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Autore: Elena Ungini    18/07/2017    2 recensioni
L’agente speciale Steve Rowling lavora da due anni al Progetto A.I.R.E.S.S., con lo scopo di risolvere casi legati al mondo del paranormale. UFO, streghe, vampiri e affini sono all’ordine del giorno, per lui. Nel bel mezzo di un’indagine, si ritrova fra i piedi la giornalista Livienne Parrish, venticinquenne avvenente e disordinata. Nonostante l’odio atavico che Steve prova nei confronti dei giornalisti, è costretto a collaborare con lei, mentre gli intrighi, intorno a loro, si fanno sempre più fitti e pericolosi. Ma il pericolo più grande, per Steve, sono gli immensi occhi verdi di Livienne…
Genere: Avventura, Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Filadelfia, Lunedì 21 agosto 2000
 
“Ciao, Livienne”, la salutò Steve quando la ragazza entrò nell'ufficio dell'FBI. Ormai aveva libero accesso a quell'ufficio e ci si presentava ogni volta che le serviva una notizia buona da scrivere, o ogni volta che Steve la mandava a chiamare, per seguire qualche caso insieme a lui. Era successo anche quel giorno: Steve le aveva telefonato, chiedendole di passare all'FBI, per mostrarle un filmato che aveva ricevuto per posta.
“Allora, di che si tratta? Ho sentito parlare di neve. Andiamo a caccia dello Yeti?”, chiese lei, sorridendo.
“Non precisamente, a meno che non viva in una deliziosa villetta alla periferia di Gosnell, nei pressi di Blytheville, nell'Arkansas”, disse, azionando il videoregistratore.
“Ecco la casa. Ora sta a guardare che succede!”
Il filmato amatoriale riprendeva una villa signorile, con un bel prato tagliato di fresco intorno e degli alberi completamente rivestiti di foglie. Splendeva il sole e il cielo era serenissimo. La data impressa sulla registrazione era quella del 27 luglio 2000. Improvvisamente, sopra la casa si formò uno strato di nubi bianche e, subito dopo, iniziò a nevicare. Steve accelerò la registrazione: trenta minuti dopo, gli alberi, la casa e il prato erano ricoperti da una bianca coltre di neve, mentre sulle altre case tutt'intorno continuava a splendere il sole e nessun fiocco di neve le aveva sfiorate. Steve tolse la cassetta e ne inserì un'altra. In questa, la stessa casa era teatro di un violento temporale e persino di uno splendido arcobaleno, mentre le altre casette rimanevano tranquillamente all'asciutto.
“Chi ha girato il video?”, chiese Livienne.
“Un vicino di casa, stupito e spaventato da queste frequenti manifestazioni meteorologiche”.
“Non può trattarsi di un falso? Che so, un videomontaggio o una simulazione al computer?”
“Ho fatto controllare il video alla sezione "contraffazioni" dell'FBI: è autentico. Sto per partire per Gosnell. Ti va di venire con me?”
“Volentieri! Avevo giusto bisogno del mio caso soprannaturale mensile per scrivere l'articolo di agosto. Solo... cosa metto in valigia? Maglione o costume da bagno?”
 
***
 
Gosnell, Lunedì 21 agosto 2000, ore 15.00 p.m.
 
Steve e Livienne erano di fronte alla porta di casa della famiglia Dubs. Steve suonò il campanello e un distinto signore venne ad aprire, squadrandoli un poco sorpreso.
“Buongiorno. Lei è il signor Dubs?”
“Sì, esattamente. Se siete di qualche strana religione, vi informo che noi siamo cristiani convinti e non ci interessano i vostri opuscoli”.
L'uomo fece per chiudere la porta, ma Steve lo fermò:
“Veramente siamo dell'FBI”.
“FBI?”
“Ci hanno informato che la vostra casa è spesso colpita da strane manifestazioni atmosferiche. Vorremmo capire di che cosa si tratta”.
“Mi dispiace, credo che abbiate sbagliato casa”, rispose secco l'uomo.
“No. Sono sicuro che si tratta di questa. Possiamo dare un'occhiata? Non le consiglio di ostacolarci nelle indagini: potremmo usare le maniere forti”, lo informò Steve, tranquillo, ma molto fermo nei suoi propositi.
“Entrate”, disse alla fine l'uomo, comunque piuttosto seccato.
“Lei vive solo?”, chiese Livienne.
“No. Abito qui con mia moglie Carol e mio figlio Jonathan, di otto anni”.
“È da molto che abitate qui?”, s'informò Steve.
“Da quando ci siamo sposati, quindici anni fa”.
“Quanti anni ha, signor Dubs?”
“Cinquantasei. Ora vi chiamo mia moglie”, tagliò corto lui. Li lasciò in una saletta, mentre entrava in un'altra stanza per parlare con la consorte.
“Stagionato per avere un figlio di otto anni!”, commentò Livienne a bassa voce.
“Altro che!”, confermò Steve.
Un attimo dopo, l'uomo ritornò, seguito dalla moglie.
“Salve”, li salutò la donna, entrando.
Fece cenno a Steve e Livienne di prendere posto su un divano, nell'ampio salotto. In quel momento, un bimbetto biondo e smunto entrò dalla porta principale e appoggiò il pallone che teneva in mano su una poltrona di pelle.
“Mamma! Ho fatto cinque goal! Li abbiamo stracciati, quei pivelli!”, esclamò il piccolo.
“Jonathan, vorresti andare a giocare in cortile, per favore?”, gli disse la madre.
“Perché?”, chiese lui, leggermente contrariato.
“Lo lasci pure qui, signora: non ci darà alcun fastidio”, la rassicurò Livienne, che andava pazza per i bambini.
“Voi siete dell'FBI, vero?”, chiese ancora il piccolo.
“Jonathan!”, intervenne la madre.
“Come lo sai?”, chiese Steve, sorpreso.
“Ho visto molti telefilm. Voi avete proprio la faccia degli agenti speciali! Sembrate Molder e Scully”, spiegò, dopo un istante di imbarazzo.
“Non immaginavo che fosse così evidente”, commentò Steve.
“Jonathan, per favore, questi signori sono venuti per parlare con noi. Vai in camera tua per qualche minuto”, lo pregò ancora la madre. Livienne non poté fare a meno di notare come la madre avesse insistito per allontanare il piccolo. Il bambino obbedì in silenzio. Quando se ne fu andato, Steve iniziò l'interrogatorio:
“Volete parlarci di questi strani fenomeni?”
“Non c'è stato alcun fenomeno strano, ve lo giuro! Sono solo dicerie messe in giro dai vicini invidiosi: vedete, noi siamo una famiglia molto unita e felice, oltre che facoltosa. Non potete immaginare quanto tutto questo possa generare ogni specie di invidia, nei nostri vicini. Per questo siamo spesso vittime di scherzi e calunnie di vario tipo”.
“Qui non si tratta di dicerie: abbiamo ricevuto una videocassetta che mostra la vostra casa in vera e propria balìa degli elementi, mentre le altre case intorno sono assolutamente insensibili a questi cambiamenti del tempo”.
“Lo sa benissimo anche lei che al giorno d'oggi chiunque possegga un videoregistratore può fare cose del genere! Sarà senz'altro un falso!”
Il battibecco era destinato a durare un bel po', visto che nessuno dei due voleva cedere, e Livienne cominciava ad annoiarsi. Era certa che non ci avrebbero cavato proprio nessuna notizia interessante quando, improvvisamente, cominciò a udire una strana voce, che non era di Dubs, né di sua moglie, e neppure di Steve. Girò lo sguardo intorno, a cercare gli occhi degli altri tre e si rese conto che loro non la sentivano: era solo nella sua mente.
“Ciao”, disse di nuovo la voce.
“Livienne, che ti succede? Sembra quasi che tu abbia visto un fantasma!”, esclamò Steve, vedendola bianca in volto.
