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Autore: brooklynbaby_    21/07/2017    0 recensioni
«Monta su, ragazzina, ho avuto già abbastanza guai stasera per colpa tua» le feci cenno col capo di salire dietro di me. Ma lei restò immobile, guardandomi con tanto d’occhi. I capelli le si erano increspati alla radice, non avrei saputo dire se per l’umidità o la paura, e aveva la pelle d’oca.
Anni '70.
Brooklyn, un ragazzo scanzonato che cerca di farsi strada nel mondo della musica.
Manhattan, una ragazza acqua e sapone che studia per essere ammessa alla Juilliard.
Solo un ponte li divide, solo la musica li unisce: Justin Bieber e Lana Del Rey, finiranno nella stessa band, in un viaggio che li porterà fino a Woodstock.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2- Park Avenue
 
Justin
 
Mi voltai sbigottito e la vidi inerme, con le braccia penzoloni lungo i fianchi. Si mordeva il labbro, tuttavia. Quella arrendevolezza doveva starle costando caro e questo mi divertì anche di più.
«Come, scusa?» sillabai con tono malizioso.
«Mi chiedevo, ecco io..» teneva gli occhi bassi, mentre si torturava la punta delle dita. «Non mi è rimasto neppure un soldo per prendere la metropolitana» si giustificò.
«Credevo che i soldi fossero l’ultimo dei tuoi problemi» chiosai velenosamente. D’un tratto vidi lo sguardo rabbonito che aveva avuto negli ultimi minuti, lasciare il posto ad uno accigliato, con un guizzo d’orgoglio.
«Ci ho ripensato, seguirò il tuo consiglio e farò l’autostop!» sbuffò senza più nascondere l’antipatia che nutriva per me. Girò i tacchi e si incamminò con fare sicuro, tenendo sollevato il pollice. Mentre la guardavo scrutare a destra e a manca, con gli occhi lucidi di paura, sentii un rombo seguito da una frenata brusca. Strabuzzò gli occhi ed io insieme a lei, quando, nella macchina che le aveva inchiodato proprio di fronte, vidi un portoricano con lunghi baffi neri.
«Ehi bocconcino bianco, dove vuoi che ti porti?» biascicò lascivamente.
La vidi sussultare, squittendo per la paura, e mentre ancora teneva una mano sul petto annaspò nel tentativo di rispondere qualcosa, ma non emise un fiato.
Mi stavo rammaricando di aver indugiato tanto a lungo in quella storia: una tipa come lei in un posto del genere era una calamita per i guai. Guai in cui adesso mi trovavo invischiato fino al collo, perché al portoricano non era sfuggito lo sguardo supplichevole con cui mi stava chiedendo aiuto in silenzio.
«E quello chi è? Il tuo ragazzo, bellezza?» ghignò, lanciandomi un’occhiataccia dallo specchietto della sua Riveira.
«Esatto, e farai meglio a girare a largo se non vuoi il mio pugno nella tua bocca» dissi, riuscendo a spacciare l’audacia per coraggio. Ma quando avvertii il ‘clic’ della sua portiera, d’un tratto il mio talento per la recitazione si dileguò. Aveva già messo un piede fuori dalla macchina, quando una sirena della polizia echeggiò a pochi isolati di distanza. Dovevo essermi avanzato un briciolo di provvidenza, quella sera, perché l’energumeno rientrò in auto in men che non si dica e ripartì tanto velocemente da lasciare un polverone dietro di lui. Quando la nebbia si fu diradata guardai in direzione di quella ragazza e sospirai «Fiuu, c’è mancato poco!»
Lei però non sembrava granchè sollevata, tremava come una foglia e giurai che era sul punto di mettersi a piangere. Grandioso, pensai, se c’è una cosa che proprio non sopporto è veder frignare una ragazza.
Mi avvicinai a lei col mio Gilera «Monta su, ragazzina, ho avuto già abbastanza guai stasera per colpa tua» le feci cenno col capo di salire dietro di me. Ma lei restò immobile, guardandomi con tanto d’occhi. I capelli le si erano increspati alla radice, non avrei saputo dire se per l’umidità o la paura, e aveva la pelle d’oca.
«Avanti, non abbiamo tutta la notte prima che arrivi un altro portoricano e non è detto che la pula ci salvi il culo ancora» scherzai, provando a rassicurarla. Le feci spazio sulla sella e lei vi salì, tentando goffamente di abbassarsi il vestito sulle gambe che si scoprirono un po’. Mi soffermai sulla sua pelle diafana, ma dall’aspetto molto morbido, prima di notare che era diventata rossa per l’imbarazzo.
«ti conviene reggerti» suggerii.
Portò incerta le mani attorno al mio busto, intrecciando timidamente le dita. Disse solo «Park Avenue, 7»
 
