sarà eliminando me che arriverete alla vittoria.”

“Zitto.” Romano gli diede un colpetto alla nuca con la volata. La sua mano stretta al calcio irrigidì, il braccio vibrò di tensione come una corda tirata, le sue parole pregne di rabbia liquida si gonfiarono in una spumosa condensa bianca. “Non provare ad aprire bocca su quello che dovrei farti, bastardo.”

“Ed è a questo che vuoi abbassarti?” Inghilterra tornò a ruotare gli occhi sopra la sua spalla, sollevò le sopracciglia, squadrò Romano con sufficienza. “A sparare a una nazione disarmata ottenendo una vittoria sterile e insensata che di certo non riparerà a tutto il dolore che hai patito durante le tue sconfitte?”

L’indice di Romano tremò contro il grilletto, il suo respiro si appesantì, il battito accelerò arroventandogli il flusso del sangue che si scaricava fino alla sua mano chiusa attorno al calcio. Le mie sconfitte... “Chiudi la bocca,” abbaiò.

Inghilterra piegò un mezzo ghigno di soddisfazione che si infossò nell’ombra. E adesso vediamo quanto sono bravo a salvarmi la pelle e a uscire da questa dannata situazione. Tornò a scrollare le spalle, indifferente, e nascose quell’espressione di astuzia rivolgendo lo sguardo alla neve. “E io che credevo che tu fra tutti fossi quello che avrebbe davvero potuto dare una svolta a questo conflitto.”

Romano schiuse le labbra, dalla bocca irrigidita uscì un debole gemito ancora scosso e pregno di nervosismo. “Tu cos...” Quelle parole si erano infilate nella sua mente come la punta di un cacciavite che scardina una rotella dell’ingranaggio. Inarcò un sopracciglio, i nervi si tesero e rimasero sulla difensiva, ma tirò la mano all’indietro. Staccò la bocca della pistola dalla nuca di Inghilterra e sbatté le palpebre. “C-cosa?” Un barlume di confusione gli attraversò lo sguardo.

Inghilterra si rosicchiò un angolo della bocca per non rendere troppo ovvio il mezzo ghigno che gli increspava le labbra. “Credi che quei combattimenti in cui io ti ho affrontato siano serviti solamente ad avvantaggiarmi sull’andamento della guerra? Una battaglia serve prima di tutto a studiare l’avversario, a imparare a conoscere i suoi punti di forza, le sue debolezze...” Ruotò la coda dell’occhio, gli lanciò uno sguardo fine e appuntito da sopra la spalla, gli trapassò il cuore. “Le sue paure.”

Romano sussultò, come se Inghilterra avesse steso la mano e gli avesse penetrato il petto con le punte delle dita, ghiacciandogli il battito del cuore. Una fitta sensazione di disagio sollevò la pelle d’oca fino all’ombelico, brividi di freddo e malessere percorsero il suo corpo, lo fecero tremare come se Inghilterra gli avesse strappato i vestiti di dosso e lo avesse lasciato nudo in mezzo al vento ghiacciato, i piedi spogli affondati nella neve.  

Inghilterra approfittò della sua esitazione. “Sul serio credi che io non mi sia accorto che tu non riuscirai mai a entrare in sintonia con questa alleanza?” insistette. “Che non è nell’Asse il tuo posto?”

Romano tornò a stringere i denti, li digrignò, e una fiammata di rabbia gli arroventò il petto, lo mandò a fuoco. “Non provare a fare l’intelligentone con me, stronzo.” Sollevò un piede, gli schiacciò la suola incrostata di neve sulla spalla, lo spinse a piegare la schiena, e tornò a premergli la pistola sulla nuca, facendogli abbassare la testa. Inghilterra si rimangiò un gemito di frustrazione ma stette immobile. Romano prese un respiro profondo, si lasciò avvolgere dalla calda e bruciante sensazione di averlo piegato sotto il peso del suo piede e di tenerlo nella traiettoria dei suoi proiettili, e placò il fuoco che gli ribolliva nello stomaco. “Hai ragione,” gli disse con tono più calmo, “anche io ho imparato a conoscere te sotto un altro punto di vista. E so che stai solo cercando di manipolarmi.”

Inghilterra contenne un soffio di risata, fece roteare gli occhi al cielo, e piegò un sorrisino vago e innocente. “Io?”

Romano lo zittì tornando a fargli sentire la pressione metallica della semiautomatica sul cranio. “È da quando la guerra è cominciata che non hai fatto altro che giocare sporco, manipolando persino i tuoi alleati pur di concludere i tuoi piani.” Inclinò leggermente il capo di lato, indirizzò lo sguardo in cerca del suo viso chino, in cerca dei suoi occhi celati nell’ombra. “Perché sei qui, eh?” Gli diede una spintarella con la punta dello stivale, fece pressione sulla spalla. “Perché hai deciso di batterti dalla parte di Grecia pur sapendo che nemmeno per te ci sarebbe stato scampo una volta che sarebbero arrivati i crucchi ad aiutarci? Cosa ti ha spinto a mettere in pericolo i tuoi uomini? Persino le tue colonie che...”

“Non chiamarli così.” Il mezzo ghigno di Inghilterra si appiattì, il suo sguardo ingrigito di colpo scivolò a terra, ma rimase velato di quella maschera di indifferenza. “Ormai non lo sono più per me.”

Romano fece di nuovo pressione con il piede, gli diede una tallonata sulla scapola. “Rispondimi,” ringhiò. “Voglio sapere perché lo stai facendo.”

Inghilterra guardò Romano di sbieco. Si ritrovò con gli occhi posati sulla sua gamba piegata e sul piede che gli teneva premuto sulla spalla. Non lo vide in faccia, ma percepì lo stesso il peso del suo sguardo premere su di lui. Si strinse nelle spalle. “Mi dispiace deluderti,” guardò verso la strozzatura fra le montagne dove erano corsi Australia e Prussia, “ma non l’ho fatto per solidarietà, o per prevenire qualche ingiustizia, usando parole più blande.” Un soffio di vento gli passò attraverso, aghi di neve gli punsero le guance e la fronte, l’odore delle esplosioni che tuonavano attraverso la conca gli pizzicò le narici e la gola, i capelli si mossero rimanendo macchiati di bianco. Il familiare profumo del campo di battaglia gli strinse il petto, sollevò un tiepido sentimento di malinconia. Inghilterra socchiuse le palpebre. “Hai ragione, la mia è una strategia, lo è sempre stata.” Aprì e strinse i pugni sulla neve. Le ginocchia schiacciate al suolo cominciavano a intorpidirsi, il formicolio iniziava a risalire le gambe e a infreddolire i muscoli delle cosce e dei polpacci. Inghilterra rabbrividì. “Ho deciso di intervenire qua in Grecia perché pensavo davvero che avremmo avuto una qualche speranza di farcela. Vincendo, avrei potuto riconquistare l’Europa partendo proprio dal Peloponneso.”

“Solo dal Peloponneso?” ribatté Romano. Un altro colpetto di pistola. La punta dello stivale si inclinò e spinse più peso sulla spalla di Inghilterra. “O magari venendo a invadere anche me? Da qui alla Puglia c’è solo uno sputo di mare, lo hai visto anche tu da Taranto.”

Inghilterra si morse di nuovo il labbro inferiore ma non riuscì lo stesso a trattenere uno sputo di risata che gli scosse il petto e che affondò una graffiata di dolore attraverso la gola ferita. “È una cosa che temi, Romano?” Gli lanciò un’altra frecciata, più fredda e crudele. “O è una cosa che speri?”

Romano raggelò, sbarrò gli occhi che divennero vitrei, il cuore si gonfiò di umiliazione, e il sangue arroventato batté sulle tempie come una serie di martellate date alla testa. Rabbrividì. Il suo corpo in equilibrio su un piede solo vacillò. Fu come se Inghilterra gli avesse strappato la pelle dal corpo con una sola artigliata.