“È solo un calo di pressione: non mangio niente da due ore”, mentì lei.
“Scusatela, ha sempre fame. Ma torniamo a noi: ho notato che un albero del vostro giardino ha i rami spezzati, come se fosse stato colpito da un forte vento”. Steve riprese l'interrogatorio, e Livienne ricominciò a udire la voce:
“Come ti chiami?” 
Si rese conto che era la voce di Jonathan a parlare.
“Sono stato io: ci sono passato sotto con il camioncino”, rispose il signor Dubs a Steve. In realtà, Steve sapeva che un fulmine aveva colpito l'albero: l'aveva visto nella videocassetta. Ora era certo che Ronald Dubs mentiva.
“Non mi rispondi?”, chiese ancora la voce a Livienne.
“Puoi farlo, sai? Basta che usi la mente. Non dirlo a nessuno, però. Mamma e papà si arrabbierebbero molto: non vogliono che io lo faccia con gli estranei”.
“Sei tu, Jonathan?”, chiese finalmente Livienne, usando il pensiero.
“Sì, e tu come ti chiami?”
“Livienne”.
“Non sei dell'FBI, tu”.
“Come l'hai capito?”
“Attraverso i tuoi pensieri: io posso leggerli. Ora stai pensando all'articolo che scriverai”.
“Come fai a leggere nel pensiero?”
“Non lo so. So solo che ci riesco”.
“Perché i tuoi non vogliono che tu parli con la mente?”
“Credo che non vogliano farlo sapere al dottor Leonard Cool e ai suoi colleghi, quelli che mi fanno sempre gli esami”.
“Quali esami?”
Fu a quel punto che Steve si alzò dal divano, tendendo la mano a Ronald Dubs, per salutarlo: non avrebbe ottenuto nulla da lui, per questo aveva deciso di interrompere l'interrogatorio e di tornare quando fosse stato in possesso di prove più concrete. Livienne non aveva seguito le ultime battute fra i due, intenta com'era a parlare con il bambino, ma si rese conto che doveva agire in fretta, se voleva continuare la conversazione. Si alzò dalla sedia, ma finse di sentirsi male e tornò a sedersi, portandosi la mano alla fronte:
“Oh, mio Dio! Vi prego, portatemi un bicchiere d'acqua!”, sussurrò, ansando.
“Livienne”. Steve fu subito accanto a lei.
La signora Dubs andò in cucina a prendere l'acqua. Intanto, Livienne rifece mentalmente la domanda a Jonathan.
“Che esami ti fanno?”
“Mi tolgono il sangue da un braccio, mi fanno tante lastre e un sacco di altri esami strani. Mi fanno anche un mucchio di domande. Vogliono sapere se ho dei poteri "particolari". Ma io gli dico sempre di no”.
“Te li fanno spesso questi esami?”, chiese ancora Livienne, decisa a seguire la faccenda fino in fondo.
“Tutti i mesi. Mamma dice che se io non gli faccio sapere che so leggere nella mente e che so controllare il tempo loro mi lasceranno in pace, prima o poi”.
“Come riesci a controllare il tempo?”, chiese Livienne, bevendo con estrema lentezza l'acqua che Carol le aveva portato.
“Non lo so: basta che io pensi che voglio la neve, e quella viene. Succede anche con la pioggia e con il vento, l'arcobaleno e tante altre cose. Vuoi vedere?”
“Mi piacerebbe moltissimo”.
Nel giro di pochi secondi una fitta nebbia avvolse tutta la casa, giardino compreso, fino al perimetro esterno della proprietà. Intorno, splendeva il sole.
“E questo come lo spiega, signor Dubs?”, chiese Steve.
“Io non spiego nulla! Non so cosa stia succedendo, ma sono certo che siete stati voi a provocare tutto questo!”, urlò, arrabbiato.
“Andatevene di qui! Ora! E portatevi via la vostra nebbia!”, esclamò poi.
“D'accordo, d'accordo, ce ne andiamo. Ma torneremo, signor Dubs. E la prossima volta non potrà rifiutarsi di collaborare”.
Steve aiutò Livienne a rimettersi in piedi, poi l'accompagnò fino alla macchina. Prima di uscire, la ragazza salutò mentalmente il bambino.
“Ciao, Jonathan. È stato bello parlare con te”.
“Mi aiuterai, Livienne? Impedirai a quei dottori di farmi ancora del male?”, chiese il bambino.
“Ci proverò”, promise Livienne, salendo in macchina.
“Come ti senti?”, le chiese Steve, preoccupato.
“Benissimo. In realtà non sono mai stata male”.
“Cosa?”
“Era una scusa per fermarmi un po' di più in quella casa: mentre tu interrogavi inutilmente Dubs, io ho avuto un colloquio mentale con Jonathan”.
Livienne si fermò un istante, fissando divertita lo sguardo incredulo di Steve.
“Non sto dando i numeri, Steve: è la verità. Jonathan mi ha parlato attraverso la mente”.
“Okay…”, ammise lui “E cosa ti ha detto?”
Livienne gli raccontò tutto quello che aveva saputo dal bambino.
“Quindi è lui a creare quegli eventi atmosferici! Mi chiedo perché lo faccia”.
“Per divertirsi! È un bambino, Steve. Gli piace giocare. Probabilmente lo fa anche per attirare l'attenzione dei genitori: è un bambino molto afflitto, per colpa di quegli strani esami”.
“Dovremmo parlare con questo famoso dottor Leonard Coll”.
“Già. Lo penso anch'io”.
Steve chiamò Prische, all'FBI.
“Luke, trovami un certo dottor Leonard Cool, presumibilmente di Blytheville, nell'Arkansas”.
“D'accordo, dammi solo un minuto”.
Meno di un minuto dopo, Luke richiamò Steve.
“Il dottor Leonard Cool ha sessant'anni ed è laureato in medicina, chirurgia plastica, biologia, genetica e psichiatria. Lavora all'ospedale di Blytheville, nell'Arkansas, proprio come avevi detto tu. È un vero luminare della scienza: ha scritto numerosi saggi e partecipato a simposi in tutto il mondo”.
“Di che si occupa, in particolare?”
“Ha fatto studi approfonditi sul DNA umano e sulle mutazioni genetiche. Di più non so”.
“Ti ringrazio, Luke, sei stato in gamba”.
Steve si recò immediatamente all'ospedale della città, dove chiese di parlare con il dottor Leonard.
“Dovete prendere un appuntamento. Vi va bene per il 28 agosto?”, chiese la segretaria.
“Siamo dell'FBI e dobbiamo parlare con lui adesso”, le annunciò seccato Steve, mostrando il tesserino.
“FBI? Posso conoscere il motivo della vostra visita?”
“No, mi dispiace. Dobbiamo parlare con il dottor Leonard in persona”.
“D'accordo. Ora glielo dico”. La ragazza cliccò sul pulsante dell'interfono e chiamò Leonard.
“Dottore, ci sono due agenti dell'FBI che desiderano parlarle”.
“Di che si tratta?”, chiese lui.
“Non hanno voluto dirmelo, però è urgente”.
“D'accordo, li faccia passare”.
La porta si aprì automaticamente al loro passaggio. Steve e Livienne entrarono nello studio, dove il dottore li attendeva, seduto dietro una scrivania in radica di noce.
“Salve”, li salutò.
“Salve”, risposero, in coro.
“Tra poco dovrò fare il mio giro in corsia, per cui ho pochissimo tempo da dedicarvi”, incominciò il dottore.
“Allora saremo brevi. Vogliamo vedere i risultati delle analisi di Jonathan Dubs”.
“Jonathan Dubs?”, chiese l'uomo, sorpreso.
“Il figlio di Carol Nefter e Ronald Dubs”.
“Perché vi interessa?”
“Se evitasse di fare domande perderemmo meno tempo, dottor Coll”, gli fece notare Steve.
