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Autore: Cimdrp    17/07/2017    0 recensioni
Sull'ansia, sul panico, sulla depressione e altre cose.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era dunque davvero così semplice come pensava: un salto. Poco meno di un attimo, tuttavia si chiedeva che cosa avrebbe sentito mente l’aria sfiorava velocemente il suo viso (prima domanda), a cosa avrebbe pensato (seconda domanda), che cosa avrebbe provato una volta terminato il volo (terza domanda). Con la mano destra si sistemò i capelli castani, la mano segnata da quella cicatrice di cui spesso si era ritrovata a raccontare la storia.
Presto sollevò la mano sinistra, non soddisfatta di come sapeva che i capelli le stavano ricadendo sul viso. Non era importante il suo aspetto, in realtà.
La sola presenza di quelle tre domande nella sua testa la facevano pensare ad una difficoltà di cui non aveva tenuto conto nel compiere il salto. Sarebbe stato facile come credeva, effettivamente, ma solo se non avesse pensato.
Non è davvero così facile, non pensare. Pensava spesso, sempre. Sebbene ne fosse distrutta, i suoi pensieri non le concedevano tuttavia di evadere dal mondo mero e semplice, e ormai aveva dimenticato l’ipotesi di potercela fare.
C’era stato un tempo in cui, quando era sola, di sera, poiché spesso le capitava di non avere nessuno con cui condividere la fine delle sue giornate, stava ferma, seduta, in piedi, come le capitava, e guardava le luci di fronte a lei.
La collina davanti alla quale abitava ne era fiera portatrice. Luci calde e fredde, disseminate in uno stesso punto, abbandonavano il resto del territorio alla crudele mercé del buio. Luci più piccole, solitarie, conducevano una silenziosa battaglia contro l’oscurità. La luna, infine, illuminava i centri abitati e li mostrava per quello che erano: case su case, vicine per pura necessità, poiché l’Uomo non è in grado di vivere da solo.
L’aria baciava la sua pelle diafana, l’ossigeno entrava violento nei suoi polmoni. Non sarebbe mai riuscita a vivere in un luogo chiuso durante il caldo soffocante di giugno. L’idea di dover respirare sempre la stessa aria, senza la confortante idea che questa si rinnovasse continuamente, la faceva impazzire.
Il silenzio, il silenzio era così perfetto che poteva credere, per un attimo, di essere la sola al mondo. Era così puro e semplice come pensiero, che l’ansia che spesso l’attanagliava quando si rendeva conto che senza altre persone lei non sarebbe mai stata in grado di vivere, quelle volte non l’assaliva, perché essere sola, in quel momento, significava, per lei, respirare.
Senza gli altri, tuttavia, sarebbe impazzita prima di dolore, poi di solitudine, poi impazzita e basta, e poi sarebbe morta.
La soffocavano i rapporti che doveva avere con gli altri Uomini, perché spesso si dimenticava della sua esistenza, e pensava solo ad essi, e allora arrivava a casa, stanca, distrutta, dopo un’estenuante giornata, ma bella, davvero bella, in cui era riuscita a rendersi simpatica agli occhi degli altri, ed era così felice dei rapporti e delle conversazioni che era riuscita ad avere, che andava a dormire senza nemmeno ricordare il suo viso, i suoi occhi, senza nemmeno ricordare chi fosse.
La mattina dopo si ricordava del fatto che chi fosse non l’avesse mai saputo, piangeva, come stuprata da questo pensiero, come privata della sua identità, rammentava che erano gli altri a distoglierla dall’estenuante ricerca della sua persona, si rinchiudeva nel suo silenzio inquietante, così tanto, visto da fuori, e guardava, per tutta la sera seguente, le luci lontane fuori dalla finestra, ascoltava il silenzio e si lasciava cullare da quell’idea di essere sola, finché non si dimenticava delle sue paure più grandi.
La storia di quella cicatrice sulla mano destra non era complicata, per nulla.
Una caduta e un taglio poco più profondo delle ferite che non lasciano alcun eterno segno. Aveva sempre creduto che quella cicatrice non fosse nulla che al suo corpo mancasse, ma nemmeno che la privasse di qualche bellezza nello stesso. Non le dava affatto fastidio.
Le dissero, durante una festa, la quale ormai le sembrava aver vissuto in un’altra vita tanto le pareva lontana, che quella cicatrice valorizzava il colore della sua pelle, e dava carattere alle sue mani. Stette mesi a pensare a come la sua mano sinistra, così bianca e perfetta, senza una pellicina fuori posto, potesse avere meno carattere dell’altra mano, altrettanto perfetta, ma con la cicatrice che sul dorso spiccava.
Ciò la costrinse a guardarsi spesso le mani, entrambe, a sollevarle e a portarle di fronte al viso, all’altezza degli occhi, la bocca semiaperta che si dimenticava di chiudere, concentrata com’era, assorta nell’osservazione delle sue dita, dell’articolazione che pressoché invisibile legava dita e palmo. Si accorse che le sue dita erano diventate rugose, particolarmente secche. Delle sottili e strette rughe si stagliavano orizzontali sulla sua pelle.
Tuttavia, nonostante la sua tranquillità assoluta nel trovarle, un giorno, ne fu particolarmente sorpresa. Tanto sorpresa di non averle scorte prima, quanto sorpresa di trovarle lì. 
Si rese conto con assoluta disapprovazione, che sebbene la sua occupazione prevedesse che il suo sguardo cadesse continuamente sulle sue mani, e sul movimento delle sue dita, lei mai era riuscita a guardarle per davvero.
Iniziò a chiedersi se sarebbe stata capace di riconoscere le sue mani in un gruppo di mani, in un mucchio sfasato di mani destre e sinistre, mozzate al principio del braccio, e cominciò a spaventarsi all’idea che un giorno questo sarebbe potuto accadere, sarebbe potuta essere privata delle sue mani, sarebbe dovuta partire alla ricerca dei soli due strumenti che le consentivano ancora di vivere con il suo lavoro manuale, e arrivata davanti ad un mucchio inquietante di mani mozzate e sanguinanti, si sarebbe potuta accorgere, con un terrore che le sarebbe salito alla gola e le avrebbe impedito di respirare, che lei non sapeva riconoscere le sue mani. Sarebbe rimasta con dei tristi moncherini per tutta la vita, incapace di ritrovare le sue mani nemmeno sapendo del taglio che le aveva causato quella cicatrice. Si accorse di non conoscere il suo corpo.
Era incapace di parlarne con una qualsiasi persona, ma tuttavia continuava a pensare, come sempre, e sebbene fosse stanchissima dei pensieri opprimenti che riguardavano sempre quel mondo mero e monotono, non poteva fare a meno di buttarsi a capofitto nel mare che era la sua mente, di lasciarsi trasportare dalla corrente e poi risvegliarsi, la mattina, troppo devastata dal sonno disturbato, sogni di mucchi di mani troncate dove le era impossibile riconoscere le sue, talmente devastata che le era impossibile, per un attimo, pensare, ed era come se la corrente l’avesse portata in salvo su un’isoletta deserta sulla quale davvero, questa volta, esisteva solamente lei.