Il corpo di Inghilterra fremette sotto la bocca della pistola, trasmise la scossa a Romano. “Era questo che volevi sentirti dire?” insistette. “Avevi bisogno di sapere che sto facendo questo per puro senso di giustizia?” Lo guardò di nuovo con quegli occhi sottili e crudeli che brillavano di una luce astuta. “Volevi essere sicuro che saremmo disposti a venire a salvare anche te dalle catene dell’Asse, se la situazione dovesse degenerare anche per il tuo paese?”

Romano tornò a bollire di rabbia, il sangue gli infiammò le guance e sciolse tutto il ghiaccio che si era cristallizzato dopo quelle parole. “Stai... sta’ zitto!” Schiacciò la pistola fra le dita, vi fece stridere le unghie sopra, e tornò a spingerla contro la testa di Inghilterra, facendolo tornare a capo chino. Il fiato ancora non riusciva a uscire dalla gola. “Io...” Inspirò a fondo, placò i gorgoglii che stagnavano nello stomaco torto in quel nodo di odio e frustrazione, e indurì la voce. Così fredda che sembrava sputasse ghiaccio dalle labbra. “Io non ho bisogno di essere salvato. Né da voi né da nessun altro.”

“Oh, ma ti capirei, credimi.” Inghilterra spinse le spalle all’indietro, premette una leggera resistenza sulla suola schiacciata alla sua scapola, e la gamba di Romano scivolò giù dalla schiena, lo liberò di un peso. I suoi occhi si fecero più miti, guardarono Romano con un velo di compassione. “A Taranto ti hanno abbandonato al tuo destino, dopotutto. E anche durante l’operazione nel Mediterraneo, anche se era stata tua l’idea di attaccare, nemmeno Prussia è riuscito a fare nulla per portarti alla vittoria.” Sollevò un braccio – Romano ebbe un sussulto ma non schiacciò il grilletto – e indicò due volte l’immagine della frana sciolta dalla parete della montagna. Il nuvolone bianco si stava inghiottendo le ombre dei Panzer, i lampi delle cannonate e delle mitragliate, e le tuonate delle armi che continuavano a sputare fuoco. “Germania stesso ha impiegato mesi prima di decidersi a venire qua a salvarvi, lasciandovi a marcire nel gelo e nel fango perché sarebbe stato troppo pericoloso per lui intervenire durante l’inverno.”

Romano sbuffò, schioccò la lingua in un moto di disprezzo che gli lasciò l’amaro in bocca. “Anche tu avresti fatto lo stesso.”

“Lo so.” Inghilterra abbassò il braccio, tornò a stringere il pugno nella neve, e quell’improvvisa scossa di freddo fece riaffiorare le parole che lui e Grecia si erano scambiati, gli sguardi gelidi che si erano lanciati, e il distacco che aveva tenuto i loro animi separati fin dall’inizio della campagna. Prese un breve sospiro. “Ma i patti fra me e Grecia sono sempre stati molto chiari,” spiegò. “Io e lui non abbiamo mai finto un rapporto di amicizia, non ci siamo mai ingannati a vicenda, abbiamo entrambi messo in tavola le nostre priorità senza nasconderci nulla.” Rinnovò quel ghigno furbo e calcolatore che faceva venire voglia di strapparglielo dalla bocca. “Secondo te è quello che sta facendo Germania con voi, mh? Secondo te è sempre stato onesto con il tuo paese?” Rafforzò la voce, mirò dritto al cuore del nemico. “Con tuo fratello?”

Romano raccolse le sue ultime parole come un affronto, come se Inghilterra gli avesse tirato una sberla. Nel lampo di quello schiaffo, rivide lo sguardo abbattuto di Italia, le sue mani strette attorno al ricevitore della radio, i suoi occhi sconfortati, il capo che annuiva debolmente alle parole di Germania, “In primavera, non prima”, le dita che giocherellavano con la croce di ferro, l’espressione ansiosa e distante rivolta all’orizzonte, in cerca di lui. E Germania che non arrivava mai.

Romano ingoiò un acido conato di odio. La pistola cominciò a pesare e a scottare fra le sue mani. “Ma...” Tornò a colpire Inghilterra con la volata della pistola. “Ma tu che ne sai?” ruggì. “Io non spero nulla! Non spero di essere salvato da nessuno, tantomeno da pezzi di merda come voi! E anche se...” Un tremore lo scosse. Il pensiero dei loro piedi pestati sulla sua terra gli diede il voltastomaco, lo fece sentire con la faccia schiacciata da pesanti suole fangose che gli impedivano di rialzarsi. Romano deglutì, sciolse quell’immagine, e abbassò la voce che divenne più rauca. “Anche se si trattasse di scacciare i crucchi per difendere me o mio fratello, io non vi permetterei mai di mettere piede sulla nostra terra.”

Inghilterra sbuffò, resistendo alla voglia di grattarsi via il dolore che pizzicava dove Romano lo aveva colpito con la semiautomatica. “E allora cosa speri di ottenere?”

“Io non spero di ottenere nulla da tutto questo. È mio fratello l’idiota che crede che otterremo qualcosa da questa vittoria. E l’unica cosa che voglio...” Prese un forte respiro in mezzo ai denti stretti, chinò la fronte, svuotò il petto di tutta la rabbia incanalata nel cuore con un profondo sospiro liberatorio. “È che tutto questo finisca.”

Inghilterra esitò. Lo guardò di sbieco senza ribattere.

Romano abbassò la pistola dalla sua nuca, la tenne puntata in mezzo alla schiena, ma fece scivolare l’indice fuori dall’anello del grilletto. Il tono di voce perse quella nota di asprezza che gli graffiava la gola. “Voglio che tutto questo finisca prima che la guerra prenda il sopravvento su di noi,” disse, “prima che ci renda disumani, prima che dimentichiamo il motivo per il quale stiamo combattendo, prima che finisca tutto come l’ultima volta, e prima...” La mano strinse sul corpo della pistola, tremò assieme all’arma e assieme alla sua voce. “Prima che si porti via tutto quello che amo.”

Inghilterra provò una debole stretta al cuore. Sentì il muscolo appesantirsi, farsi carico dello stesso dolore che ora vedeva riflesso negli occhi di Romano.

Romano si sfregò il viso con la manica per asciugarlo dalla neve sciolta, depositata di traverso dal soffio del vento, e tornò ad aggrottare la fronte, a inasprire la voce. “Non sono qui a implorati.” Sollevò la pistola, la rivolse al viso di Inghilterra che lo guardava di traverso. “Non mi metterò mai in ginocchio davanti a te per chiederti di salvare me, o mio fratello, o la nostra nazione. Ma se davvero avete intenzione di fare qualcosa, e se...” Digrignò i denti, il vento bruciò fra le palpebre, le rese più rosse e gli annacquò gli occhi. Una nota di dolore si infilò dentro la sua voce. “Se davvero avete intenzione di fermare il disastro che tutti sappiamo che prima o poi ci travolgerà...”

Inghilterra non seppe come interpretare la frase che seguì: se come una minaccia, o una supplica, o entrambe le cose.

“Allora datevi una cazzo di mossa.” Il vento lo frustò di traverso, si infilò fra i suoi vestiti e i suoi capelli, agitò le ciocche della frangia davanti agli occhi anneriti di rabbia, e nascose quel velo lucido che gli aveva bagnato lo sguardo.

Inghilterra flesse il capo all’indietro, sollevò lo sguardo e gli cercò il volto rabbuiato. Strinse i pugni a terra, chinò le spalle, investito anche lui da una folata d’aria, e un brivido gli rosicchiò la curva della spina dorsale. Per la prima volta davanti a Romano, un senso di soggezione e rispetto gli premette sulle spalle, lo costrinse a rimanere chino dentro la sua ombra, a guardarlo dal basso, e a rabbrividire davanti a quell’ondata di forza che lo aveva travolto come una fiammata. Lo spaventò.

Il boato di un’altra frana ruggì attraverso l’aria, la massa di rocce e neve ghiacciata si schiantò al suolo, scosse il terreno, sollevò una violenta ondata di nebbia bianca che tappò il profilo delle montagne, e le vibrazioni arrivarono addosso a Inghilterra e a Romano come una cannonata alla bocca dello stomaco. Entrambi impennarono gli sguardi, i loro occhi volarono contro la massa di nubi che si stava gonfiando ai piedi della parete di roccia e che stava coprendo l’intera strozzatura che dava alla conca.