L'uomo si alzò, camminò un poco avanti e indietro nello studio, poi si rivolse nuovamente a Steve.
“Gli esami dei miei pazienti sono coperti dal segreto professionale”.
“Ce li consegni, o verremo a prenderli con la forza”.
“D'accordo, ve li farò vedere”, accettò infine l'uomo.
Premette il pulsante dell'interfono e immediatamente la segretaria si precipitò nella stanza.
“Desidera, signor Cool?”
“Mi porti le analisi di Jonathan Dubs, per cortesia: i signori desiderano vederle”.
“Certo, signore”.
Poco dopo la ragazza era di ritorno con tutta la documentazione.
“Ecco qua”, disse, porgendola a Leonard. Lui la pose nelle mani di Steve.
“Non può portarla fuori di qui. Le posso fare delle fotocopie”, specificò Leonard.
Steve diede un'occhiata alle analisi: erano perfettamente normali e risalivano a sei mesi prima.
“Vorrei vedere quelle più recenti”, disse.
“Non ve ne sono di più recenti. Questa è tutta la documentazione che abbiamo sul bambino. Ora mi permetta una domanda: chi l'ha mandata qui e perché?”
“Le domande sono due”, rispose evasivo Steve.
“Risponda!” Il tono di Leonard si fece imperioso.
“Sono qui per sapere perché vi accanite a fare esperimenti su un povero bambino di otto anni. Riguardo a chi mi manda, ho una certa libertà d'azione nel mio lavoro. Sono un agente "molto" speciale!”
“Quindi non ha un regolare permesso per venire a cacciare il naso qui!”
“Intende dire se ho un mandato di perquisizione? No. Se volessi potrei procurarmelo, ma sono certo che fareste sparire ogni prova molto prima. Queste se le può tenere: non so che farmene”. Steve sbatté la documentazione sulla scrivania, poi se ne andò, seguito da Livienne.
“Che avevano di strano, quelle analisi?”, chiese a Steve, non appena furono soli.
“Niente. È proprio questo il punto. Perché fare analisi a un bambino tutti i mesi se non ha proprio niente che non va? Inoltre, quelle analisi risalivano a sei mesi fa e tu stessa hai detto che il bambino asserisce di venire esaminato una volta al mese”.
“Quindi tu credi che ti abbiano dato delle analisi fasulle?”
“Ne sono più che sicuro. In questa storia c'è qualcosa di losco e noi dobbiamo scoprire che cosa. Ma dobbiamo agire senza perder tempo: stanotte stessa”.
“Stanotte?”
“Ci recheremo all'ospedale e cercheremo le prove, prima che le facciano sparire”.
“Ma non ci faranno entrare!”
“Oh, sì, invece! Preparati, Livienne. Stanotte, starai per dare alla luce il primo figlio!”
“Che cosa?” Livienne sembrava piuttosto sconcertata.
Steve le spiegò, in poche parole, il suo piano per entrare nell'ospedale.
“Rimane un unico impiccio: non dovremo farci riconoscere e non so come fare”, aggiunse.
“A quello ci penso io. Fermati qui”, annunciò Livienne. Scese dalla macchina e raggiunse una cabina telefonica, compose un numero e si augurò che qualcuno rispondesse.
“Pronto?”, chiese una voce di donna, all'altro capo del telefono.
“Susy, ciao. Sono Livi, la tua ex compagna di stanza. Ti ricordi di me, non è vero?”
“Livi! È una vita che non ti fai sentire! Come potrei non ricordarmi di te? Stai bene?”
“Sì, ma ho bisogno del tuo aiuto. Ti ricordi quel problema di matematica che ti ho fatto copiare all'esame di ammissione all'università?”
“Certo che me ne ricordo”.
“Beh, ora è venuto il momento di restituirmi il favore”.
“Sarà... ma non ho ancora imparato a fare i problemi di matematica”, rise lei.
“Non si tratta di questo: vedi, dovrei intrufolarmi in un posto, con un mio amico. Ma non vorrei essere riconosciuta, capisci?”
“Quindi ti serve un po' di maquillage? Ho capito bene?”
“Esatto!”
“Dove ti trovi?”
“Blytheville, nell'Arkansas.”
“Okay. Prendo il primo volo e prima di sera sono lì”.
“Ci occorrerà del materiale scenico per travestirci. Faccio la lista dell'occorrente e ti telefono appena possibile”.
“Perfetto! Ci vediamo presto”.
“Ecco fatto”, sorrise Livienne, dopo essere risalita in macchina.
“Fatto cosa?”, chiese Steve, dubbioso.
“La mia amica Susy lavora come truccatrice in un teatro di Little Rock. Prima di sera sarà qui e ci truccherà alla perfezione, rendendoci irriconoscibili con un poco di cerone e qualche ritocco qua e là. Vedrai, è bravissima”.
“Dove l'hai conosciuta?”
“Eravamo al liceo insieme. All'università eravamo addirittura compagne di camera, solo che lei preferiva passare il tempo a truccarsi e uscire con i ragazzi, anziché impiegarlo a studiare. Così si stancò presto e mollò tutto, diventando però un'ottima truccatrice e trovando subito lavoro”.
“Torno a ribadire che hai degli amici molto singolari, Livienne”.
“Io almeno li ho, gli amici!”, sbottò lei, riferendosi al fatto che Steve non parlava mai dei suoi amici e forse non ne aveva neppure.
Steve non rispose alla provocazione. Dopotutto Livienne aveva ragione: a parte Louis, non aveva mai avuto molti amici. Ora forse non ne aveva più. Ma si corresse subito: un'amica ce l'aveva.
Nel frattempo Leonard, rimasto solo nel suo ufficio, aveva composto un numero al telefono. Qualcuno, all'altro capo, rispose:
“Che vuoi, Leonard? Ci sono dei problemi?”
La voce che aveva parlato era dura e profonda.
“È stato qui un uomo, uno dell'FBI. Ha voluto vedere le analisi di Jonathan Dubs”.
“Chi era quel tizio?”
“Un certo Rowling, o qualcosa del genere”.
“Accidenti! I Dubs hanno parlato! A loro ci penso io. Tu occupati del materiale che scotta: fa sparire le analisi del piccolo”.
“Come faccio? Non posso utilizzare il solito canale: dovrei aspettare fino alla prossima settimana”.
“Questa notte manderò lì uno dei miei uomini a prendere il dischetto. Tieni Rowling lontano dall'ospedale fino a domani”.
“Metterò degli uomini di guardia alle porte esterne”.
“Perfetto! Quel materiale non deve capitare in mano sua”. L'uomo riattaccò e Leonard si occupò di preparare il dischetto con le analisi del piccolo.
Steve, dopo aver fatto l'intera lista delle cose che occorrevano per effettuare il suo piano, la consegnò a Livienne, che richiamò la sua amica. Dopo risalirono in macchina e attraversarono la città, per fermarsi davanti a un motel piuttosto malmesso.
“Perché ti fermi qui?”, chiese Livienne.
“Dovremo trovare un luogo dove passare la notte. Questo mi sembra l'ideale”.
“Ma è un tugurio!”
“Appunto! Ci metteranno un po' prima di trovarci qui”.
“Tu credi che ci cercheranno?”
“È probabile. Dovremo essere molto astuti”.
“Darai un nome falso?”
“No. Dovremo avere un alibi, per stanotte. Se non ci vedranno uscire dalla stanza che affitteremo, sarà facile procurarselo”.
“E come faremo a uscire senza essere visti?”
“Vedrai! Ora entriamo”. La portinaia era seduta a un tavolino logoro e traballante. Li salutò con un:
“Buonasera. Una camera?”
“Certo. Matrimoniale”, precisò Steve, firmando il registro.
La donna li accompagnò nella camera. Nonostante l'aspetto poco rassicurante, la stanza era pulita e le lenzuola profumavano di fresco.