Era proprio questa sensazione però che la faceva impazzire, il pensiero di essere sola per davvero, quel silenzio anche nella sua mente, quell’assenza di pensieri che le faceva pensare che la sua vita fosse ormai vuota, e allora frenetica veniva colta dal terrore e ricominciava a pensare, incapace di credere che fosse sola per davvero, che la sua esistenza fosse inutile per le altre persone che tanto odiava, e si precipitava giù, giù dalle scale del suo appartamento, a capofitto, rischiando di cadere e di rompersi le ossa, spaventata anche da quest’eventualità e da tutte le altre, che se davvero fosse caduta non avrebbe mai più potuto ricostruire quel corpo che non conosceva e che voleva conoscere, e allora rallentava, frenata dalla paura, ma continuava a scendere e usciva, usciva dal portone del suo palazzo e vedeva le macchine scorrere, le persone camminare, la vita volare a briglie sciolte di fronte a lei e si tranquillizzava.
Ma ormai, era consapevole che fino a che non sarebbe stata nuovamente devastata da tutti quei pensieri la sua mente non l’avrebbe trasportata ancora in salvo da essi stessi, su quell’isola deserta in cui non pensare era così facile, e che si accorgeva essere anche così bello. Si ricordava, ora, che appena prima di sentirsene spaventata, quella solitudine assoluta l’aveva cullata e l’aveva amata come si ama un bambino indifeso, stanco delle prediche del mondo. Sospirava, e accorgendosi di avere un disperato bisogno di qualcosa che la risvegliasse dal torpore del mattino, tornava in casa; davanti allo specchio annuiva e si dava da sola il buongiorno, perché spesso le mancava qualcuno con cui condividere l’inizio delle sue giornate.
Non era in grado di parlare a qualcuno della sua condizione, dei suoi pensieri sulle sue mani sconosciute e sul suo corpo che lo era tanto quanto lo erano le mani, ma man mano che passavano i giorni si accorse che non poteva tenersi per sé quelle paure distruttive di essere un giorno privata dei suoi arti e di non essere in grado di ritrovarli.
Si convinse quindi che era incapace certo di raccontare quello che popolava la sua mente in quel periodo a chicchessia, ma ne parlò a bassa voce, molto velocemente e senza alzare gli occhi, a sua madre, che chiamava “mamma” con la tenerezza di una bambina spaventata.
La madre era sempre stata gentile con lei, sempre stata materna e sempre stata comprensiva, dicendole che se aveva paura del silenzio le bastava parlare e che se aveva paura del rumore le bastava stare in silenzio.
Il trucco suggerito dalla donna per lei non aveva mai funzionato, ma solo al pensiero che qualcuno finalmente le desse una soluzione al suo quotidiano problema di smarrimento e terrore tra silenzio e rumore la tranquillizzava, la faceva sorridere e la faceva crollare addormentata e felice tra le braccia della madre che la cullava fino a che anche le sue forze non venivano meno.
Sua madre fu comprensiva con lei: le disse che per conoscere le sue mani le sarebbe stato necessario osservarle il più possibile, la medicò, le accarezzò i capelli, curò un nuovo taglio che si era fatta lavorando, intagliando il legno con quel coltellino troppo affilato e osservando intanto le sue mani con tanta attenzione da dimenticare di tener saldo il coltello tra le dita. Il taglio bruciava e sul palmo della mano sinistra era destinato a trasformarsi in cicatrice, ma una cicatrice leggera, che si ripromise nessuno avrebbe notato se non lei, di cui nessuno avrebbe chiesto la storia.
Continuò per giorni ad osservare le sue mani, la mano destra così perfetta e la sinistra, perfetta anch’essa sotto la benda bianca che le copriva in diagonale il palmo e il dorso, passando sopra e sotto il pollice. Continuò per tutta la vita ad osservare le sue mani, e la sua paura di non riuscire a riconoscerle piano piano svanì, sicura che grazie alla nuova cicatrice sarebbe stata ormai in grado di ritrovarle qualunque cosa un giorno fosse successa.
Luglio giunse accompagnato da suo fratello che ogni tanto si faceva vivo, nel suo completo bianco, giacca, camicia, pantaloni, cappello. Lei aveva sempre pensato che fosse molto anni Venti, ma da quando se ne era andato era diventato l’ultima delle sue preoccupazioni.
Si presentava alla sua porta, una sera afosa, dicendo che l’aveva avvisata del suo arrivo una settimana prima, anche se lei non se ne ricordava. Adèle spalancava gli occhi, intanto. Il calendario era vicino alla porta, e un segno rosso era ben visibile sul quindici luglio, con la B di Bobby, soprannome con cui chiamava quando era piccola suo fratello, vicino al nome del santo che si onorava quel giorno. Lui le intimava di non preoccuparsi. Non dava fastidio.
Suo fratello, tuttavia, le aveva sempre dato fastidio, anche se lei non l’avrebbe mai ammesso, timorosa di sbagliare, di sbagliarsi sul suo conto e sul conto di tutti gli altri, la terrorizzava il contatto con le persone che non le piacevano, perché era sicura che loro avessero una vita migliore della sua, che loro la notte dormissero, che non avessero le borse sotto agli occhi che aveva lei.  
Il solo pensiero di logorarsi dietro a quelle persone che tanto odiava e la sicurezza che loro non si ricordassero neanche del suo nome la rendeva incapace di non pensare che il problema fosse suo, e non loro. E su questo piangeva, aggiungendo nei suoi quaderni mentali un’altra cosa a cui pensare, un’altra cosa da risolvere per trovare la pace dei sensi, il silenzio assoluto, quell’isola deserta dove i pensieri non esistevano, dove segretamente voleva vivere, ma che al tempo stesso la terrorizzava.
Suo fratello prometteva, mentre solcava la soglia del suo piccolo appartamento all’ultimo piano, che lei non si sarebbe nemmeno resa conto della sua presenza. Avrebbe lavorato nell’area di ricerca dell’università di fisica tutto il giorno per due settimane, sarebbe tornato solo di sera, probabilmente quando lei già dormiva. A cena, suo fratello le raccontò del mix di droghe assunte da un suo conoscente. Era andato fuori di testa, aveva graffiato le pareti del suo appartamento, aveva urlato, aveva implorato aiuto. Qualcuno dei vicini aveva chiamato la polizia dicendo che aveva avuto un attacco di panico. Adesso era in un ospedale psichiatrico e ripeteva a mala pena due parole. Non lo vedeva da qualche mese, dall’ultima volta che era andato a trovarlo. Sembrava stesse particolarmente male, ma l’ospedale gli stava giovando, stando alle parole dei medici.
Bobby disse che dovevano ringraziare i loro genitori, li avevano sempre allontanati con il giusto approccio dalle droghe, lui non ne aveva mai assunto un grammo ed era felice, stava bene, mai ne aveva sentito il bisogno. Adèle guardava il vuoto tra le bottiglie d’acqua che avevano bevuto durante la cena. La bocca semiaperta, il volto contratto, concentrato, lei non si ricordava se avesse mai assunto droghe o meno, non le sembrava, ma poteva davvero essere sicura che se non se ne ricordava era perché non era successo e non perché semplicemente l’aveva rimosso, no, no che non poteva, non avrebbe mai potuto fidarsi così cecamente di sé stessa; cominciò a grattarsi la testa, si grattava senza sosta, le unghie graffiavano la pelle del cranio, il respiro mano a mano sempre più veloce, muoveva gli occhi alla ricerca di un qualche oggetto che potesse farle ricordare un pensiero al quale aggrapparsi, mentre suo fratello si alzava in piedi, notava quel cambiamento di comportamento e le intimava di calmarsi, non sapeva cosa stesse succedendo, riuscì a farla stare seduta, tenendola con due mani sulla spalle, in piedi davanti a lei: “Calmati, Adèle, cosa c’è, calmati, no che non hai assunto droghe, certo che no, non te lo ricordi, quindi no, Adèle, tranquilla, Adèle”.