Inghilterra sussultò, scattò con un piede in avanti, tenne gli occhi sbarrati, il fiato mozzato, e una prima spina di panico gli si conficcò nel cuore, come una scheggia di ghiaccio. “Cosa hanno fatto?” Una zaffata di vento sollevato dalla frana sbatté sul suo viso e squagliò la nube di condensa nata dal suo respiro.

Romano aveva ancora le labbra aperte, quel grumo di pianto rabbioso incastrato in gola, gli occhi liquidi e lucidi come neve sciolta, e un ronzio di confusione a sciamare fra le pareti della testa. “I...” Abbassò il braccio che impugnava la pistola, barcollò di un passetto avanti, reclinò il capo all’indietro per guardare verso la cima della montagna. Aprì e chiuse la bocca due volte. “Io non lo...”

Una macchia scura comparve all’interno della foschia, si ingrandì, i contorni si definirono e delinearono il profilo di un’ombra che gli stava venendo incontro con un carico sulle spalle. Australia accelerò la corsa, sbuffi di condensa soffiavano dalle sue labbra annaspanti, e si portò la mano libera attorno alla bocca per alzare la voce. “Sta franando tutto! Scappate!” Un altro scoppio di rocce e neve si sbriciolò alle sue spalle, gli soffiò addosso alla schiena una vampata di gelo che lo fece saltare di una falcata più ampia, e la conca assorbì l’eco della frana.

Inghilterra sentì un altro pugno di tensione scaricarsi sulla sua pancia. Lo stupore gli saltò in gola e lo fece urlare nonostante la ferita bendata che bruciava a ogni vibrazione delle corde vocali. “Australia!” Scattò in piedi senza nemmeno pensare alla pistola di Romano ancora carica alle sue spalle. Inciampò di un passo, si tirò in piedi spingendosi sulle mani, e gli corse incontro. “Ma cosa...” Il peso caricato sulla spalla di Australia prese forma, assunse le sembianze del corpicino di Nuova Zelanda che rimbalzava stretto dal suo braccio. Braccia e gambe a ciondolare, la testolina a oscillare a ritmo delle falcate, inerte come una bambola di stoffa imbottita di sabbia. Inghilterra accelerò. “Cosa gli è successo?” Ma se sono da soli allora dov’è... “Dov’è Prussia? Perché non –”

“Cambio di programma, nonno!” Australia gli acchiappò la mano mentre era ancora in corsa, lo fece voltare con una piroetta – Inghilterra incrociò i piedi e si fece tenere dritto dalla forza del suo braccio –, e continuò a fuggire trascinandoselo dietro. “Ora pensa a salvarti la pellaccia!”

Inghilterra rimbalzò di altri due passi, sbandò di lato, Australia lo tornò a tenere in equilibrio, e lui sbatté il braccio libero come l’ala di un passero che non riesce a spiccare il volo. “Fermo, fermo, che cosa...”

Australia prese un respiro profondo che gli gonfiò i polmoni, indirizzò un altro grido che schizzò attraverso l’aria come lo sparo di un proiettile. “Scappa, Romano!”

Romano fece un salto sul posto, trafitto, e rimase congelato con la pistola stretta fra le mani basse e gli occhi sbarrati che riflettevano il nuvolone della frana. “C-cosa?”

Australia e Inghilterra gli sfrecciarono affianco, la loro corsa sollevò un’ondata d’aria che gli arrivò addosso e fece sventolare il ciuffo arricciato sulla spalla. Romano sbatté due volte le palpebre, rivide le loro sagome corrergli di fianco, scappare alle sue spalle, e le mani tornarono a bruciare, il cuore a battere forte e il sangue a ossigenare la testa. Il senso di frustrazione sciolse la paura che gli aveva impietrito il cervello.

Si voltò di profilo, sollevò la pistola con una mano sola, l’indice fuori dal grilletto e la voce ancora tentennante. “Fermi...”

Un altro rombo ruggì alle sue spalle, più metallico, acuto e familiare di quello sollevato dalla frana. Tremori scossero la terra, raggiunsero i suoi piedi e risalirono le gambe fino a fargli vibrare le viscere.

Romano girò la coda dell’occhio, le labbra ancora socchiuse e le dita rigide attorno alla pistola. Sul suo viso calò il buio dell’ombra che si era spalancata e che lo stava investendo, la sagoma del carro armato si specchiò nei suoi occhi lucidi e sbarrati, gli riempì le pupille.

Il Panzer II diede una brusca accelerata, si arrampicò su una rampa di rocce piatte, planò in un breve volo a rasoterra – una piccola figura nera spiccava contro il nuvolone bianco che lo stava inseguendo – e riatterrò facendo sobbalzare il terreno. Il carro gli corse addosso, il cannone della mitragliatrice puntato addosso a lui e i cingoli sempre più vicini pronti a investirlo e a triturarlo sotto il loro peso.

Romano scattò all’indietro, le gambe tornarono a ghiacciarsi a terra, e il cuore gli schizzò in gola. “Wha!”

La figura appesa alla maniglia del portello fece scivolare il piede sul paraurti che proteggeva le ruote dentate, chinò le spalle, distese il braccio sporco di sangue, e divaricò le dita della mano aperta. Il vento soffiò in faccia a Prussia, gli scosse i capelli impolverati di neve davanti agli occhi, e trascinò il suo urlo fino a Romano. “Appenditi al volo, svelto!”

Romano spostò una gamba all’indietro senza riuscire a staccare gli occhi dal Panzer che gli stava sfrecciando contro. Fece scivolare anche l’altro piede, scaricò il peso sul ginocchio piegato, e una scossa elettrica schioccò fino alla testa, gli riattivò il cervello. Rinfoderò la pistola per avere le mani libere, e si diede lo slancio. Scattò di tre falcate verso il Panzer sentendo il fuoco bruciare sotto i piedi, allungò il braccio verso l’alto, pestò un ultimo passo di corsa più ampio e saltò. Batté la mano su quella di Prussia. Prussia strinse la presa, Romano sollevò anche l’altro braccio e si aggrappò alla sua spalla con la mano libera. Prussia si sbilanciò all’indietro, sollevò il corpo di Romano di peso, con un braccio solo, e gli fece posare i piedi sulla torretta che vibrava assieme a tutta l’armatura del carro in corsa. Gli strinse la manica della giacca, lo tirò più vicino a sé per potergli gridare nell’orecchio e andare sopra il frastuono del motore e delle esplosioni che li stavano inseguendo. 

“Reggiti forte!”

Romano abbassò gli occhi. Il terreno bianco e nero sfilava sotto di loro come una pellicola, la prepotenza del vento lo spintonò da un lato all’altro, costringendolo a reggersi alla spalla di Prussia aggrappandosi alla sua giacca. “M-ma da dove...” Scivolò di un passo all’indietro e batté il tallone su un oggetto che produsse uno squillo metallico. Lo sguardo si spostò accanto ai loro piedi. Un’arma era piazzata sopra il portello del Panzer. Il bipede la teneva ferma e ben incastrata sopra la maniglia a cerniera del portello. Una cinghia di stoffa rigida ne attraversava la lunghezza più massiccia rispetto a una normale carabina, scivolava sopra il contenitore d’acciaio per munizioni incastrato all’esterno, accanto all’otturatore e dalla parte opposta rispetto alla maniglia di regolazione, e ricadeva sul supporto a forma di C da poggiare alla spalla del tiratore. Romano sbatté le palpebre, inarcò un sopracciglio. “Cosa...” Sollevò lo sguardo e lo gettò su Prussia. “Cos’è questo?”

Prussia si pettinò i capelli sporchi di sangue lontani dal viso, socchiuse le palpebre per resistere al vento in faccia. “Ora lo saprai.” Abbassò gli occhi e diede due colpi al portello della torretta con il piede, la sua voce tuonò come una seconda esplosione. “Accelera!”