“Meglio di quanto pensassi!”, esclamò Steve. C'era persino il bagno, con una piccola doccia.
“Posso sapere perché hai preso una stanza sola?”
Lo fissava vagamente preoccupata e lui sorrise, intuendo i suoi pensieri.
“Sarà più facile eseguire il nostro piano”, spiegò; poi prese il cellulare e telefonò a un fast-food, ordinando la cena, infine, si spogliò e si distese sul letto.
“Ci conviene dormire un po' se vogliamo essere al meglio, stanotte”, disse.
Livienne si tolse la camicia e i pantaloni, poi si stese accanto a lui, un po' imbarazzata. Notò che la guardava, e non le sfuggì la nota di desiderio dipinta negli occhi di lui.
“Non sono abituata a dormire con qualcuno: può darsi che ti dia qualche calcio, nel sonno”, esclamò, ridendo.
“Vuol dire che te li renderò”.
Steve chiuse gli occhi e cercò di dormire, ma gli era difficile addormentarsi, se pensava che accanto a lui c’era Livienne, in biancheria intima. Strani pensieri affollavano la sua mente… Improvvisamente, si alzò, dirigendosi verso il bagno.
“Dove vai?”
“A fare una doccia”.
“Fredda?”, insinuò lei, ridendo.
“Non provocarmi, Livienne. Potrei anche prenderti in parola...”, scherzò.
Poco dopo lei sentì l'acqua scorrere, nel bagno. Suo malgrado, riuscì a immaginare Steve mentre faceva la doccia: non doveva essere niente male. Si sforzò di concentrarsi sul rumore dell'acqua che scorreva e alla fine si addormentò. Quando Steve uscì dalla doccia, la trovò profondamente assopita e si fermò qualche istante a guardarla. Quanto avrebbe desiderato sfiorarla, accarezzarla, toccarla… Sospirando, si distese sul letto e si addormentò anche lui. Venne svegliato da un discreto bussare alla porta.
Aprì e si trovò di fronte il garzone del fast-food, con la cena su un vassoio di cartone: hamburger, hot dog e patatine fritte.
Pagò il dovuto, gli diede anche una mancia e richiuse la porta a chiave. Poggiò il vassoio sul comodino di Livienne, che dormiva ancora, e si sedette accanto a lei. Le sfiorò il viso con la mano, accarezzandola dolcemente e la chiamò:
“Livienne, svegliati”. La sua voce era dolcissima, calda e rassicurante. Lei aprì piano gli occhi, li stropicciò più volte con le mani, poi sussurrò:
“Sento profumo di patate fritte”.
Ridendo, Steve mise il vassoio sul letto.
“Accidenti! Questo sì che è un buon risveglio!”, esclamò lei.
“Avrei preferito offrirti un risveglio diverso…”, ammiccò Steve, maliziosamente.
Lei arrossì.
“Forza, ceniamo”, disse, cambiando argomento.
Mangiarono di gusto tutto quanto, poi attesero l'arrivo di Susy. Per telefono, Steve le aveva già spiegato come giungere fino a un parcheggio accanto al motel. Da lì, Susy proseguì a piedi fino al vicolo buio che passava proprio sotto la finestra della stanza di Livienne e Steve. Con un fischio, li avvertì che era arrivata. Steve si affacciò alla finestra e lei lanciò una scala di corda che il giovane afferrò e legò saldamente all'interno della stanza. Susy si arrampicò ed entrò nella camera.
“Ciao!”, la salutò Livienne.
“Tutto bene il viaggio?”, s'informò Steve.
“Sì, certo. Ora state a sentire: ho noleggiato la macchina, proprio come mi avevate chiesto. Naturalmente ho dato un falso nome. L'ho lasciata nel parcheggio. Queste sono le chiavi”, disse, consegnandole a Steve.
“Nel baule troverete tutte le cose che mi avete chiesto: un pancione finto da donna al nono mese di gravidanza, un pre-maman, jeans, maglietta e giacca per Steve, due camici da dottori, zoccoli da ospedale, mascherine, guanti da chirurgo e scarpe di quelle con la suola rialzante interna. Vi alzeranno di almeno sette centimetri. Qui, invece, ho portato il cerone, il necessario per truccarvi, delle parrucche per voi e anche delle lenti a contatto per colorare diversamente gli occhi. Sedetevi, tra meno di un'ora stenterete a riconoscervi”.
Li truccò per bene, aggiungendo qualche inizio di ruga qua e là sul loro volto.
“Così sembrate più vecchi di una decina d'anni: sfido chiunque a riconoscervi”.
Mise loro le lenti a contatto e anche le parrucche: mora per Livienne e bionda per Steve.
“Ecco fatto! Siete pronti”.
“Perfetto. Ora viene la seconda parte del piano. Noi raggiungeremo l'ospedale, tu invece ti infilerai, come d'accordo, nel pub di fronte al motel, che chiude alle cinque del mattino. Dovrai tenere d'occhio l'entrata: se vedi del movimento insolito di poliziotti o federali, o magari peggio, telefonaci immediatamente. In quel caso, noi dovremo filare e tu te la dovrai cavare da sola. Altrimenti, non appena finita l'ispezione all'ospedale, ce ne torneremo in camera e tu sarai libera di andartene, con la macchina parcheggiata sempre nel solito posto”.
“D'accordo. Dimenticavo: nel baule ho messo anche il necessario per togliervi il trucco. Lasciate tutto in macchina: ci penserò io a far sparire ogni traccia. Toglierò anche parecchi chilometri al contachilometri della macchina, in modo che, se viene controllata, nessuno saprà che sono giunta fino qui. Questo accorgimento serve più a me che a voi...”
“Ma lo sai fare?”
“Mio padre è meccanico… l’ho fatto spesso, da ragazzina… so che non è legale, ovviamente”.
“Livienne, sei sicura che la tua amica sia una truccatrice? Ha più l'aria di un'agente speciale della CIA!”, scherzò Steve.
Tutti e tre si calarono dalla finestra, che rimase aperta. Steve sistemò la scala in modo che non fosse visibile dal vicolo, poi, mentre Susy entrava nel pub, loro raggiunsero il parcheggio, si travestirono e partirono a razzo verso l'ospedale. Una volta arrivati, Steve parcheggiò la macchina, prese dal sedile posteriore una grossa borsa, scese e aprì la portiera a Livienne, che faticò a scendere, impacciata da un enorme pancione finto nascosto sotto l'ampia gonna.
“Accidenti, Steve! Mi sento così ridicola! E se non ci cascassero?”
“Sta tranquilla: andrà tutto bene. E non sei per niente ridicola! Ora andiamo”.
Tenendosi il ventre e fingendo abilmente di avere le doglie, Livienne entrò al Pronto Soccorso con Steve, eludendo le due guardie, che non li riconobbero e li lasciarono passare.
“Hai visto? Hanno messo delle guardie alle porte”, constatò Livienne, a voce bassissima.
“Già. Questo significa che le prove sono ancora qui”.
“Ho paura, Steve. Se ci scoprono saranno guai”.
“Stai andando benissimo. Sembri davvero una che sta per partorire”, sussurrò Steve. Entrambi stavano sudando freddo ed erano molto eccitati, ma nessuno ci fece caso: dopotutto, era un comportamento molto normale per una coppia che stava per mettere al mondo il primo figlio.
Un infermiere di turno li avvicinò.
“Posso aiutarvi?”
“Sì, grazie: mi potrebbe indicare dov'è la sala parto? Credo che ci siamo!”, disse Steve.
“Secondo piano, corridoio a destra. Vi accompagno?”
“No, non si preoccupi”.
“Ma forse la signora preferisce sedersi su una sedia a rotelle”, insistette lui.
“Nononono!”, disse subito Livienne.
“Non potrei proprio stare seduta: sto troppo male! Preferisco camminare. Ma ora facciamo presto, ti prego, caro, andiamo”.