La chiamava, cercando di muovere la testa per farsi guardare negli occhi, invano, lei ormai guardava solo le immagini appannate che il suo cervello le presentava, e sveniva, poco dopo, smettendo gradualmente di muovere la testa a scatti, destra e sinistra, destra e sinistra, alto, destra, sinistra, alto, basso, destra, sinistra.
Bobby la portò a fare l’esame delle urine e del sangue più e più volte, ma Adèle non si convinceva mai di essere realmente pulita, la notte non dormiva, si immaginava di graffiare le pareti, di urlare, di chiamare aiuto, di impazzire, e aveva paura, si faceva paura, gli occhi spalancati, incapace di dormire, timorosa che se si fosse sognata in quello stato tutto sarebbe stato più realistico e per questo non voleva dormire, non avrebbe mai voluto, passava ore a piangere, devastata dalle immagini che la sua mente proiettava, dal ricordo che lei stessa si era creata di aver assunto droghe, consapevole che era stata lei ad inventarsi tutto ma ormai non più abbastanza cosciente da riuscire ad esserne sicura e a distinguere finzione o realtà, e dopo tutto questo, crollava, distrutta, in un sonno disturbato, agitato, da cui usciva più stanca che mai.
Bobby partì dopo essersi fatto promettere che non avrebbe più fatto esami del sangue o delle urine per assicurarsi di essere pulita. Adèle voleva vederlo sparire, tanto non lo sopportava, e dovette prometterlo. Presto imparò a conviverci, con quel nuovo demone invisibile.
Beveva litri e litri d’acqua al giorno per assicurarsi di avere almeno un modo per smaltire qualsiasi sostanza nociva avesse ingerito. Ricordava che alla festa del liceo avevano fatto così per smaltire la sbornia. Erano riusciti addirittura a guidare e a portarla fino a casa. Era sicura che anche con lei avrebbe funzionato. Per calmarsi, funzionava immaginare mentalmente la ragnatela di vene blu che le scorrevano sul palmo, l’aveva scoperta quando aveva iniziato ad osservarsi assiduamente le mani, era un particolare che non le sarebbe sfuggito quando sarebbe stata in cerca dei suoi arti mozzati.
Funzionava ripetere otto cifre nella sua testa, sempre le stesse, per tranquillizzarsi mentre scendeva con l’ascensore, per impedire che si fermasse a metà percorso. Funzionava far scorrere l’acqua dal rubinetto sempre quindici secondi prima di toccarla, per evitare di bere le impurità dei tubi; scendeva sempre le scale iniziando con il piede sinistro, era un rituale quotidiano e la rendeva sicura che nulla fuori dalla quotidianità quel giorno sarebbe successo; avendo il letto appoggiato per due lati al muro, funzionava dormire sempre con il viso rivolto verso la stanza, poiché in questo modo era più sicura che se fosse entrato qualcuno per farle del male non l’avrebbe colpita alle spalle, e questo la terrorizzava. Funzionavano tutte queste cose e ne funzionavano anche molte altre, avrebbe funzionato anche bere molto più di quanto non fosse già abituata per assicurarsi di purificare il suo corpo come meglio poteva.
Nelle sere seguenti a quel periodo, continuava a guardare le luci fuori dalla sua finestra; non sentiva il caldo soffocante di agosto; finché la finestra era aperta, l’aria si sarebbe rinnovata continuamente, e solo pensare a questo la tranquillizzava.
Intanto, di giorno, lavorava.
Aveva ottenuto sempre ottime valutazioni a scuola in Lavorazione di Legno e Ferro, Cucito ed Economia Domestica C. e2, corso che la sua scuola teneva con particolare orgoglio; perciò il suo lavoro consisteva nell’intagliare il legno e nel creare piccole statuine ritraenti i turisti che lo richiedevano. Era una dipendente di uno strambo negozio di Souvenir in un piccolo paesino turistico, che faceva la sua piccola fortuna grazie a quelle particolari trovate.
Una volta finite le sue sei ore come commessa e addetta all’intaglio, si occupava di pulire il negozio mentre il proprietario, un uomo sulla trentina particolarmente affabile e gentile, con la pelle olivastra, gli occhi neri, i capelli mori, finiva di trascrivere i conti di quel giorno in un quaderno, constatando che non si fidava a tenerli tutti solo nel computer e che aveva bisogno di una copia cartacea. Lei si guadagnava in quel modo i suoi ottocento dollari al mese.
Intagliare il legno era un’arte nobile. Ritrarre il mondo, tuttavia, la spaventava, e si chiedeva spesso se ne fosse davvero all’altezza. Riteneva di non conoscere abbastanza il mondo per poter permettersi di inciderlo o scolpirlo nel legno. Come poteva rappresentare il vento, se non piegando gli steli dei fiori che scolpiva? Ma non voleva farli sembrare storti. I suoi fiori erano quindi irrimediabilmente o storti o troppo dritti per essere davvero fiori. Quando si rendeva conto di questo, l’ansia la prendeva, i suoi occhi si spalancavano. Le sue spalle iniziavano a muoversi, seguivano il ritmo del suo respiro che accelerava, la pancia si gonfiava e si sgonfiava, cominciava a dondolare avanti e indietro, muoveva la testa, gli occhi guardavano terrorizzate la statuette da lei stessa scolpite, le sue creazioni, e si rendeva conto che non sapeva, non conosceva, non poteva, troppa responsabilità, e se avesse sbagliato, se avesse sbagliato tutto, come poteva non sbagliare tutto, come poteva ritrarre il vento, come poteva ritrarre i movimenti del mare, e se non ci fosse riuscita lei sarebbe stata destinata, condannata a rimanere ferma, intrappolata nell’orrore dell’immobilità, così come aveva condannato alla stessa pena le sue statuette, le prendeva in mano, le buttava a terra, le riprendeva, poi le gettava tutte sul pavimento, facendo scorrere il braccio su quel tavolo da lavoro dove le conservava tutte ordinatamente, le gettava a terra e camminava tra di loro, calciandole o muovendole semplicemente con il movimento dei suoi piedi, voleva che si muovessero, non voleva l’immobilità, lei non voleva, non aveva mai voluto, ma non poteva, non aveva mai potuto evitare di non riuscire a scolpire il vento, e pregava, pregava fortissimo, correndo fuori dal negozio mentre il suo capo la inseguiva urlandole di tornare indietro, pregava fortissimo che non le fosse negato di camminare e di muoversi, e correva, muoveva tutti gli arti che le era concesso muovere, muoveva le dita, muoveva le gambe, le braccia, il bacino, il collo, la testa, le palpebre, la bocca, la lingua, si muoveva e quel movimento appariva così inquietante, visto da fuori, ma per lei era così liberatorio sapere che poteva muoversi, non poteva fermarsi, non avrebbe mai potuto, perché allora la paura l’avrebbe attanagliata, e avrebbe temuto di non poter più muovere quel muscolo o quell’altro, e quindi continuava a muoverli tutti, per assicurarsi che fossero perfetti nel loro funzionamento e continuassero ad esserlo.