Il Panzer ruggì. Le spalle di Romano scivolarono all’indietro e lui dovette di nuovo aggrapparsi a Prussia per non volare a terra. Prussia si piegò sulle ginocchia, si appese alla maniglia del portello, e lo fece accovacciare accanto a lui. La forza del vento diminuì.

Le due sagome in corsa che si stavano allontanando lateralmente catturarono lo sguardo di Romano. Australia e Inghilterra divennero sempre più piccoli, le loro immagini appannate dalla foschia della neve, e il suono dei loro passi superato dai rombi dei carri e dalle tuonate delle esplosioni.

Romano si sporse, aguzzò lo sguardo per non perderli di vista. “Stanno scappando!” Gettò un braccio verso di loro e rivolse l’espressione indignata a Prussia. “Scappano, gli stronzi! Perché non li fuciliamo con il Panzer?”

Prussia fece roteare lo sguardo e si chinò contro l’arma incastrata sulla torretta, la afferrò per la cinghia. “Ci sono problemi tecnici con il mitragliere.”

Romano rimase a bocca aperta, tornò a inseguire Australia e Inghilterra con lo sguardo, sentendo il cuore farsi più pesante di frustrazione a ogni falcata di fuga percorsa dai due.

Prussia gli strinse un lembo della giacca, lo tirò vicino a sé, e fece piegare anche lui verso il fucile. “Ora tocca a noi, Romano,” gli disse, “dobbiamo chiudere un’ultima breccia e bloccarli nel passo!” Sollevò la mano con cui non si teneva appeso al portello, la rigirò, e mise in mostra la pelle che si stava ingrigendo sotto lo strato di sangue seccato. Le dita leggermente ricurve e dure come pezzi di pietra. Prussia scosse il capo. “Però non riesco più a usare bene le mani, ho perso troppo sangue, il cuore sta succhiando tutto quello che è rimasto per continuare a battere e sto perdendo sensibilità al resto degli altri.” Abbassò il braccio, guardò Romano dritto negli occhi con un’espressione così dura da strappargli il fiato. “Devi farlo tu.”

Romano sussultò, tremò sotto la presa di Prussia che gli stringeva la giacca, e lo sguardo divenne più incerto. “E...” Deglutì a vuoto. “E come?”

Prussia scivolò con un ginocchio accanto al fucile. Gli batté una mano sopra, come stesse carezzando il muso di un cavallo. “Questo è un Panzerbüchse 39, un fucile anticarro. Non spara proiettili normali, spara granate camuffate da pallottole. È solo un primo prototipo, ma per ora ce lo faremo bastare.” Rivolse l’indice verso le pareti di roccia che si stavano lasciando alle spalle, dietro la scia di gas scaricato dalla corsa del Panzer. “Non dobbiamo mirare ai carri, ovviamente, ma a quello che c’è sotto.”

Romano non riusciva a chiudere le labbra e a togliersi dalla faccia quell’espressione congelata in una ruga di confusione e smarrimento. “A cosa?”

“Alle mine, Romano,” gli rispose Prussia. “Dobbiamo puntare alle mine anticarro che loro hanno disseminato, farle esplodere, e in questo modo chiudere la breccia.”

“Cosa?” Dobbiamo usare un fucile per fare esplodere delle mine e distruggere mezzo passo di montagna evitando che tutto lo sfracello ci venga addosso e... “Tu sei pazzo!” gli urlò contro. “Non c’è modo di farle saltare da qui e...”

“La mia pazzia ha già funzionato più di una volta, o sbaglio?”

Romano si morse la bocca e ingoiò un grugnito lamentoso, senza riuscire a ribattere.

Prussia allungò un braccio e sganciò il coperchio del contenitore di proiettili: due file da sei ciascuna. “Non abbiamo tempo,” esclamò, “devi fidarti di me!” Raccolse un proiettile, sollevò il fucile, sganciò il grip a forma di impugnatura di pistola per aprire l’otturatore, infilò il proiettile nel serbatoio, lasciandolo scivolare nel foro, e tornò ad agganciare il grip che si incastrò – crack! – innescando il colpo. Prussia diede un’altra energica carezza al fucile e spostò il palmo sulla maniglia esterna rivestita di legno. “Abbassati e impugnalo, ti guido io.”

Romano prese un forte respiro di incoraggiamento, e uno scossone del Panzer in corsa lo spinse ad abbassarsi. Piegò i gomiti attorno all’arma, premette l’anca al fianco di Prussia, abbassò le spalle, e si sistemò il supporto di rialzo contro la spalla. Stese il braccio sotto il fucile, raccolse il grip a forma di impugnatura di pistola, e infilò l’indice nel grilletto. Sollevò l’altro braccio e agguantò la leva di manovra, vi si aggrappò forte, come per paura di cadere giù dal carro.

“Ho già inserito io il primo proiettile,” disse Prussia. “Ma non è automatico, e dobbiamo ricaricarlo ogni volta.” Chinò le spalle, strinse un palmo su quella di Romano e gli indicò la punta della canna a cui aveva avvitato il tromboncino lanciagranate. “Guarda dentro quel cerchietto sulla punta della volata. Lo vedi?”

Romano restrinse le palpebre, abbassò lo sguardo, e si ritrovò a guardare all’interno di un anello riempito da un triangolo isoscele. La punta del triangolo puntava la mira fra le montagne. “S-sì.”

“Bene.” Prussia sovrappose la mano alla sua, a quella che reggeva la maniglia di legno, e gli strappò un gemito. Gli fece inclinare il polso, sollevò la mira. “Rilassa bene le dita, mira più in alto. Spara alle rocce in modo che crollino a terra e che facciano saltare tutto.”

Romano trattenne il respiro e annuì. Tornò a guardare nell’anello, il fiato trattenuto che premeva sul suo petto accelerò il suono dei suoi battiti cardiaci. Il cuore gli palpitò nella gola, nelle orecchie. Lacrime di sudore gli imperlarono la fronte, e i capelli agitati dal vento si incollarono al viso.

Romano flesse l’indice sul grilletto, il braccio cominciò a tremare, le mani si scaldarono, si bagnarono anche quelle di sudore, e i suoi fremiti di tensione si trasmisero fino al corpo di Prussia.

“Calmo,” gli mormorò con voce ruvida accanto all’orecchio. “Come quando guidavi i bombardieri.”

Romano sciolse il nodo di fiato che si era incastrato in gola e prese un profondo respiro dal naso. Come quando guidavo i bombardieri. Si riabituò alla presenza di Prussia accanto a lui, al suo tocco che guidava la mano, ai suoi occhi che prendevano la mira, alla sua voce che gli entrava nella testa, che vibrava attraverso il suo stesso petto e che raggiungeva il cuore, rallentando i battiti e il respiro. Romano sollevò l’indice dal grilletto, raccolse le energie sulla punta della falange, la sentì bruciare come se avesse preso fuoco.

Il corpo di Prussia si tese, la mano strinse sul suo polso, la voce gli squillò dietro l’orecchio. “Ora, spara!”

Romano schiacciò l’indice, la levetta del grilletto finì assorbita all’interno dell’anello, innescò lo scoppio, e la pallottola schizzò attraverso la canna. L’energia incanalata nella granata proiettile esplose in uno schiocco elettrico, risalì il braccio di Romano, e il tuono dello scoppio aprì un vuoto all’interno del suo petto, facendolo gemere. “Gha!” Il cuore si dilatò, raccolse tutta l’energia dell’arma, gli arrivò al cervello ed esplose in uno sciame di stelle. Il rinculo gli sbatté le spalle all’indietro. Le braccia di Prussia strinsero attorno al suo corpo e lo sorressero per non vederlo sparato giù dal Panzer.

Lo scoppio del proiettile centrò la montagna, esplose in un lampo tonante, frammenti di ghiaccio e rocce si staccarono e si schiantarono a terra con uno scroscio assordante. Un secondo lampo, più ampio, esplose a rasoterra, si dilatò ingoiando la valanga di neve che era precipitata al suolo, e scosse la vallata in un singhiozzo di terremoto. Era esplosa una mina.