“D'accordo, come volete. Si ricordi però che poi deve passare al pronto soccorso per compilare le varie pratiche”, disse ancora l'infermiere.
“Certo! Ora mi scusi, ma dobbiamo proprio andare”.
Finalmente l'infermiere tornò alla sua guardiola, lasciandoli soli. Steve e Livienne infilarono il corridoio di destra, raggiunsero il primo bagno disponibile e ci si infilarono dentro. Steve frugò nella borsa che si era portato e ne tirò fuori dei camici bianchi da dottore.
“Ecco. Mettiti questo”, ordinò, porgendone uno a Livienne. La ragazza stava ancora lottando con il finto pancione, nel tentativo di toglierselo di dosso, ma era allacciato sulla schiena e non ci riusciva.
“Ti spiacerebbe darmi una mano?”, chiese a Steve.
Gli voltò la schiena. Indossava solo la biancheria intima, peraltro di pizzo, a parte l'enorme pancia finta. Steve slegò le tre allacciature che tenevano legata la pancia e Livienne poté finalmente togliersela di dosso e infilarla nella borsa. Si voltò di nuovo verso Steve, indossando nel contempo il camice, e notò che lui era rimasto per tutto il tempo a guardarla, senza parlare. Suo malgrado, arrossì.
“Che hai da guardare?”
“Sarei stupido se non ti guardassi, non credi?”, le chiese, indossando un paio di zoccoli di quelli comunemente usati negli ospedali. Indossò anche dei guanti di gomma da chirurgo, per non lasciare impronte. Livienne fece altrettanto, infine uscirono dal bagno e raggiunsero l'ufficio di Leonard, che a quell'ora era deserto.
“Che ci facciamo qui? Leonard ha mandato la segretaria a prendere le analisi da un'altra parte, questo pomeriggio”, disse Livienne.
“Quelle false. Scommetto che quelle vere le tiene in questo vecchio archivio”, rispose Steve, cominciando a frugare fra i cassetti di uno schedario affisso alla parete.
Livienne si mise a cercare intorno alla scrivania. Fu proprio lì che trovò uno sportello chiuso a chiave.
“Mi sa che hai perso la scommessa, Steve”, proruppe, forzando la serratura con una forcina per capelli.
“Ehi! Dove hai imparato a farlo?”, chiese Steve, ammirato.
“Dai telefilm di MacGyver”.
Il cassetto si aprì: all'interno c'era solo una busta con dentro qualcosa di troppo spesso e pesante per poter essere un foglio. L'indirizzo sulla busta era quello di una base militare vicino a Tascosa, nel Texas.
“Strano che un dottore spedisca qualcosa a una base militare lontana centinaia di chilometri”, esclamò Steve, aprendo la busta. All'interno trovò un cd-rom su cui erano state scritte con un pennarello le iniziali "J. D.".
“Accidenti! È uno di quei nuovi dischetti non duplicabili: il governo li utilizza per evitare fughe di notizie. Se qualcuno tenta di doppiarlo, l'intero contenuto del disco si autodistrugge in meno di tre secondi”, esclamò Steve, che aveva già visto altre volte quei dischetti.
“Steve… ho sentito dei passi nel corridoio!”, lo avvertì Livienne, con il cuore in gola.
Steve prese un dischetto qualsiasi dalla scrivania di Leonard, lo infilò nella busta e lo rimise al suo posto, nel cassetto, infine mostrò a Livienne la chiave universale che aveva in tasca, sorridendo divertito.
“Ehi! Potevi anche dirmelo che avevi quell'aggeggio!”, bofonchiò sottovoce Livienne, che aveva faticato tanto per aprire il cassetto.
“Perché? Te la cavavi così bene da sola...”
Prese Livienne per mano e si infilarono in una stanzetta adiacente allo studio, giusto in tempo, prima che uno strano tizio, con dei guanti neri indosso, entrasse nella stanza. Steve osservò da dietro la porta le sue mosse. L'uomo aprì il cassetto e ne estrasse la busta, poi uscì dalla stanza silenziosamente com'era venuto.
Quando furono sicuri che si fosse allontanato lasciarono la stanza e, recuperata la borsa con i vestiti, scesero al piano terra.
“Come facciamo a uscire? Ci sono guardie a tutte le porte e se ci ritravestiamo e ripassiamo dal pronto soccorso ci fermeranno per compilare le pratiche”.
“Stai a vedere”. Steve suonò l'allarme antincendio, che scatenò un vero e proprio pandemonio in corsia. Poi spinse Livienne in una stanza deserta e, approfittando della confusione, uscirono da una finestra al pianterreno e si defilarono, raggiungendo la macchina.
Steve si mise al volante e Livienne inserì il dischetto sul suo portatile. Subito apparve una serie di numeri, apparentemente senza alcun senso.
“Maledizione! È criptato!”, affermò Steve.
“Vuoi dire che abbiamo fatto tutto questo per niente?”
“Conosci nessuno in grado di decriptare un dischetto, Livi?”, chiese maliziosamente Steve.
“Apple!”
“Già. Sai dove abita?”
“In una roulotte, in giro per il mondo”.
“Fantastico! Come lo troviamo?”
“Semplice! Mi basta telefonargli. Sarà lui a venirci incontro”. Alla prima stazione di servizio, Livienne fece il numero di Apple, che rispose in modo molto brusco:
“Chi accidenti è che mi disturba all'una di notte?”
“Apple, sono Livienne. Mi serve il tuo aiuto, è urgente”.
“Livienne! Che bella sorpresa!”, esclamò, cambiando subito tono di voce.
“Che ti serve?”, domandò.
“Dove ti trovi?”
“A Jonesboro, nell'Arkansas!”
“Perfetto! Noi siamo sulla statale quattro. Ci dirigiamo verso di te. Tu vienici incontro: abbiamo qualcosa da farti vedere”.
Steve fermò un attimo la macchina e lui e Livienne si tolsero tutto il trucco e si cambiarono nuovamente, rimettendosi i loro vestiti.
“È bello essere di nuovo "noi"!”, esclamò Livienne.
“Già! Mi sentivo una donnicciola con tutto quel trucco addosso”.
“Credi che ci abbiano riconosciuti?”
“Penso di no. Almeno lo spero”.
“Sì, ma tu hai preso quel dischetto. Siamo sicuri che non ti caccerai nei guai?”, chiese lei, quando furono ripartiti.
“Guarda che nei guai ci finiamo insieme”.  Lui non sembrava particolarmente preoccupato. Livienne sorrise.
“Cosa ci trovi di tanto divertente?”
“L’idea di finire nei guai con te non mi dispiace affatto. Mi sento viva, Steve… per la prima volta dopo tanto tempo, mi sento di nuovo viva”.
“Un giorno mi racconterai cosa ti è capitato di così brutto…”, si arrischiò a dire lui.
Lei rimase per un istante con il fiato sospeso. Possibile che Steve si fosse accorto dei suoi malumori, della sua disperazione, che a tratti perforava la maschera di indifferenza e tranquillità di cui amava rivestirsi?
“Perché pensi che mi sia accaduto qualcosa di brutto?”, sussurrò.
“Non lo penso. Te lo leggo nello sguardo, Livi. Nei tuoi splendidi occhi verdi c’è troppa tristezza per riuscire a nasconderla”. Le sfiorò una mano con la sua. Livienne non osò parlare. Si limitò a fissare la strada che scorreva via, veloce, sotto le ruote dell’auto.
“Quando te la sentirai, io ti ascolterò”, la rassicurò lui.
Un'ora dopo incrociarono la roulotte di Apple e si fermarono al primo spiazzo libero. Steve e Livienne salirono sul retro del camper, dove li attendeva un Apple piuttosto assonnato.
“Agente Steve Rowling, FBI”, si presentò Steve.
Apple strinse la mano che gli porgeva.
“Dan Lennex. Al secolo, Apple. Spero che ci sia un valido motivo per avermi tirato giù dal letto all'una del mattino”, aggiunse.