Quando tutto finì, lei costretta a stare ferma, piangeva, come stuprata, pentita, sicura che non avrebbe mai più scolpito se non era in grado di far muovere le sue statuette.
Ma no, non avrebbe mai più scolpito comunque, perché quel giorno il suo lavoro finiva definitivamente, non avrebbe mai più messo piede in quel negozio, né per suo volere, né per volere del suo capo.
Iniziava settembre. Sua madre invecchiava, ciocche di capelli grigi spuntavano ad ogni stranezza della figlia, ad ogni sua ansia rivelata; dopo quello spiacevole episodio sul posto di lavoro viveva con i genitori, aveva lasciato quell’appartamento mansardato e loro avevano sperato che fosse stata semplicemente la solitudine a ridurla in quello stato: nessun dottore, tuttavia, confermava la loro teoria.
Adèle era una brava ragazza. Un neo tirabaci appena sotto la narice sinistra, i capelli, gli occhi castani, le occhiaie scure, l’arsura alle labbra. Ma nulla di tutto questo la privava della sua bellezza, forse solo lo sguardo perso nel vuoto, sempre di più, mentre giungeva ottobre, mentre suo padre si convinceva che sebbene le medicine sembrassero toglierle tutta la sua personalità, almeno le impedivano di compiere azioni troppe pericolose, che sembravano ferire lei stessa più di chiunque altro.
Addormentata in quello stato dove i farmaci la conducevano, riposava per giornate intere sotto al porticato della villa dove ora viveva. Pensava, rifletteva. Si chiedeva chi fosse. Nessun farmaco poteva tuttavia rispondere ad una domanda tanto intima.
La villa in cui viveva ormai da un mese era immersa nella zona residenziale della città, non si poteva dire che fosse isolata, ma il giardino particolarmente grande, circondato dalla folta siepe, faceva si che le ville intorno, la strada, il rumore e la città stessa scomparissero alla vista di chi abitava la grande casa. L’edificio si stagliava verso l’alto, mostrando di ogni particolare la perfezione dello Stile Liberty, che suo padre, così devoto all’architettura degli inizi del Novecento, adorava più di ogni altra cosa. Si accedeva alla rampa di scale che portava all’ingresso principale percorrendo un vialetto di ghiaia, circondato dalle grandi aiuole d’erba verdissima, dove alti alberi cacciavano l’afa persistente delle stagioni calde. La villa era divisa in tre zone principali, una zona orientale, dove una torre poco più alta del tetto più basso mostrava degli eleganti archi divisi in gruppi di quattro per lato. La facciata della zona centrale, invece, era di un delicato color panna, e a fianco di essa, a sinistra, faceva la sua bella figura un piccolo porticato abbellito con piante rampicanti e raffinate poltrone. Infine, la zona sud era nascosta alla vista da tutto il resto della casa, appariva in tutta la sua bellezza solo a chi si avventurava sul retro: aveva intorno un’altra ampia zona di giardino, disseminato da piante e con pochi metri quadrati destinati all’orto che sua madre curava con particolare diligenza, raccogliendo poi soddisfacenti frutti.
Adèle era sempre stata ammaliata dal modello perfetto di donna che sua madre interpretava. La perfezione in ogni suo gesto l’aveva sempre affascinata, fino ad imitare, fin da piccola, ogni suo movimento e postura. Nessuno l’aveva mai spinta a vivere comportandosi normalmente, pensando che fosse giusto che una bambina imitasse un modello che considerava corretto. Tuttavia, sebbene Adèle non fosse più una bambina, ormai, a ventotto anni, mentre erano a tavola, nella grande sala da pranzo, se la donna posava la forchetta, Adèle faceva lo stesso, per poi bere per tanto tempo quanto beveva la madre e chiudere gli occhi per assaporare il gusto dell’acqua fresca, esattamente come faceva lei.
Rapportarsi con le persone diventava per lei sempre più difficile, tuttavia cercava un rimedio alla sua depressione. Trovò pace. Si recava giornalmente alla stazione degli autobus più vicina, erano poche le persone a frequentarla: di solito chi abitava nella zona residenziale diffidava degli autobus e prendeva più frequentemente la macchina. Adèle, per i pochi di quella zona che decidevano di usufruire del servizio pubblico, stava seduta in uno dei sedili di metallo e, dopo aver fatto passare i primi tempi in cui era timorosa di pronunciare anche solo una parola, decise che quello che voleva fare era effettivamente utile. Così, ad ogni persona che giungeva nella piccola stazione e si sedeva in attesa che l’autobus arrivasse, pronunciava sorridente sempre le stesse parole.
Diceva che il prossimo autobus sarebbe arrivato a momenti, ed elencava tutti gli autobus del pomeriggio. Il primo alle tredici e venti, il secondo alle tredici e quaranta, il terzo alle tredici e cinquantotto, poi alle quattordici e venti, alle quattordici e cinquantotto, alle quindici e venti, alle quindici e quaranta, alle quindici e cinquantotto, alle sedici e venti, alle sedici e cinquantotto, così sempre con lo stesso schema fino all’ultimo autobus del pomeriggio, alle venti e venti. Poi iniziava quello serale, ma non conosceva gli orari, ipotizzava che fossero comunque gli stessi. Sorrideva al suo interlocutore, il quale spesso rispondeva al sorriso, imbarazzato.
Non smise di rendersi utile ai passeggeri ripetendo la sua litania alla stazione degli autobus nemmeno quando il freddo di dicembre costringeva tutti a rintanarsi nelle proprie case non appena fosse possibile. Suo padre continuava a ripeterle di non andare, ogni dottore a cui chiedevano consiglio diceva che sarebbe stato meglio lasciarla fare ciò che più desiderava fare, ma che effettivamente si, sarebbe stato più produttivo farle fare qualcosa di più sano. Era stato il medico da cui era in cura a diminuirle le medicine, ritenendo che si potesse tentare, avendo notato da qualche settimana un  miglioramento. Lo soddisfaceva il fatto che Adèle, in qualche modo, tentasse di rapportarsi con le persone, e credeva che il toglierla da quello stato di torpore continuo dovuto ai farmaci le avrebbe consentito di sviluppare qualche passione più normale del ripetere gli orari degli autobus. Egli, tuttavia, continuava a tenerla sotto un controllo assiduo, per mezzo di incontri e telefonate con i genitori, per evitare che la cosa degenerasse.
Le medicine, sebbene fossero state diminuite, non avevano smesso di sedarla in uno stato di apatia che cominciava la mattina, appena le assumeva dopo la colazione, aiutata da sua madre che accarezzandole i capelli, protettiva, le consegnava tra le mani il bicchiere d’acqua per mandarle giù, poi continuavano a rintronarla fino al primo pomeriggio, quando, grazie alla diminuzione delle dosi, l’effetto scemava; la sera riprendeva due pastiglie per assicurarsi di dormire entro circa un’ora per più di nove ore.
Gli orari degli autobus non erano così complicati da ricordare. Li ripeteva senza alcuna difficoltà e con estremo orgoglio. Pioveva, quando un ragazzo sulla trentina, incuriosito dal comportamento di Adèle, le chiese come si chiamasse, non appena lei ebbe finito di dire la sua battuta.