Romano prese un’avida boccata di fiato, si gonfiò il petto inarcando la schiena, e il suo corpo ancora tremante per il rinculo si torse fra le braccia di Prussia. Il cuore galoppava dandogli l’impressione di uscire dalle costole, lo sciame di stelle si dissolse, il ronzio elettrico sgusciò fuori dalle sue ossa ma gli fece battere i denti. “Che...” Romano si lasciò tirare su di peso, posò lo sguardo sul corpo del fucile anticarro, e una vampata di paura gli gelò il sangue. “Che razza di fucile...”

Prussia rise di gusto e gli batté una mano sulla schiena. “Che rinculo, eh?”

Romano schiacciò le unghie dentro i palmi per non piantargliele alla gola. Se ti diverte tanto allora sparaci tu, coglione.

“Sgancia qua sotto.” Prussia si abbassò e tornò a indicare il grip. “Espelli il bossolo, e infila uno nuovo.”

Romano si diede una strofinata ai capelli, scrollò le mani per sciogliere la sensazione formicolante che aveva lasciato l’energia dello sparo quando gli aveva penetrato le dita, i palmi e le braccia, ed eseguì.

Sganciò il grip. Il bossolo vuoto scivolò verso il basso dall’otturatore, Romano lo prese, lo scartò, raccolse un’altra munizione dal contenitore e la infilò nel fucile. Richiuse tutto – crack! – ma esitò prima di chinarsi a prendere la mira. Di nuovo quell’esplosione di energia gli sarebbe entrata dentro, sparare sarebbe stato come appendersi a un cavo della luce rimanendovi attaccati, fritti come...

“Di nuovo, di nuovo,” insistette Prussia. “Tieniti stretto e continua.”

Romano grugnì. Si appese alla maniglia dell’arma, infilò l’indice nel grilletto, si chinò a guardare nel mirino, e lasciò che quel fiotto di rabbia gli desse la carica. “Cazzo, quanto ti odio.”

“Lo so, lo so.” Prussia gli diede un colpetto sulle nocche. “Vai, spara!”

Romano strizzò gli occhi, si preparò alla cannonata del rinculo, e spremette la presa sul grilletto.

Di nuovo lo scoppio, di nuovo il sobbalzo e il vuoto allo stomaco, di nuovo il fischio del proiettile, lo schianto sulla montagna, la valanga di detriti, e il lampo ai piedi della parete di roccia. Il rombo ruggì più forte e acuto, sollevò una nube di neve grande il doppio, e Romano sentì il suolo tremare anche attraverso il Panzer in corsa.

Prussia torse il busto e batté tre pugni contro il portello della torretta. “Via, presto! Sta crollando tutto!”

Romano soffiò un pesante respiro liberatorio, scosse il capo, si appese a un gomito di Prussia per non perdere l’equilibrio, e di nuovo guardò attraverso la galassia di stelle che era esplosa davanti alla sua vista.

“Romano!”

Romano sbatacchiò le palpebre, le braccia ancora incollate attorno al fucile, proprio come se avesse preso la scossa, e posò gli occhi estraniati sul viso di Prussia. Gli stava porgendo un altro proiettile dorato.

“Di nuovo.”

Romano strinse i denti, tremò, si lasciò pungere da un’altra scossa di paura, ma gli strappò comunque la munizione dalle dita. Si chinò a sganciare il grip e a espellere il bossolo.

Ricominciò daccapo.

 

.

 

Il Panzer II rallentò la corsa, si lasciò superare da due autocarri seguiti dal battaglione di motociclisti, il terreno ghiacciato scricchiolò a fondo sotto il passaggio dei mezzi, e lo strato di neve si schiuse, scavato dalle scie parallele: le impronte del carro armato. Il Panzer si fermò, smise di tremare, il motore si spense con un soffio, e gli altri mezzi della divisione lo superarono sommergendolo in una nube che odorava di carburante bruciato.

Prussia aprì le mani sul portello della torretta, gettò il capo in mezzo alle spalle, e i muscoli cominciarono a tremare, gli spasmi a scuoterlo, a farlo gocciolare del sudore che colava sciogliendosi al sangue raffermo che gli imbrattava vestiti e capelli. Sbatté le palpebre, le scintille bianche sparse dalle vertigini di dolore e di fatica gli ronzarono attorno alla testa, lo fecero oscillare di lato dandogli l’impressione che suolo e cielo si stessero capovolgendo. Si aggrappò con il braccio al fucile anticarro, annodò la mano alla cinghia di stoffa, e flesse la spalla per restare in equilibrio.

Romano crollò supino, spalancò le braccia, gettò il viso al cielo lasciando ciondolare la testa dal carro, e boccheggiò rauchi affanni che si condensarono in sbuffi bianchi. Anche il suo corpo tremava, le mani torte e rigide come legno avevano perso la sensibilità, rivoli di sudore gocciolavano dalla fronte e scivolavano lungo le guance. Le spalle erano così appesantite e doloranti da dargli l’impressione che si stessero per staccare. Il rinculo degli spari vibrava ancora attraverso le sue ossa e le sue viscere, continuava a fargli battere i denti come se fosse rimasto attaccato alla presa della corrente. L’alone di energia del fucile gli ronzava addosso dandogli l’impressione di stare lampeggiando, di essere fosforescente.

Prussia si accasciò con il petto sopra il corpo del fucile, le braccia molli a ciondolare, il respiro affaticato a battere sul metallo, a inumidirlo. Gracchiò una risata. “Be’, alla fine...” Piegò un mezzo ghigno sporco di sangue, ma un caldo senso di soddisfazione sciolse tutta la fatica che gli gravava sui muscoli e sulle ossa. “Ce la siamo presa o no, questa rivincita?”

Romano emise un rantolio spezzato dagli affanni, strinse le mani aderendo al metallo della corazza, gli spasmi continuarono a scuoterlo, ad attraversargli il petto e il ventre, a mordere crampi di dolore sugli avambracci e sulla spalla dove aveva appoggiato il supporto del fucile. Si sentiva svuotato. “G...” Annuì debolmente. “Già,” rantolò.

Prussia soffiò un sospiro di sollievo, allungò un braccio staccandolo dal fucile, e glielo batté due volte sulla coscia. Romano era troppo distrutto per ribellarsi.

Qualcosa si mosse all’interno dell’abitacolo, rumore di passi, un borbottio ovattato, e tre colpi di seguito bussarono da sotto il portello sigillato.

Prussia rotolò sul fianco, prese il fucile anticarro e lo spostò. Romano fece leva sui gomiti, si mise a sedere, e tolse le gambe dalla maniglia di apertura.

La serratura ruotò, scattò, e il portello si aprì seguito dal braccio che lo spingeva verso l’alto. Italia sbucò fuori dalla pancia del carro, si appese all’orlo della torretta, guardò a destra e a sinistra, gli occhi ancora ristretti che non si erano abituati alla luce, e l’espressione ansiosa ad annebbiargli il volto.

“Romano?”

Romano scattò sulle ginocchia, tutta la stanchezza si sciolse, scaldata da un guizzo al cuore. “Ehi.” Si gettò su Italia e lo abbracciò ancora prima che potesse accorgersi di lui. Italia si aggrappò alle sue spalle, rise, sollevato, e si lasciò tirare fuori dalla torretta. Romano gli fece poggiare le ginocchia sulla corazza e si chinò a districare il piede di Italia dal cavo delle cuffie che si era trascinato dietro quando se le era tolte. “Stai bene?”

Italia annuì. “Tutto intero, non mi sono fatto niente.” Rabbrividì per il freddo improvviso, si strofinò le spalle, ma non abbandonò il sorriso. “È molto più facile combattere quando siamo così tanti, vero?”

Romano sbuffò, distolse lo sguardo. “Va bene, va bene, ma non aggiungere altro.”

Anche Prussia si avvicinò. Stava riprendendo fiato, aveva ancora il respiro pesante, e l’occhio accanto alla ferita sul viso stava cominciando a gonfiarsi. “I miei consorti?” chiese a Italia.