“Sì. Dovresti dare un'occhiata a questo”. Steve gli porse il cd-rom.
“È uno di quei dischetti che non si possono doppiare”.
“Lo so. È anche criptato”.
“Questo non è un problema: ho da poco elaborato un programma in grado di decriptare parecchi codici”.
“Funziona?”
“Come no! Due giorni fa mi sono collegato al computer della NASA e ho quasi fatto partire un razzo”.
“Hai intenzione di far scoppiare la terza guerra mondiale, Dan?”, chiese Livienne.
“Dolce Livienne! Da quanto non ti vedo! Sei sempre più bella”, la salutò, abbracciandola e dandole un bacio sulla guancia. Steve sentì lo stomaco stringersi, vedendoli così intimi. Mai avrebbe pensato di poter essere geloso, specialmente di una giornalista…
“Taglia corto, Dan. Come stai, piuttosto?”
“Sto sempre aspettando che tu lasci perdere gli agenti dell'FBI per metterti a girare il mondo con me…”, scherzò lui.
“Allora stai fresco!”
Apple mise il dischetto nel computer e apparve una serie di numeri.
“Hai ragione: è criptato. Ora guarda”, disse, rivolto a Steve.
Digitò qualcosa sulla tastiera e, nell'arco di qualche minuto, tutti i numeri si trasformarono in lettere.
“Ecco fatto!”
“Sei grande, Apple!”, si complimentò Steve, iniziando a leggere i dati contenuti nel dischetto.
“Riguarda proprio Jonathan: guarda qui, Livienne!”, esclamò.
Lei si mise a leggere:
“Nome: Jonathan.
  Cognome: Dubs.
  Data di nascita: 4 aprile 1992 
  Sesso: M.
  Madre: Carol Nefter
  Padre: Ronald Dubs.
  Donatrice: Lucy Willmore.
  Provenienza del feto: ospedale militare di Tascosa.
  Origine: H.A.H.
“Che significa H.A.H.?”, chiese a Steve.
“Non lo so. Ora vediamo”.
Seguivano tutte le analisi del bambino, compreso lo schema del DNA.
“Dai un'occhiata qui”, osservò Steve.
“Che cos'è?”
“Il DNA di Jonathan. Non è come quello di tutte le altre persone, Livienne. In vita mia non ho mai visto niente del genere”.
“Voglio studiarlo un po'. Tu intanto cerca notizie sui genitori di Jonathan, e anche su quella Lucy Willmore”.
“D'accordo, ma facciamo presto. Susy ci sta aspettando”. Dieci minuti dopo, Livienne lo avvertì:
“Steve, ho i dati che cercavi sul padre di Jonathan. Ronald Dubs è stato sposato per due anni con una certa Mery Mildoke. Poi si sono separati. Indovina perché?”
“Non andavano d'accordo?”
“No: lui era sterile! Ho dato un'occhiata alla sua cartella clinica: da un esame fatto nel 1980 risulta essere completamente sterile. Jonathan non può essere figlio suo!”
“Quindi, o sua moglie gli ha clamorosamente messo le corna, oppure il bambino è stato adottato”, sbottò Dan.
“Il bambino risulta essere stato partorito da Carol Nefter, ma io non ne sarei tanto sicura: guarda chi è Lucy Willmore”, disse ancora Livienne, dopo aver cercato in Internet.
Il nome di Lucy compariva nell'elenco delle donne rapite dagli alieni. La ragazza aveva raccontato di essere stata rapita e messa incinta artificialmente da alieni, che erano tornati alcune settimane dopo a riprendersi il bambino.
“Già. Peccato che sia invece il governo a portare via i feti”, puntualizzò Steve.
“È quello che hanno fatto anche con Stefy”, commentò Livienne.
“Ora abbiamo le prove, Livienne! Non capisci? Abbiamo le prove di una cospirazione ai danni delle donne messe incinta dagli alieni! Potremo mostrare questo dischetto a tutto il mondo e incriminare il governo!”, si esaltò Steve.
“Aspetta un momento, Steve: tu vorresti accusare il governo americano di aver rubato a delle ragazze dei feti di origine aliena? E pensi che ti crederebbero? Ti va bene se non ti internano subito! Non puoi basare tutte le tue prove su questo dischetto, peraltro rubato. Sarebbe una pazzia!”, intervenne Apple.
“Ma ci sono le ragazze! Loro potrebbero testimoniare!”
“Steve! Sai che non accetterebbero mai in un tribunale la deposizione di quelle ragazze: le hanno già definite "mentalmente instabili", inoltre tutte le tue prove si basano su ricordi riportati alla luce in fase di ipnosi regressiva. Sai che non è una prova sufficientemente attendibile”.
“Già! Dovrei andare in quella base: sono certo che laggiù troverei le prove che cerco”.
“Non dire sciocchezze, Steve. È una base di massima sicurezza. Non potrai intrufolartici dentro come hai fatto stanotte. Siamo già abbastanza nei guai per aver rubato il dischetto. Quando se ne accorgeranno verranno a cercarci”.
“Non hanno prove contro di noi”.
“Lo so, ma se trovassero il dischetto in mano nostra?”
“Lo nasconderemo”.
“Ci penserò io”, si offrì Apple.
“Conosco un posto dove starà al sicuro. Ce lo porterò appena ve ne sarete andati: vi siete già esposti a sufficienza”.
“Grazie, Apple, sei un amico”, lo ringraziò Livienne, abbracciandolo.
“Ehi! Chi divideva sempre con me la merendina, quando me la dimenticavo a casa? Ti devo un sacco di merendine, Livienne! Ora potrò ripagarti, in qualche modo”, scherzò lui. Ma Steve non era in vena di scherzi:
“Attento, Apple. È un gioco pericoloso”.
“Lo è più per voi, che per me. Cercherò notizie su quella base. Dovrei riuscire a collegarmi al suo sistema di computer, per sapere che tipo di sistemi di sicurezza ci sono, e magari trovare anche un modo per eluderli”.
“Fantastico!”, esclamò Steve.
“Ora toglimi una curiosità, Steve. Che se ne fa il governo dei feti alieni?”, domandò  Apple.
“Li studia: evidentemente, i bambini nati in questo modo hanno, a volte, dei poteri speciali, come nel caso di Jonathan. Guardate il suo DNA: non può essere umano, e credo proprio che quell’H.A.H. stia per Human Alien Hybrid. Ibridi umano alieni, che vengono impiantati nell'utero delle ragazze dagli extraterrestri. Forse, di solito, gli extraterrestri tornano a riprenderseli dopo qualche settimana, per poterli studiare. Evidentemente, il governo ha deciso di toglierli alle madri prima del ritorno degli extraterrestri. Dopodiché, li danno a coppie che li crescono, probabilmente perché è più facile convincere le madri adottive a far visitare e analizzare il piccolo, inoltre, in questo modo, la vera madre non ne sa nulla, quindi non cercherà di ritrovare il bambino, che crede ormai in cielo con gli alieni”.
“Allora, se riuscissimo a fare analizzare il DNA di Jonathan avremmo le prove dell'esistenza di ibridi umano alieni?”, chiese Livienne.
“Lo contraffarebbero, così come hanno contraffatto le sue analisi. Comunque, potremmo sempre provarci”.
“Già”, ammise Livienne.
“Dobbiamo tornarcene alla pensione: sono già le due e mezza!”, disse Steve.
“Andate. Al dischetto ci penso io”, li rassicurò Apple.
Alle tre e mezza, Steve e Livienne giunsero al parcheggio, lasciarono la macchina parcheggiata, fecero un segno convenzionale a Susy passando davanti al bar e ritornarono in camera. Susy si fermò sotto la finestra della loro stanza.
“Ecco le chiavi. Ora stacco la corda”, disse Steve, lanciandole le chiavi della macchina e la corda che avevano usato per scendere e risalire.