Mentre lui le rivolgeva la parola, il sorriso di lei si trasformava in smorfia confusa. Tirava su col naso, mentre cominciava a chiedersi perché  le avesse posto quella domanda, si chiedeva chi fosse, quel ragazzo. Quel giorno non rispose, se ne andò non appena il ragazzo salì sull’autobus, ma incapace di rinunciare alla sua quotidianità, all’abituale pomeriggio passato alla stazione, Adèle continuava a tornare, così come la domanda di quel ragazzo.
Le sembrava così strana, chiusa nel suo mondo, gli occhi persi, concentrati in quello che aveva da dire, tanto da incuriosirlo, tanto da voler conoscere la sua psicologia, sebbene capisse che lei non apprezzava quell’approccio esagerato. Ma non importava, lui non stava facendo nulla di così sbagliato o condannabile. Non la stava toccando con un dito.
Tuttavia, le parole per Adèle erano i mostri più terribili. Le salivano alle orecchie percorrendo tutte le strade possibili che le offriva il suo cervello, si distorcevano, e continuava a inquietarsi per quelle banali domande.
“Come ti chiami?” perché glielo stava chiedendo? Che cosa gli importava? Lei era lì solo per dire gli orari degli autobus, doveva, era suo dovere ormai, il suo mestiere, ma non doveva fare nient’altro, nulla che non le fosse stato chiesto, le era stato chiesto di ripetere la sua litania ogni pomeriggio, le era stato chiesto, ne era sicura, qualcuno glielo aveva chiesto e lei era utile perché adempiva al suo compito, al suo dovere più diligentemente di chiunque altro, non serviva nient’altro per dimostrare il suo valore, non le era stato chiesto di dire chi fosse, come si chiamasse, solo di ripetere gli orari degli autobus, ma lei non voleva più farlo, la presenza di quel ragazzo la inquietava, “Mi dici chi sei o mi lascerai sempre senza una risposta?”, che importava chi fosse, lei ripeteva gli orari dell’autobus, lei faceva solo quello, lei era solo quello, lei era il suo dovere, lei era gli orari dell’autobus, si, gli orari dell’autobus, e forse aveva trovato la sua identità, ma sembrava che adesso non bastasse più, adesso c’era qualcuno che le chiedeva chi fosse, quindi c’era dell’altro? Non era gli orari dell’autobus? Non bastava quello? Era ancora persa nel vuoto del nulla, dove dopo anni e anni di ricerca lei ancora non sapeva nulla di sé stessa e quel vuoto le faceva così paura, e cominciava a piangere, presa dal panico e dalla disperazione, non ne sarebbe mai uscita, sarebbe sempre stata pazza, con quel disturbo ossessivo compulsivo che nessuno sembrava riuscire a curare, da mesi ormai, sedata dalle medicine, odiava le medicine, le odiava più di suo fratello che ad ogni parola le metteva più paura, la droga, il mix di droga, i graffi sulle pareti, avrebbe preferito morire pur di non graffiare le pareti, si sarebbe fatta male, graffiando le pareti, lei non voleva graffiare le pareti, piuttosto la morte ma no, non voleva morire, aveva così paura della morte, morire prima di trovare sé stessa era un’assurdità, era terrorizzante ma non c’era nulla che potesse tranquillizzarla, iniziò a dondolare avanti e indietro, gli occhi spalancati, il respiro, non riusciva più a controllare il respiro, i pensieri si alimentavano l’uno per mezzo dell’altro, la sua mente a
briglie sciolte, “va tutto bene?” non sentiva, non sentiva le parole di quel ragazzo e continuava ad averne paura, le macchine di fronte alla stazione degli autobus, su quella strada provinciale, andavano più veloci del previsto e lei le guardava, avrebbero potuto investire qualcuno, quel qualcuno sarebbe potuta essere lei, sarebbe stata investita, immaginò di essere investita, non voleva essere investita, aveva così paura delle macchine, della velocità, dondolava avanti indietro e piangeva, disperata, urlava, portandosi le mani sul viso e graffiandosi la faccia, partendo dalla fronte e continuando sulle guance “Hey, devo chiamare qualcuno? Cosa stai facendo? Aiuto!” anche quel ragazzo sarebbe stato investito, l’avrebbe spinto lei in mezzo alla strada, se avesse continuato a parlare, non doveva continuava a parlare, le sue parole facevano male, lei non era un pericolo, non doveva chiamare aiuto, non voleva spingerlo in mezzo alla strada, non voleva essere investita, nemmeno buttarsi in mezzo alle macchine, il suicidio era peccato, peccato grave, continuava a piangere, chiamava sua madre, lei non voleva, lei voleva solo ripetere gli orari degli autobus, era il suo dovere, erano la sua identità, lei era gli orari degli autobus, e piangendo, dondolando, iniziava, tredici e venti tredici e quaranta tredici e cinquantotto quattordici e venti quattordici e cinquantotto quindici e venti quindici e quaranta quindici e cinquantotto sedici e venti sedici e cinquantotto, la voce spezzata dal pianto, poi buio, buio totale, le medicine, avevano di nuovo aumentato le dosi, e adesso passava di nuovo i giorni distesa a pensare, sedata in quello stato d’apatia.
Non era in ospedale solo perché ancora non aveva fatto male a nessuno, non aveva danneggiato nulla, era sotto la custodia dei suoi genitori e usciva di casa solo per andare dallo psichiatra.
Sua madre passava ogni momento con lei, mentre l’orto moriva privato delle sue attenzioni.
Adèle aveva paura che il modello di diligenza e rigore che sua madre interpretava svanisse, ma i farmaci le impedivano di pensarci troppo. La stancava ogni movimento. Aveva solo la forza di piangere, e piangeva, senza sosta. Si chiedeva se sarebbe mai guarita. Lo chiedeva a sua madre.
“Guarirò mai, mamma?” La madre le rispondeva che si, certo che sarebbe guarita, si guarisce sempre. “Grazie alle medicine?” No, non grazie alle medicine. Non solo. Le medicine erano solo un mezzo per aiutare la mente a guarire da sola. Avrebbe ripreso le forze e sarebbe stata nuovamente in grado di affrontare tutto.
La depressione, tuttavia, non terminava. Non trovava via d’uscita. Suo padre credeva che l’avrebbero trovata insieme, portandola finalmente fuori di casa. Andarono ovunque: a pescare, a camminare, a teatro, al cinema, ma finiva sempre a mostrarle con entusiasmo come si facesse questa o quest’altra cosa, senza che lei si muovesse. Adèle scuoteva la testa e gli chiedeva di tornare a casa.
“Vedi,” diceva “a me ora serve fare l’indispensabile per evitare di desiderare la morte, che mi terrorizza, ma che bramo molto spesso. E mi basta, non so per quale motivo, stare sul divano vicino alla mamma. Io vi voglio bene. Non voglio farvi del male. Io finirò per impazzire. Ma credo di essere già completamente pazza, papà, pazza più di ogni altra cosa”
Gli psichiatri non le fornivano delle risposte. Adèle non si apriva minimamente con loro, quasi li temeva, temeva la loro reazione quando avesse svelato i suoi pensieri e le sue paure più intime. Chiedeva solo se avesse mai ferito qualcuno: non se ne ricordava, ma cercava comunque conferma. Non aveva ferito nessuno. Bene. Le bastava quello.