Italia si sciolse dall’abbraccio di Romano ma si tenne comunque aggrappato alla sua giacca, rivolse a Prussia uno sguardo più incerto. “Ehm, ecco...” Guardò verso l’apertura del portello, i suoi occhi si intristirono, e spostò i piedi di lato per farlo passare. “Entra.”

Prussia immerse le gambe nell’apertura, tese le punte dei piedi ignorando qualche fitta di dolore, e raggiunse l’imbottitura di un sedile. Una macchia di buio gli ingoiò la vista, le luci delle spie si fecero strada timidamente nell’ambiente del carro. Si mise a sedere, fece scivolare una gamba attorno al sedile, e piegò il gomito sullo schienale per girarsi. Scavò con lo sguardo nella penombra, trovò subito quello che stava cercando.

“Qualcuno mi può spiegare cosa diavolo è successo prima?”

Austria tenne stretta la mano di Ungheria, il palmo che le aveva posato sulla sua spalla scivolò lungo la schiena, e rivolse a Prussia uno sguardo austero e protettivo. “Non è stata colpa sua.”

Prussia sbuffò, intrecciò entrambe le braccia sullo schienale e fece riposare la testa fra i gomiti. “E di chi, allora?”

Ungheria strinse il pugno sotto la mano di Austria. “È solo...” Distolse lo sguardo, lontano dagli occhi apprensivi di Austria e da quelli accusatori di Prussia. “È stato solo un incidente, un errore mio. Da adesso in poi ti assicuro che non succederà più e...”

“Da adesso?” sbottò Prussia. “Quella era una cosa che non sarebbe dovuta succedere mai.” 

Austria tornò a difenderla. “È stato solo un errore dovuto a un’esitazione umana. Può capitare a tutti.”

“Ma non nel bel mezzo di una battaglia.” Prussia tirò le spalle più avanti, e la leggera tinta verde delle spie luminose infossò ombre più fitte attorno alle sue palpebre. “In guerra, errore vuol dire morte.” Inarcò un sopracciglio. “Non è che ti sei rammollita troppo, vero?”

Ungheria scattò e fece sobbalzare anche Austria. “N-no! Ho solo esitato per...” La paura che l’aveva aggredita in quel momento tornò a stringerle il cuore. “Per...”

“Per cosa?” ribatté Prussia. “Per pietà? Forse non vi è ancora ben chiaro che sentimenti di questo genere non trovano spazio in battaglia.” Le puntò l’indice contro, il peso del suo sguardo premette sugli occhi di Ungheria fino a farla rimpicciolire. “Tu sei una nazione, e se dentro di te hai perso la forza di distruggere, se ha perso l’istinto di sopravvivenza per lasciare spazio alla pietà e alla compassione, dando la precedenza a un’altra vita rispetto che alla tua...” Flesse le punte delle sopracciglia bagnate di sangue e sollevò il mento, la squadrò con sufficienza, con una punta di crudeltà a brillare negli occhi. “Allora sei solo una creatura vuota e inutile.”

Austria reagì prima di lei. “Non ascoltarlo.”

“No.” Ungheria sfilò la mano da sotto la sua, si girò di profilo, e si strofinò il braccio rosicchiando il labbro per sopprimere l’amaro senso di umiliazione. Sospirò. “Ha ragione.”

L’abitacolo umido e tiepido del Panzer vibrò. Fuori dal carro, il traffico dei mezzi continuava a scorrere, l’esercito avanzava, i soldati marciavano.

Prussia sollevò lo sguardo verso l’ovale di luce, si riparò la vista tenendo una mano davanti alla fronte, e allungò un braccio per aggrapparsi al portello. “Uscite.” E non li aspettò. 

Tese le braccia fuori dallo sbocco del portello e alzò la voce ancora prima di sgusciare fuori con la testa e con il torso. “Ascoltatemi tutti.” Si appese con le mani all’orlo, si diede una forte spinta flettendo le ginocchia, e saltò a piedi pari sulla corazza esterna del carro. Si lisciò la giacca e aspettò che una doppia fila di tre autocarri ciascuna scivolasse ai fianchi del loro Panzer portandosi via il rombo che avrebbe coperto la sua voce. Italia e Romano si girarono a guardarlo, sollevarono gli occhi, e Prussia si schiarì la voce. “Inconvenienti a parte, la vittoria è comunque nostra.” Si passò una mano fra i capelli insanguinati che ormai si erano induriti per il freddo e per il vento ghiacciato, e si coprì la ferita alla faccia con il palmo. Quella continuava a bruciare. “Il passo è preso, e canguri, koala, eccetera sono stati sconfitti.” Compì un passo in avanti, saltò sul paraurti. “Come da programma...” Un ultimo balzo e atterrò sul suolo innevato, in mezzo ai gas di scarico spanti dai mezzi che continuavano a proseguire. Si strinse la mano sul fianco – la ferita si era tesa per il contraccolpo e gli aveva scaricato un’azzannata di dolore sotto il costato – e si massaggiò compiendo un passo in avanti a schiena dritta e spalle larghe. Lasciò due impronte di sangue dietro di sé. “Ora è tempo di dividersi,” annunciò con tono solenne. “Austria e Ungheria si faranno scortare fino a Belgrado,” rivolse l’indice alle sue spalle, indicò il Panzer, “poi verranno raggiunti da Bulgaria e Romania, daranno una controllata, sistemeranno le faccende con il governo jugoslavo, ammesso che esista ancora qualcosa che si possa definire tale, e poi torneranno qua per proseguire la marcia su Atene.”

Romano aggrottò la fronte, posò una mano sulla spalla di Italia per tenerlo più distante, e si sporse a guardare Prussia con diffidenza. “E noi?”

Prussia ghignò, strinse le mani sulle anche. “Noi ora facciamo i bagagli.” Rivolse un’occhiata d’intesa a Italia. “Salonicco ci aspetta.”

Italia sgranò gli occhi, un caldo soffio di gioia e speranza gli attraversò il cuore, gli rese il petto più gonfio e leggero allo stesso tempo. “Salonicco,” mormorò, e le sue guance arrossate dal gelo si intiepidirono. Batté le mani davanti al petto, gli occhi brillarono di entusiasmo, scintille di gioia scoppiettarono attorno al suo viso. “Andiamo da Germania?”

Prussia annuì. “Puoi scommetterci.”

Italia sentì il cuore fare una capriola nel petto, battere più forte.  Fece un salto sul posto emettendo uno squillo di gioia, e si tornò ad appendere al braccio di Romano, dandogli piccoli strattoni. “Sentito? Sentito, Romano?” Allargò il sorriso e fece un altro saltello. “Andiamo da Germania!”

Romano allontanò lo sguardo, sbuffò. Chiuse un pugno e sollevò il braccio con un movimento molle e svogliato. “Evviva,” sbiascicò.

Da dentro l’abitacolo del Panzer, Austria sollevò un braccio per appendersi anche lui all’orlo del portello d’uscita, come aveva fatto Prussia. Si riparò dalla luce con l’altra mano, la sventolò per dissolvere la nube di gas grigio spanto dai mezzi che li stavano superando, e si sporse stando aggrappato con il gomito. Buttò lo sguardo verso il passaggio fra le montagne che si erano lasciati alle spalle e che avevano distrutto con le frane.

Prussia si voltò, stese il braccio per indicarlo. “Voi due,” lo chiamò, riferendosi anche a Ungheria. Austria si girò per guardarlo di traverso, ma Prussia lo ignorò. Camminò affianco al carro spento, la gamba sinistra zoppicò. L’adrenalina stava lasciando la circolazione, le macchie di dolore cominciavano a farsi sentire e a battere sotto la pelle, a pulsare e a fremere a ogni passaggio del vento sulle ferite aperte. “Prendetevi tempo per riflettere su quello che è successo oggi, quando sarete a Belgrado.” Prussia si aggrappò a una sporgenza del Panzer, lasciò un’impronta di sangue secco sulla vernice, e rivolse lo sguardo alla foschia bianca nata dalle esplosioni. Restrinse le palpebre, gli occhi si accesero, tornarono a brillare come perle di sangue. “Perché la nostra battaglia...” Schiacciò il pugno, le unghie graffiarono sulla corazza di metallo e punsero contro il palmo. “Non termina qui.”