“Arrivederci, Susy. E ancora grazie”, la salutò Livienne.
“Ciao, e buona fortuna!”, esclamò, salutandoli.
“Anche a te”.
Steve e Livienne si fecero una doccia, per cancellare ogni traccia residua di trucco. Infine, si distesero sul letto.
“Per essere la prima notte che dormiamo insieme, è stata piuttosto movimentata”, rise Livienne.
“Già. Comunque non preoccuparti: non c'è alcun rischio che attenti alla tua virtù, questa notte. Sono talmente stanco che non riesco ad alzare neppure un dito, figuriamoci qualcos'altro!”
“Scommettiamo che invece riuscirei a risvegliare i tuoi istinti maschili, se solo ne avessi voglia?”, lo stuzzicò lei.
Steve la fissò, stupito.
“Lascia perdere… ci sei già riuscita. È bastata una tua frase accattivante…”
Livienne scoppiò in una risata argentina.
“Andiamo a letto e cerchiamo di dormire, che è meglio”.
Si addormentarono quasi subito, ma non poterono dormire a lungo: verso le cinque del mattino, due guardie armate e un capitano della polizia entrarono a precipizio nella loro stanza, puntando loro contro le pistole.
“Che succede?”, chiese Steve, svegliandosi di soprassalto. Il capitano si rivolse ai suoi:
“Perquisite la stanza! Cercate il dischetto! E anche delle parrucche, un pancione finto e altre cose che possono essere state usate per camuffarsi”.
“Agente Steve Rowling, dove si trovava questa notte, fra la mezzanotte e le quattro?”, chiese poi.
“Qui, dove avrei dovuto essere? Io dormo, di notte”.
“Sappiamo che lei sta indagando sul caso "Jonathan Dubs". Non lo neghi!”
“Non lo nego affatto. Ma finora non ho scoperto assolutamente nulla”.
“Lei è stato all'ospedale, ieri pomeriggio, non è vero?”
“Sì. Ho chiesto al dottor Coll di mostrarmi alcune analisi del bambino”.
“E questa notte è tornato a prelevare altri indizi, non è così?”
“Non dica sciocchezze. Stanotte non mi sono mai mosso di qui. La portinaia può confermarlo”.
“Può essersi calato dalla finestra! Poi è entrato al Pronto Soccorso insieme a questa ragazza, travestita da donna incinta”.
“Ha guardato bene giù dalla finestra? Siamo al terzo piano! Mi sarei rotto l'osso del collo se fossi saltato giù”.
“Ci sarà di sicuro una scala. Che avete trovato?”, chiese, rivolto agli altri due poliziotti.
“Niente, signor capitano”.
“Come sarebbe a dire "niente"? Tu, controlla sotto la finestra! Controlla anche la loro auto: è parcheggiata qui fuori. Tu, invece, dai un'occhiata alle telefonate fatte dai loro cellulari”.
Steve prese le chiavi della macchina e le diede al capitano:
“Tenga. Non voglio che mi forziate la serratura: la vettura non è mia. È stata noleggiata”. Uno dei due uomini controllò i telefoni.
“Recentemente è stata chiamata un paio di volte la madre si Steve, quattro volte la sua amichetta, e ieri solamente questo numero. Controllerò di che cosa si tratta”.
“È un fast-food di questa città. Ho ordinato la cena”, spiegò Steve.
“Affermativo, capitano. La cena è stata consegnata alle sette e trenta”, riferì il poliziotto, dopo aver controllato.
“Perché stava indagando sul bambino dei Dubs?”, chiese ancora il capitano a Steve.
“Veramente stavo indagando su uno strano caso di neve fuori stagione a casa dei Dubs. Poi ho scoperto che il bambino veniva visitato spesso e ho deciso di indagare. Può darsi che sia lui a provocare questi strani fenomeni atmosferici”, si sbilanciò Steve, per dare peso alla sua indagine.
Di lì a poco rientrò l'altro poliziotto:
“La macchina è pulita: nessun indizio utile. Il motore è freddo e la portinaia afferma che non si è mai mossa di lì, questa notte: i due le avevano dato l'ordine di custodirla. Non è stato chiamato nessun taxi e non hanno ricevuto visite, a parte il garzone del fast-food, che se ne è andato subito. Ho fatto controllare i chilometri: sono quelli dall'autonoleggio fino a casa dei Dubs e poi qui. Fuori dalla finestra non ci sono né scale, né appigli utili per scendere. Non ho trovato niente che possa essere stato usato per travestirsi”.
Il capitano lo fissò, perplesso.
“Fate entrare il testimone”, ordinò.
A quel punto, il cuore di Livienne si mise a battere forte e si augurò che tutto andasse per il meglio. Se qualcuno li riconosceva sarebbero stati in un grosso guaio. Entrò il giovane infermiere che li aveva ricevuti al Pronto Soccorso la sera prima. Il ragazzo li squadrò per bene. Livienne trattenne il fiato, impietrita dalla paura.
“Allora?”, si spazientì il capitano.
“Non sono loro”.
“Come sarebbe a dire "non sono loro"?!”, esclamò il capitano. “Ne è sicuro?”
“Certo! Quei due che ho visto, e che poi non si sono ripresentati a firmare le carte per il ricovero, erano più alti, e anche più vecchi. Inoltre, lei era molto più brutta: se avessi visto una ragazza così carina me ne sarei ricordato certamente!”
“Maledizione!”, s'infuriò il capitano.
“Che facciamo, signor capitano?”, domandò uno dei poliziotti.
“Niente! Che possiamo fare? Non abbiamo nessun motivo per trattenerli. La portinaia dice che non si sono mai mossi di qui, il testimone non li riconosce e non si trovano indizi per incriminarli, non hanno noleggiato altre automobili o taxi, e non possono aver raggiunto l'ospedale a piedi. In quanto ai mezzi pubblici, i pullman di notte non circolano; inoltre non si trova il dischetto! Il che è la cosa più importante”.
“Di che dischetto sta parlando, signor capitano?”, chiese Steve, fingendo di non saperlo.
“Non sono affari suoi, agente Rowling. Agos, perquisiscili. Se non hanno il dischetto addosso saremo costretti a lasciarli andare”.
“Senta! Non siamo dei criminali! Lei non ha nessun diritto di trattarci in questo modo!”, esclamò Steve, adirato.
“Stia zitto, se non vuole che la porti in cella ugualmente”.
“Guardi che li conosco anch'io, i miei diritti!”
Uno dei poliziotti li perquisì, ma non trovò nulla.
“Niente da fare, capo. Non ce l'hanno”. Il capitano si rivolse a Steve:
“Fossi in lei, girerei al largo dalla casa dei Dubs e troncherei subito questa indagine”.
Dopodiché, lui e gli altri due se ne andarono, seguiti dall'infermiere.
“Okay, Livi, andiamo a dare un'occhiata a casa dei Dubs. Ho qualcosa da chiedere al signor Dubs e gentile consorte”.
Ma quando giunsero alla casa ebbero una brutta sorpresa: le ante erano chiuse e, dopo che ebbero suonato ripetutamente il campanello, si resero conto che non c'era nessuno. Alla fine, un vicino di casa uscì e disse loro:
“Se ne sono andati questa notte! È venuto un camion che ha caricato molte cose, anche dei mobili. Non mi stupirei se avessero fatto trasloco”.
“Non sa dove possano essere andati?”
“No, mi dispiace”. Steve telefonò a Prische e gli chiese:
“Trovami il signor Ronald Dubs, sua moglie Carol e suo figlio Jonathan. Ovunque siano!” Poco dopo, Luke lo richiamò:
“Mi dispiace, Steve. Nei dati a mia disposizione risultano dimorati ancora lì. Non hanno altre case e i parenti più prossimi sono dei lontanissimi zii. Ho provato a chiamarli ma non sanno neppure che i signori Dubs hanno avuto un figlio. Evidentemente è da un po' che non si incontrano!”