A gennaio tutto continuava, il tempo trascorreva troppo lento, lei continuava a pensare a quanto fosse terribile la sua mente, continuava a desiderare di morire e ad esserne terrorizzata, il cuore le sembrava battesse ogni giorno più forte ed era certa che un giorno le sarebbe scoppiato il petto, il pensiero le impediva di respirare e piangeva, incapace di reagire in qualsiasi modo. L’ansia era parte integrante delle sue giornate, pensare di poter guarire le sembrava assurdo, non si ricordava com’era non essere in quello stato, si convinceva giorno dopo giorno di non essere mai peggiorata o migliorata, era semplicemente nata in quelle condizioni.
A gennaio pioveva, la bufera si riversava impetuosa, faceva freddo, il gelo pietrificava ogni cosa nella sua morsa crudele, le piante sembravano morire sotto le nuvole ogni giorno più nere. Adèle passava, non osava vivere, passavano i giorni e con i giorni lei aspettava che arrivasse il momento in cui qualcosa sarebbe cambiato, la speranza di poter guarire era scivolata, lentamente, si era sotterrata sotto cumoli e cumoli di macerie, resti impolverati di tutto ciò che Adèle prima era stata, di tutto ciò che aveva sperato sarebbe diventata, e ora non rimaneva più che l’anedonia che subdola e silenziosa di impossessava della sua nemesi.
Gennaio volgeva al termine quando l’anima di Adèle scoppiò.
A cena, quella sera, non c’erano solo lei e i suoi genitori, ormai distrutti dallo stato psicologico della figlia. Seduti attorno al pesante tavolo di legno c’era un’altra famiglia, vecchia amica dei genitori di Adèle, così canonica e perfetta, che Adèle sembrò esserne affascinata.
Il sorriso falso sulla bocca degli ospiti le faceva pensare che se anche era impossibile raggiungere la serenità, almeno si poteva fingere di essere felici, e così sorrideva, anche lei, stanca di quello stato di apatia di cui si era fatta prigioniera. Sorrideva, mangiava, beveva, parlava solo se interpellata, poiché ancora poco esperta dei nuovi passi che stava facendo verso l’interazione con altre persone. Dopotutto, era solo una cena alla quale aveva deciso di prendere parte attivamente.
Si lasciava trascinare da quel nuovo stato d’umore, quella fasulla felicità, capiva che i genitori avevano invitato delle altre persone a cena, moglie, marito e un bambino di sette anni, per portare una distrazione ai suoi demoni. Capiva che quel falso sorriso, le conversazioni sul meteo, il silenzio imbarazzato che talvolta calava quando Adèle rispondeva ad una domanda, era dovuto allo stato d’allerta che gli ospiti erano costretti a vivere: scappare, fuggire non appena Adèle avesse fatto qualcosa di troppo strano. Non avevano voglia di stare vicino a lei, non avevano voglia di incappare in situazioni strane, dannose, insane. Adèle lo capiva, e si limitava a mangiare, cullata da quella tranquillità apparente.
Il bambino sedeva di fronte a lei, giocava con il cibo, spostandolo con la forchetta da un lato all’altro del piatto. Era un esserino biondo, piccolo, gracile, non alto più di un metro e venti, dimostrava meno anni di quanti effettivamente ne aveva. Adèle sorrideva, guardandolo. Si reggeva posando il capo sul pugno chiudo, scaricando il peso sul gomito destro appoggiato al tavolo. Era stanca. Gli occhi quasi si chiudevano. Le occhiaie sotto di essi erano ancora troppo evidenti sotto lo strato abbondante di correttore. Per il resto, il viso di Adèle era pulito, senza un filo di trucco, era così androgina, era così devastata che era stata privata della sua stessa sessualità. Non conosceva più nulla che non fosse la sua ansia, il suo panico, la sua disperazione. La madre la guardava invitandola con gli occhi a parlare, pur non essendole stata posta alcuna domanda.
Adèle  l’accontentò. La sua voce tremava. Si accorse di essere stata senza parlare di sua spontanea volontà per moltissimo tempo, e le sembrava così strano porre una domanda a quel bambino, si sentiva come se fosse stata privata del diritto di domandare, di interpellare, di chiamare. La passività l’aveva dominata fino a piegarla.
Tuttavia, domandò. << Dove vai a scuola? >>
Lui rispose, sorridendole a bocca aperta. L’incisivo centrale era caduto. Una finestrella si apriva sulla sua arcata superiore. Era tenero. Adèle sorrise a sua volta.
<< Dalle suore >>
<< E ti piace? >>
<< No >>
<< Nemmeno a me piaceva >>
<< Perché? >>
Adèle sollevò il capo dal pugno chiuso e girò il volto verso sinistra, guardando sua madre. Perché non le piaceva andare a scuola? L’aveva sempre odiato. Sempre la stessa storia, rabbia, noia. Nessuno l’aveva mai compresa, e aveva abbandonato gli studi finito il liceo. Poi, era crollata.
<< Credo non ti piacesse studiare a prescindere, amore >> rispose sua madre.
La madre del bambino sorrise, intenerita. << Quando crescerà gli piacerà molto di più. Ha un grande futuro davanti >>
<< Papà dice che posso fare o il dottore o l’avvocato, ma io non voglio >> la voce del bambino era acuta, per parlare apriva la bocca molto di più di quanto non fosse necessario.
<< Arrivare ad essere qualcuno di rilevante può aiutare a sviluppare il proprio scopo nella vita. Quando crescerà impererà a distinguere le cose importanti, siamo tutti quanti destinati a crescere e a maturare, a compiere grandi cose. Non è forse un valore acquisito e depositato nella mente di ognuno di noi, Adèle, mia cara? >> La donna portò alla bocca la forchetta d’argento, masticando lentamente gli zucchini bolliti. Ad Adèle non piacevano. Si era limitata a lasciarne qualcuno, mangiando il resto per pura educazione e rispetto nei confronti della madre.
<< Non sempre è così facile e immediato compiere grandi cose. Talvolta nemmeno così importante >>
Il silenzio tornava a regnare sovrano sulla tavola.
Il rumore delle forchette che sbattevano sui piatti era l’unico suono a cui Adèle poteva aggrapparsi per evitare di lasciarsi trasportare dal flusso di pensieri. Compiere grandi cose, essere ciò che la vita ci ha destinati a diventare, maturare, sviluppare un pensiero, un ideale, camminare verso una metà precisa che si avvicina sempre di più ad ogni passo e poi morire, morire, fieri della propria esistenza, fieri di essere stati, stati e basta. No, Adèle non ce l’avrebbe mai fatta. E convinta che il mondo avesse ormai rinunciato a contare su di lei.
Il bambino riprese a parlare, mentre gli zucchini bolliti nel suo piatto, con il quali continuava a giocare, si erano ridotti ad una semplice poltiglia verdastra: << Tu che lavoro fai? >>
Le parole tornarono ad essere per Adèle causa di ferite sempre più profonde, tornava l’ansia a sottometterla.
<< No, io.. Io non lavoro >>
Non era più in grado di lavorare, ne era consapevole, ogni giorno, ogni giorno che passava se ne ricordava e si torturava, non si sarebbe mai perdonata, non avrebbe mai scusato la sua incapacità di controllarsi. Si era abbandonata a quel destino.