 

.

 

La mano bendata di Australia accostò l’orlo della gavetta di alluminio alle labbra socchiuse di Nuova Zelanda. Inclinò leggermente il contenitore. La dolce bevanda sciropposa che fumava fra le pareti di metallo soffiò un abbraccio di vapore zuccherino che gli solleticò le guance e la punta del naso intorpidita dal freddo. Australia strinse il braccio che gli aveva avvolto dietro le spalle per reggere il suo peso sdraiato sulla branda, e gli diede una piccola scossetta per destarlo. “Da bravo, Kiwi, apri le labbra e bevi un po’.” Gli fece scivolare un filo di acqua calda nello spacco fra le labbra bianche e screpolate, e il rivoletto gocciolò fino all’angolo della bocca, rigandogli la guancia di traverso.

Un ricciolo di vapore al profumo di frutta gli tornò a sfiorare il viso. Nuova Zelanda arricciò la punta del naso, girò il capo affondando un sospiro nell’incavo del gomito di Australia, e si leccò le labbra con la punta della lingua, raccogliendo la goccia di acqua tiepida. Il sapore fruttato e zuccherino dell’infuso gli accoltellò la lingua impastata, fu uno schiocco elettrico dentro la bocca intorpidita dopo tutto il tempo in cui era rimasto svenuto. Nuova Zelanda strizzò le palpebre come se avesse dato un morso a una fetta di limone e scosse leggermente il capo. Girò il fianco e la guancia che si era bagnata si asciugò contro la manica di Australia.

Australia insistette. Tornò a fargli sentire il filo di alluminio caldo fra le labbra. “Su, su, solo qualche sorso. Questo ti fa bene, vedrai.”

Nuova Zelanda brontolò un mugugno di protesta, ma si arrese. Tenne gli occhi chiusi e divise le labbra per far scivolare in bocca un altro filo di quell’acqua calda che sapeva di frutta fresca appena sbucciata e tagliata. Il secondo sorso fu più delicato del primo. Il dolcissimo e tiepido aroma di frutta gli riempì la bocca che si stava abituando, gliela lasciò insaporita di arancia, fragola e uva. Il calore scese fino allo stomaco spandendo nella pancia una bolla di piacevole tepore che gli rilassò i muscoli indolenziti. Nuova Zelanda si leccò le labbra con più gusto, raccolse una gocciolina all’angolo della bocca, così densa e dolce da sembrare miele, e un piccolo sorriso di consolazione gli imporporò le guance a cui erano ancora incollate alcune ciocche di capelli. “Buono.”

Australia stese un largo sorriso di soddisfazione. Il nastro di benda che aveva fissato sull’ustione al setto nasale si increspò assieme ai tratti del suo viso. “Visto? Siamo riusciti a far bollire un po’ di neve e ci ho sciolto dentro le ultime caramelle delle razioni che mi erano avanzate.” Fece ondeggiare l’acqua sciropposa, laccò le pareti di alluminio della gavetta, e il vapore aumentò, si schiuse liberando un profumo più intenso che faceva sentire la consistenza succosa dell’arancia e dell’uva direttamente sulla lingua. Gli porse il recipiente. “Tieni, cerca di finirlo.”

Nuova Zelanda annuì. Raccolse la gavetta con entrambe le mani, raddrizzò le spalle lasciando che Australia gli sfilasse il braccio da dietro il torso, lasciandolo seduto da solo, e poggiò la schiena al cuscino basso e sottile della branda. Si stropicciò un occhio ancora mezzo appannato, raccolse una gamba a sé, e prese un sorso più sostanzioso di acqua e caramelle sciolte.

Passi affrettati si avvicinarono alla loro tenda, marciarono sulla neve facendo scivolare un’ombra sulla parete esterna, accanto alle altre sagome dei soldati che sfilavano avanti e indietro all’esterno, fuori e dentro dalle tende di primo soccorso. L’ombra spalancò l’apertura della loro tenda, si materializzò nella sagoma di Inghilterra che buttò subito lo sguardo sulla branda dove erano seduti Australia e Nuova Zelanda. “Si è svegliato?” I suoi occhi passarono da Australia – che si coprì il torso fasciato con la giacca che si era buttato sulle spalle – a Nuova Zelanda. Lo vide sveglio. Prese un sospiro di sollievo ed entrò chiudendo subito la tenda. “Ti senti un po’ meglio?”

Nuova Zelanda annuì con energia, posò la gavetta fra le gambe incrociate. “Sì.” Qualcosa gli grattò la fronte. Nuova Zelanda sollevò lo sguardo, si portò una mano sotto le ciocche di capelli, e percorse con le dita la fascia che gli avvolgeva la testa. Toccò la tempia, si punse con una scossetta di dolore, e ritirò la mano. Stropicciò uno sguardo incerto. “Credo di sì.”

Inghilterra annuì, rincuorato. “Bene.” Sollevò il bavero della giacca per coprirsi la fasciatura attorno al collo, e si avvicinò a entrambi, annodò le braccia al petto. “Non è nulla di grave, hai solo qualche ammaccatura. Hai battuto la testa durante la caduta, e tutto questo freddo deve averti indebolito più del previsto, così non sei riuscito a rimetterti subito in sesto. Sarai più nuovo di prima in un paio di giorni.”

Nuova Zelanda soffiò dentro la gavetta, bucò la nuvola di vapore, e si lasciò cullare dal dolce profumo fruttato dello sciroppo. “Ora sto meglio.” Bevve un altro sorso, si ripulì la bocca, e nei suoi occhi brillò una scintilla più vivace, colma di aspettativa. “Abbiamo vinto?” Abbassò la gavetta, rivolse quello sguardo teso e speranzoso sia ad Australia che a Inghilterra. “Siamo riusciti a difendere il passo?”

Inghilterra e Australia si scambiarono un’occhiata indecisa. Australia spostò lo sguardo in disparte, si strofinò la nuca chinando la fronte, e batté piano la punta di un piede a terra facendo traballare la coscia. Inghilterra compì un paio di passi lungo la parete della tenda. Una grigia espressione di disapprovazione gli annebbiò il volto. “Per la verità...” Si strofinò una spalla, la sua ombra proiettata sulla tela si fece più piccola. “Non è andata esattamente come speravamo. O, meglio...” Fece roteare lo sguardo. “Sapevamo tutti che sarebbe stato impossibile sconfiggere la Wehrmacht qui, e che questa resistenza era più un diversivo per tenerli impegnati durante la ritirata delle truppe, ma...” Si strofinò la nuca, la mano scese, massaggiò il collo bendato e grattò il petto da sopra la giacca. Non riuscì lo stesso a strappare via quel peso di delusione che gli era rimasto incastrato attorno al cuore. “Rimane pur sempre una sconfitta alla quale non avrei voluto assistere.”

Anche Nuova Zelanda chinò lo sguardo, si vide riflesso sullo specchio formato da quell’acqua oleosa e colorata di viola che oscillava fra le pareti di alluminio, e i suoi occhi si intristirono, misero in risalto i segni neri di stanchezza che gli cerchiavano le palpebre.

Australia accavallò la gamba al ginocchio, si sistemò meglio la giacca sulle spalle, massaggiò il busto bendato. Una garza più gonfia proteggeva la ferita da cui avevano estratto il frammento della bomba anticarro. “Ora cosa facciamo?” mormorò. Rivolse lo sguardo a Inghilterra e aspettò che le ombre di un gruppo di soldati sfilassero lontani dalla loro tenda portandosi dietro lo scricchiolio di passi sulla neve e il brusio incomprensibile delle loro voci. “Forse dovremmo tornare a ricongiurci con Grecia,” propose. Scosse il capo, la sua voce si macchiò di amarezza. “Dividerci è stata una pessima idea, se proprio volete saperlo. Abbiamo combattuto in un territorio che non conosciamo e abbiamo lasciato il padrone di casa a cavarsela da solo contro Germania: contro quello da cui dovevamo proteggerlo.”