“Quindi non sai dove sono finiti?”
“No. Non ne ho idea. Forse sono andati in ferie”.
“Portandosi dietro i mobili?!”, esclamò Steve, infuriato. Più si addentrava in quella storia, più le cose si facevano oscure.
Steve interrogò ancora il vicino, per domandargli se sapeva qualcosa del furgone che aveva caricato i mobili.
“Non ha visto per caso di che ditta era?”
“No. Non c'erano scritte sul fianco, e comunque era buio”.
“Se i Dubs dovessero tornare, me lo faccia sapere immediatamente, d'accordo?”, disse, porgendogli un biglietto da visita.
“FBI? Sono implicati in qualche losca faccenda?”
“Non lo so ancora. Comunque, lei mi tenga informato, qualunque cosa venga a sapere sul loro conto”.
L’uomo fece un gesto affermativo con la testa. Steve lo salutò, dirigendosi alla macchina. Dopo aver interrogato anche gli altri vicini, senza ottenere nulla di più di quello che già sapeva, Steve si rivolse a Livienne:
“Prendiamo il primo aereo e torniamo a casa. Non ha più alcun senso restare qui”.
Era pomeriggio inoltrato quando giunsero a Filadelfia. Livienne si recò subito alla sede del giornale, Steve invece tornò a casa e depositò il bagaglio, poi si recò all'FBI, dove il suo turno di lavoro era quasi finito. Stese il rapporto sulla recente indagine, omettendo di dire che il bambino aveva comunicato mentalmente con Livienne, e omettendo pure la loro capatina furtiva e notturna all'ospedale.
Aveva completato da poco di scrivere il rapporto quando ricevette la telefonata di Donald:
“Steve, ti voglio immediatamente nel mio ufficio”. La voce di Donald era imperiosa e non prometteva nulla di buono. Prese il rapporto con sé e raggiunse l'ufficio di Kerk, che lo stava aspettando, masticando caramelle alla menta.
Il capo lo osservò per un lungo momento, poi sbottò:
“Si può sapere cosa diavolo hai combinato per pestare i piedi all'intera città di Blytheville?”
“Senta, Donald, che lei ci creda o no, io non ho fatto proprio niente! Mi hanno aggredito come un malvivente, hanno messo le mani addosso a me e a Livienne, hanno frugato fra le nostre cose e tutto questo senza averne il minimo diritto! Dovrei fargli causa io stesso!”
“Vuoi dire che non l'hai preso tu il dischetto?”
“Non so neppure di che cosa lei stia parlando!”, urlò Steve, che non sapeva se poteva fidarsi di lui o meno.
“Dall'ospedale di Blytheville, precisamente dallo scrittoio del dottor Coll, è scomparso un preziosissimo dischetto, contenente informazioni importantissime sul piccolo Jonathan Dubs. Sappiamo che tu eri stato a cercare notizie su di lui, nel pomeriggio”.
“Sì, è vero: giorni fa ho trovato un video amatoriale, nella cassetta della posta. Riprendeva la casa dei signori Dubs in balia di eventi atmosferici incredibili. Così ho voluto indagare. Ma i signori Dubs non mi hanno riferito nulla di utile. Parlando con Jonathan, però, ho scoperto che il bambino veniva spesso visitato dal dottor Coll. Mi era sembrato un bambino molto strano e pensavo fosse addirittura lui a provocare quegli strani fenomeni. Così sono andato a chiedere al dottor Coll le analisi del bambino. Abbiamo anche avuto una discussione, poiché sono certo che mi abbia mostrato dei referti fasulli”.
“Perché ne sei così sicuro?”
“Il bambino ci ha detto che veniva esaminato ogni mese; le analisi che mi ha mostrato Coll risalivano a sei mesi prima”.
“Ho capito. E poi che è successo?”
“Niente. Ho cercato un motel dove andare a dormire e la mattina seguente, quando sono tornato dai Dubs per proseguire l'interrogatorio non ho trovato più nessuno. Sembrano essere spariti. Comunque, troverà tutto nel mio rapporto, anche se non è poi molto”.
“Fossi in te, consiglierei alla tua amica Livienne di tenere per sé questa storia”.
“Non si preoccupi: Livienne ha deciso che non scriverà un articolo, su tutto questo. Dopotutto, non c'è niente da scrivere: il caso non è stato risolto”.
Donald prese fra le mani il rapporto, poi gli disse ancora:
“Se non hai preso tu il dischetto puoi stare tranquillo. Puoi andare, ora, Steve”.
“Buona serata, Donald.”, disse, uscendo. Quando fu nel corridoio sentì la porta dell'ufficio di Donald chiudersi e udì i passi del suo principale che lo seguivano.
“Steve”, lo chiamò. Lui si fermò ad aspettarlo. Quando Kerk gli fu sufficientemente vicino, gli disse, a voce più bassa:
“Ti è mai capitato di sentire che una faccenda è come la punta di un iceberg, e più ci vai a fondo più scopri nuovi elementi per continuare l'indagine?”
“Certo: questa è una di quelle volte”.
“Già. Se andrai a fondo di questa faccenda troverai cose che non puoi neppure immaginare, Steve. Non posso aiutarti, perché non sono della partita, ma so che c'è qualcosa di grosso, in ballo. Scoprilo, ma stai attento: ne va della tua vita e anche di quella di Livienne, se non si terrà fuori da questa storia”.
Steve annuì: aveva capito perfettamente.
“C'è di mezzo Senfter, vero?”, chiese.
“Senfter c'entra sempre, solo che non so da che parte sta. Stai attento, Steve, non fidarti di lui”.
“Non mi sono mai fidato”.
Donald ritornò nel suo ufficio e Steve raggiunse il suo appartamento. Si stupì di trovare la porta aperta: la chiudeva sempre a chiave. Entrò e trovò le stanze completamente sottosopra: i vestiti erano sparsi sul pavimento, il frigorifero era stato aperto e svuotato, gli armadietti della cucina erano stati accuratamente controllati. Persino il materasso non era più sul letto. Era stato buttato per terra e tagliato, e qualcuno aveva frugato all'interno.
Steve si sedette su una sedia della cucina, esausto. Poco dopo suonò il campanello della porta e andò ad aprire. Livienne entrò e diede un'occhiata in giro.
“Fantastico! Sembra casa mia quando non riordino da settimane”, cercò di scherzare.
“Hanno cercato il dischetto. Può darsi che abbiano messo anche delle cimici”, la avvertì subito lui.
“Anche nel mio appartamento hanno ribaltato tutto. Non che prima ci fosse in ordine, ma mi rincresce per i vestiti che avevo ancora nell'armadio. Ora sono tutti da rilavare e stirare di nuovo. E io odio stirare! Inoltre, non so proprio dove andrò a dormire stanotte, visto che mi hanno disfatto il materasso!”
“Spiacente di non poterti ospitare. Hanno disfatto anche il mio”.
“Manca qualcosa?”
“Credo di no. Non ho ancora fatto l'inventario, sono appena rientrato”.
“Ti aiuto a rimettere un po' in ordine”.
“Grazie”.
Ci volle parecchio prima che l'appartamento riprendesse un aspetto decente, ma alla fine riuscirono a sistemare quasi ogni cosa. Steve ordinò anche un nuovo materasso. Quando tutto fu a posto erano ormai le dieci di sera e lui e Livienne erano sfiniti.
“Ti va di mangiare una pizza?”, chiese lui.
“Sì, volentieri”.
“Allora andiamo: Gennaro le fa davvero favolose”. Steve le sorrise, ritrovando il buon umore di sempre. Dopotutto, lui e Livienne stavano bene e il dischetto era al sicuro, almeno per il momento. Se Apple fosse riuscito a trovare il sistema per entrare nella base, la verità sarebbe venuta finalmente a galla.
   
 
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