<< Perché? sei stupida o malata? >> La voce del bambino, il suo tono innocente era acuto, sempre di più, sempre più tagliente, alle orecchie di Adèle giungeva un suono distorto, fortissimo, che rimbalzava sulle pareti del suo cervello, senza mai rallentare.
<< Vado a prendere il dolce >> oh, mai fu più inutile il tentativo della madre di interrompere un discorso che sapeva più dannoso di qualsiasi altra cosa per Adèle, la quale nemmeno udì, nemmeno sentì la sedia sulla quale la donna era seduta strisciare sul pavimento e i suoi passi verso la cucina.
Adèle iniziò, piano, a mordersi le labbra. Tirò sul con il naso.
Sorrise, nervosamente. Il padre e la madre del bambino si scambiarono uno sguardo teso. L’uomo parlò al bambino << Non prendere alla lettera tutto quello che ti dico, tesoro. Nonostante ti abbia detto così, una persona può non lavorare per molti motivi. Adèle, non ascoltarlo, scusalo >>
Adèle sbatté le palpebre, gli occhi bruciavano. Era stanca, distrutta, devastata dalla consapevolezza di non essere capace di uscire di casa senza crollare, spezzata dai propri pensieri, di non essere in grado di mantenere una lucidità per relazionarsi con le persone. Che senso aveva vivere, se l’uomo vive grazie alla relazione, se lei la relazione non poteva sostenerla, se lo scopo ultimo era scoprire la propria identità e se la sua identità era stata schiacciata, stuprata, violentata della sua stessa mente ancor prima che venisse fuori? A cosa serviva, Adèle? Come poteva aiutare il mondo a risollevarsi dalla propria crisi, Adèle? Perché nascere se il suo destino sembrava essere stato da sempre quello di soccombere sotto le sue stesse macerie?
Perché nascere? Per gravare sulle spalle dei suoi genitori, per portarli alla morte per disperazione, per costringerli a guardare lo scarto umano che era diventata, ad assistere alla sua fine? Adèle, nonostante non avesse più la forza per esistere, rispose. << Ma ha ragione. Il lavoro forse non nobilita l’uomo? >>
<< E’ molto più complicato di così, Adèle, tesoro. Ti prego, ignora mio figlio >>
La madre di Adèle tornò con un dolce bellissimo, fatto in casa, posato su un piatto di porcellana bianco. Gli occhi rossi della figlia furono la prima cosa che notò, e il sorriso che si era costretta ad indossare per smorzare la tensione morì in un attimo. << Adèle, amore, tutto bene? >>
Adèle non rispose. Non rispose alla madre, quella donna che da quando era nata si era presa cura di lei senza mai chiederle nulla in cambio. Era forse un’ingrata, per non averle mai dato una soddisfazione? Molto probabilmente si, ma era così piena di sensi di colpa dovuti ad ogni parola, ogni gesto, ogni cosa che facesse che l’aggiunta di quell’ulteriore fattore non la destabilizzò così tanto. Sebbene la goccia che poteva far traboccare il vaso non l’avesse ancora raggiunta, e la mente dilatata di Adèle sapeva che questa era ormai troppo vicina per poter continuare a stare lì. Doveva uscire, doveva andare via. Aveva bisogno di respirare, l’aria, mancava l’aria in quella stanza. Da quanto tempo era che non cambiavano aria nella sala da pranzo? Due, tre ore? Era troppo, la camera si stava lentamente riempendo di anidride carbonica, la sua mente le offriva quell’immagine come più importante fra tutte le altre. Spostò le mani dalla superficie legnosa del tavolo alle sue cosce, posandole delicatamente sui pantaloni. Deglutì, pronta a annunciare che non si sentiva bene, che sarebbe salita in camera, rinunciando al dolce. Era terrorizzata dall’idea che la sua voce sarebbe potuta essere più tremante del previsto. Il nodo alla gola, le lacrime agli occhi, il tremolio che ormai si era impossessato delle sue ginocchia, non le avrebbero consentito di far apparire il suo aspetto completamente normale, il suo comportamento idoneo e la sua voce ferma e sicura.
Deglutì ancora. Sua madre continuava a guardarla, in piedi, con il dolce in mano.
<< Adèle >> la chiamò di nuovo << Adèle, amore.. >>
Colta all’improvviso da quel rumore, Adèle alzò gli occhi e vide, di fronte a se, il bambino.
Non rispondergli, scappare, andare via, respirare, erano le sue priorità. Ma come poteva, rovinare in quel modo la cena che i suoi genitori le avevano dedicato e grazie alla quale, in un primo momento, si era sentita bene? Come privare quel ragazzino di una risposta, come, dopo che il mondo l’aveva privata delle soluzione a tutte le sue domande, come?
<< Credo di essere malata >> la voce tremava.
<< Hai la febbre? >> il sorriso del bambino la pugnalava.
<< Non essere scortese, figliolo >>
<< Adèle, tesoro mio.. >> e la madre, la madre non smetteva di chiamarla.
<< La febbre, certo >>
<< Allora guarirai, si guarisce sempre dalla febbre >> l’ingenuità nei suoi occhi la metteva a tappeto, mentre sua madre si allarmava, sempre di più, posava il dolce sul tavolo, i muscoli della faccia tesi e le gambe pronte a scattare nella sua direzione, dimenticandosi degli ospiti, del sorriso di cortesia, di tutto il resto si dimenticò ed esistette solo sua figlia.
<< Stai male? Adèle, perché ti alzi, cosa fai? >>
La sedia aveva strisciato sul pavimento, il rumore aveva provocato un fastidioso rimbombo nella sala da pranzo ormai troppo silenziosa. Adèle sentiva chiaramente nella sua testa che l’ossigeno  finiva. Aria. Aveva bisogno d’aria. Respira, va a respirare. Il bambino di fronte a lei continuava a guardare, gli occhi che cercavano una spiegazione a quel comportamento inconsueto, così strano, la bocca socchiusa, si mordeva senza accorgersene il labbro inferiore. I genitori di Adèle erano stanchi di cercare invano un rimedio, un passatempo, una distrazione che potesse portare i pensieri della figlia lontano da dove risiedevano giornalmente, da ormai troppo tempo.
Era sempre stata così insicura, davvero. Così piccola, così fragile. Da piccola aveva i capelli biondi, il biondo del bambino, il candido del neonato, che diventò quel castano scuro, visto e rivisto, banale e di certo per niente raro nella folla; non era particolarmente alta, per niente, tanto che  nel suo appartamento mansardato le era stato piuttosto facile abituarsi ed adattarsi ai soffitti bassi; aveva le gambe storte, le braccia anche poiché i gomiti, slogati quando era piccola a causa di una caduta dallo scivolo, non consentivano all’arto di rimanere dritto, quindi si piegava, e l’effetto era quello di ossa costantemente rotte. Adèle portò proprio quel braccio, quello che sembrava più piegato, alla nuca, scostando i capelli dalla fronte ormai madida di sudore con due dita. Deglutì, guardando per un attimo tutti quegli sguardi puntati su di lei. Respira, va a respirare.