Inghilterra si strinse il mento, corrugò la fronte, fece su e giù guardando in mezzo ai piedi che marciavano sul pavimento terroso della tenda da campo. Le parole di Australia riecheggiarono nella sua mente, si trasformarono nella sua stessa voce che aveva parlato a Romano quando era ancora con le ginocchia piegate in mezzo alla neve. “I patti fra me e Grecia sono sempre stati molto chiari. Io e lui non abbiamo mai finto un rapporto di amicizia, non ci siamo mai ingannati a vicenda, abbiamo entrambi messo in tavola le nostre priorità senza nasconderci nulla.” Inghilterra socchiuse le palpebre, la mente si estraniò, tornò ancora più indietro, davanti ai placidi occhi di Grecia che lo guardavano dalla penombra della trincea dove si era lasciato scivolare reggendolo fra le braccia. Il fango sul viso, le ciocche di capelli sporchi incollate alle guance e che gocciolavano davanti alle palpebre socchiuse. “Ti lascio andare da solo a difendere il Passo di Vévi, ti lascio affrontare Prussia senza di me. Ma tu in cambio devi promettermi che, nel caso perdeste, voi farete quello che dico io e che ti spiegherò ora.”

Inghilterra si rosicchiò la carne del labbro inferiore, soppresse quel turbine di conflitto che iniziava a crescere nel petto come una soffocante spirale nera attorno al cuore. Tamburellò l’indice sulla guancia. “Quando eravamo a Fort Rupel,” spiegò, “Grecia mi ha dato il permesso di trasferirmi qua per aiutare voi.” Sollevò l’indice teso, rivolse a entrambi un’occhiata più profonda e buia. “Ma a una condizione: che poi avrei continuato la ritirata passando oltre il Monte Olimpo e attraversando lo stretto delle Termopili, senza esitare o fermarmi, nemmeno se lui si fosse trovato in difficoltà.”

Nuova Zelanda inarcò un sopracciglio. “Le Termopili?” Gli occhi si illuminarono. Lui allargò le palpebre, trasse un sospiro di meraviglia, e batté le mani. “Quelle degli spartani?”

Australia gli lanciò un’occhiata incredula, ma lo sguardo già brillava di meraviglia. “Sul serio?” Strinse i pugni bendati davanti al petto, la sua voce squillò di entusiasmo. “Forte! Dobbiamo combattere con le lance e con gli scudi?”

“Quelle,” annuì Inghilterra. “Ma lasciate stare lance e scudi.” Compì un paio di passi avanti e indietro, si massaggiò la fronte, premette i polpastrelli sulle tempie picchiettando le dita sul cranio, ma non riuscì a scacciare quel pensiero che ormai si era conficcato in testa come un ago. “Tuttavia,” sospirò, “ora sono costretto a spezzare la promessa che gli ho fatto.”

“Uhm?” Australia si strinse nelle spalle, inarcò un sopracciglio, si massaggiò il capo. “E perché tutt’a un tratto?”

Inghilterra si fermò. Un’altra volta si infilò nei suoi pensieri, evocò un ricordo. “Perché...”

“Voglio che tutto questo finisca prima che la guerra prenda il sopravvento su di noi,” riecheggiarono le parole di Romano nella sua testa, “prima che ci renda disumani, prima che dimentichiamo il motivo per il quale stiamo combattendo.”

Inghilterra sospirò. Quel sospiro aveva lo stesso sapore amaro della sconfitta. “Perché non voglio che questa guerra ci renda disumani.”

Australia e Nuova Zelanda incrociarono gli sguardi, Australia inarcò un sopracciglio, confuso, e Nuova Zelanda si strinse nelle spalle mimando la stessa espressione.

Inghilterra riprese a marciare avanti e indietro, i passi più pesanti, le braccia conserte, e lo sguardo di nuovo rigido come il suo tono di voce. “È vero,” annuì, “io stesso ho sempre dato precedenza alla vittoria, alla strategia, perché sono consapevole che è questo a far vincere una battaglia. Tuttavia, ora non si tratta più di vincerla, ma di uscirne senza troppi danni. E se proprio dobbiamo perdere...” Si strinse nelle spalle e rivolse un palmo al cielo, un po’ più agguerrito e un po’ meno sconfitto. “Almeno cerchiamo di dare un buon esempio al mondo che ci starà a guardare.”

Australia mantenne quell’espressione di dubbio, tornò a strofinarsi la nuca, e anche lui emise un sospiro profondo. “E allora dove andremo? Io non voglio già tornare a casa, abbiamo appena cominciato!”

Inghilterra scosse la testa. “No, non evacueremo ancora. Sarà Grecia stesso a darci l’ordine, quando verrà il momento.” Rivolse un indice fuori dalla tenda, e in quel momento passarono le ombre di due uomini che reggevano una barella vuota. “Grecia è rimasto da solo a combattere a Salonicco. Germania a quest’ora avrà già espugnato la città e lo avrà già sconfitto, ma forse avremo la fortuna di trovarlo ancora vivo. Forse sarà ferito, forse sarà in prigione, ma Germania non lo ucciderebbe mai prima di arrivare ad Atene e firmare l’armistizio, perché questa deve essere una vittoria pulita, ne va dell’immagine pubblica dell’Asse.” Rivolse l’indice verso il basso, picchiettò l’aria come se stesse ripetutamente premendo un pulsante. “Però, per noi sarebbe impossibile muoverci nel suo territorio senza di lui che è il padrone di casa, per questo anche noi andremo a Salonicco, e proseguiremo questa guerra assieme.”

Australia sbatté le palpebre. “Allora...” Strinse le mani sull’orlo della brandina, si sporse con le spalle facendo cigolare le molle, e gli mostrò uno sguardo entusiasta, con gli occhi che ripresero a brillare. “Andiamo a liberarlo?”

Anche Nuova Zelanda sussultò. “Davvero?”

Inghilterra annuì debolmente, con occhi distanti, fronte bassa, e si voltò per nascondere quella ruga di dubbio che continuava a tenergli la fronte aggrottata. Sospirò ancora, si strofinò la nuca e la mano scese a massaggiare le bende che gli avvolgevano il collo. “Uhm...” Di nuovo un fastidioso formicolio gli solleticò il petto, trasmettendogli la voglia di grattarselo via. Ripensandoci, anche questa potrebbe essere solo una meschina strategia da parte mia per conquistarmi sia la fiducia di Grecia che quella del mondo intero. Arricciò un angolo della bocca. Però...

Gli occhi di Romano non se ne andarono dalla sua testa, la sua voce pregna di dolore era rimasta imprigionata a fare eco nelle orecchie. “Ma se davvero avete intenzione di fare qualcosa per il disastro che tutti sappiamo che prima o poi ci travolgerà...”

Inghilterra strinse un pugno, cancellò ogni dubbio, e annuì con decisione. “Sì.” Si girò verso Australia e Nuova Zelanda. Li guardò con un’espressione spronante. “Continueremo a combattere e a sputare sangue fino a che ci riusciremo a stare in piedi. Perché questa battaglia...”

“Allora datevi una cazzo di mossa.”

Inghilterra assorbì la paura che aveva provato in quel momento davanti allo sguardo di Romano, e la incanalò in una profonda e scura espressione di forza e coraggio. Non voleva arrendersi. “Non è ancora finita.”

 

.

 

N.d.A. 

E dopo il mini arco della Battaglia di Vévi, concediamo un po’ di riposo agli eserciti (e a me) con una piccola pausa estiva! Il Miele va in vacanza per le prossime due settimane, ci rivedremo quindi la prima settimana di agosto per continuare la discesa verso Atene, per vedere come se la cava il povero Grecia a Salonicco, per dare spazio ad altri avvenimenti come la riunione a Belgrado, quella al Cremlino, e per prepararci poi a entrare nella fase finale della Campagna. Chissà se riuscirò a iniziare il Barbarossa entro la fine del 2017? Un po’ ne dubito ma un po’ ci spero anche. Vedremo quanto saprò essere veloce io e quanto sapranno essere collaborativi i personaggi.

Buone vacanze a tutti, gente! (^-^)/

   
 
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