Hai la febbre?  Si, aveva la febbre, per quello non lavorava. Tuttavia, il ricordo della sua crisi proprio di fronte all’ingresso del suo ex posto di lavoro la fece impallidire. Quel terrore che i suoi muscoli potessero essere condannati all’immobilità, il suo corpo, il suo corpo che aveva bisogno di correre, muoversi, vivere, aria, il suo corpo aveva bisogno d’aria e lì l’aria stava finendo, ma non poteva muoversi, non ora, non con gli occhi puntati tutti quanti su di lei, hai la febbre? No, certo che no, non sarebbe guarita mai, mai da quella malattia, da quella follia, pazzia, così assurda, mai da quel disturbo mentale che sembrava essersi impossessato di lei, la guarigione apparteneva ad un’altra vita, troppo lontana per considerala davvero possibile. Hai la febbre?  Si, la febbre, doveva andare a sdraiarsi, da sola, via, via da quei genitori che l’avevano accudita fin troppo, aria, aveva bisogno d’aria; respira, va a respirare, Adèle, corri, vattene, va a correre, i tuoi muscoli non potranno più muoversi se non corri ora, tu diventerai la tua corsa, sarai la corsa, sarai il movimento dei tuoi muscoli, perché la tua identità è finalmente giunta, ha fatto ritorno; non è quei numeri, Adèle, Adèle non è gli orari degli autobus; gli orari degli autobus, qualcuno gliel’aveva chiesto, quello era diventato il suo mestiere, il suo lavoro e lei era da mesi che non si muoveva da casa, giorni, settimane, ore, anni, quanto, Adèle, da quant’è che non ti muovi da casa, così presa dalla tua crisi esistenziale, ma tu non sei, è questa la verità, non sei, sei immobile, un essere immobile, va, va a testare la tua corsa, respira, va a respirare, qua l’ossigeno sta finendo e le tue mani prudono, fremono, la testa è in fiamme, il volto è rosso e tu sei stanca, dannatamente stanca di stare qui, lì, ovunque ti mettano sei stanca di stare, chiunque tu sia sei stanca di essere, va a respirare, Adèle, fuori la bufera aumenta, sempre di più, non c’è scampo dalla neve, dalla pioggia, non c’è scampo dal gelo, Adèle, le mani, a che ti servono le mani se non puoi muoverle, usarle, se non puoi dare movimento al legno, se condanni le tue creazioni all’immobilità, graffia, Adèle, le mani contro il muro, le unghie contro l’intonaco, staccalo, Adèle, stacca quell’intonaco, urla, chiedi aiuto, implora pietà, che di libertà non ne hai più, che la libertà è finita nel momento stesso in cui non hai più voce per urlare e urlare, è impossibile ora urlare, la voce non esce, il dolore alla gola aumenta, le corde vocali si staccano, spariscono, sussurrare, l’ultima speranza è sussurrare << Vado via >>.
<< Vado via >> Sussurrò Adèle. Erano passati due secondi da quando si era alzata dalla sedia, meno di un decimo da quando il rumore provocato dalla sedia che strideva contro le piastrelle aveva abbandonato rimbombando le orecchie di tutti.
<< E dove, amore, Adèle, dove vuoi andare? >>
<< Via, fuori >>
<< Ma che senso ha >>
Adèle era già fuori, mentre il padre la rincorreva, mentre il bambino domandava, curioso, mentre non capiva cosa stesse succedendo, mentre la madre la chiamava, le diceva di tornare indietro, mentre gli ospiti si alzavano anch’essi dalla sedia, rimanendo tuttavia nella sala da pranzo, consapevoli che sarebbe successo qualcosa, consapevoli che gli occhi del loro figlio non potevano anche solo intravedere quel che gli si parava di fronte. Adèle era già fuori.
Vento, vento gelido di gennaio, vento freddo invernale.
Il buio le faceva ricordare le notti passate a guardare le luci fuori dalla finestra del suo appartamento mansardato, quando ancora la sua mente era consapevole del mondo che la circondava, quando ancora, bene o male, le immagini risultavano lucide, chiare, veritiere, e quando il suo cervello non storpiava ciò che lei stessa vedeva.
Il buio la soffocava, sentiva la ghiaia sotto i suoi piedi ma non la vedeva, sentiva il vento sulle guance, il freddo sulle gambe, sentiva l’aria scontrarsi contro la casa e rimbalzare verso gli alberi, frusciare in mezzo all’erba, spingere le macchine verso o in direzione opposta alla meta verso la quale erano dirette. Percepiva ogni cosa all’ennesima potenza, percepiva tutto tranne se stessa, si perdeva in quell’oblio di follia, ormai definitivamente, non c’era più niente in lei che rimanesse integro, si sfaldava, mentre l’anima scoppiava, così stanca, si sforzava, cercava di combattere contro la morsa sedante delle medicine, cercava di urlare, di muoversi, di correre, e non riusciva a far altro che piangere e ancora distruggersi, disintegrarsi, le sue mani, ancora le sue mani resistevano, toccavano la pelle del cranio e sentivano i capelli tra le dita, mentre il corpo si accasciava a terra e lei tirava su con il naso alla ricerca di aria, le lacrime scendevano e voraci bruciavano le sue guance, i singhiozzi le impedivano di emettere anche solo il benché minimo suono, ma la sua mente urlava, ogni fibra del suo corpo urlava, ogni atomo urlava, ogni cosa urlava attorno a sé, urlava di smetterla, di andare via, di lasciarla stare, di lasciarla respirare, di lasciarla vivere, sdraiata su un fianco sulla ghiaia, il volto che strisciava sulla terra, i muscoli del viso contratti, chiedeva pietà, chiedeva una nuova possibilità, chiedeva la fine di tutta quella follia, e mentre la pioggia cadeva fitta, mentre ormai fradicia non poteva far altro che restare ferma a finire, mentre suo padre le si avvicinava e le prendeva la testa, mentre cercava di sollevarla da quella follia ancora una volta, ma per l’ultima volta, sperando che davvero fosse l’ultima, sperando che una volta che quell’anima fosse scoppiata, ce ne sarebbe stata ancora una nuova ma Adèle non sentiva, non sentiva più nulla, oscillava tra la realtà e l’oblio, tra la realtà e il nero, alzò una mano mentre il suo corpo teso e duro a terra si contorceva, si tirò un pugno sul cuore, un altro ancora e poi un altro, mentre sua madre piangeva dietro di lei, mentre suo padre le urlava di smettere e piangeva anche lui in preda all’ansia alla paura al terrore che, dilatatosi, aveva iniziato ad occupare non solo la mente di Adèle ma quell’intero giardino, quell’intero quartiere perché in quell’esatto momento il suo cuore si fermava e i suoi pugni non bastavano per farlo tornare a muovere, perché il collasso fu troppo desiderato, l’infarto fu la cura più immediata per Adèle, e nessuno seppe trovare di meglio, niente di meglio che la morte, niente di meglio che un netto stop a quella tortura infame, niente di meglio del disastro, della tragedia, del drammatico e struggente pianto di chi assistette e di chi scrisse e di chi visse la sua storia.
Adèle visse ancora per tre secondi da quando il cuore e il suo cervello si fermarono definitivamente. Adèle visse ancora tre secondi e furono i tre secondi più tranquilli da tempo immemorabile. Adèle ricevette dalla vita e dalla morte il più bel regalo desiderabile.
Era stato dunque addirittura più semplice di come pensava: non era servito alcun salto.  


Poi, più nulla.
  
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