 
 
 
 
 
 
Lana
 
Avevo ormai a rinunciato a tenere al loro posto le pieghe del mio vestito. Il vento continuava a gonfiarle e lanciava sferzate contro le mie gambe. Mi sarei di certo beccata un raffreddore. Soltanto le mani erano ancora calde, o meglio ribollivano a contatto con quel corpo sconosciuto, sebbene ci separassero strati di maglia.
Tenevo gli occhi ridotti a due fessure, per via del vento che mi faceva lacrimare, così non avrei saputo dire dove eravamo adesso. Mi sembrava fossimo ormai in corsa da ore.
D’un tratto il borbottio stramazzò e sentii il cigolio dei freni più distinto.
«Se hai intenzione di passare così tutta la notte, sarà meglio cambiare posizione, non trovi?»
la sua voce mi riportò alla realtà. Aprii cautamente gli occhi e riconobbi i marciapiedi familiari, le utilitarie parcheggiate con cura. sperai di non riconoscere nessuno che conoscessi tra i padri di famiglia che portavano a spasso i loro cani. In quel momento, soprattutto, desideravo ritardare più a lungo possibile l’incontro con mio padre.
«Elizabeth Woolridge» proprio in quell’istante la sua voce tuonò come un castigo dall’alto del portone del nostro palazzo. Mia madre se ne stava un po’ nascosta, nella sua vestaglia di seta italiana, dietro la figura tornita e irata di mio padre, che si stava avvicinando a grandi falcate verso di noi.
«Caro, cerca di mantenere la calma, i vicini ci guardano..» lo supplicò mia madre.
«M’importa un fico dei vicini» tuonò quando fummo a una spanna di distanza. «Come hai potuto disobbedire in questo mondo? Stavamo per telefonare alla polizia. Hai idea di cosa significa non trovare la propria figlia nella sua stanza e non sapere dove sia e soprattutto con chi…» si arrestò un attimo guardando oltre la mia spalla. Solo allora mi ricordai del ragazzo che mi aveva accompagnata a casa e non potei fare a meno di pensare quanto lo stesse divertendo assistere a quella sonora ramanzina.
«Oh, lasci che le spieghi signor Woolridge» la sua voce gonfia di sarcasmo prometteva di far innervosire mio padre anche di più e le sue spiegazioni non mi avrebbero ridotto la pena.
«Io non volevo riaccompagnare sua figlia a casa, ma si dà il caso che non le fosse rimasto altro rimedio, perché vede..» lo interruppi, prima che potesse cacciarmi in guai più grossi.
«Ti spiegherò tutto una volta a casa papà, ti prego andiamo..» posai delicatamente una mano sul suo braccio.
«Grazie per l’aiuto!» ringhiai con un filo di voce contro il biondino. La sua faccia si rabbuiò e mi ricambiò un’occhiata truce.
«Avrei dovuto darti in pasto al portoricano.. » sputò.
Senza degnarmi di uno sguardo, accese il suo motore e lo guardai sparire oltre la collina. Quando mi voltai a guardare i miei genitori, il rombo del suo ciclomotore non si sentiva neanche più, ma era palpabile la tensione.
 
 
 
 
«e puoi anche scordarti il ballo di fine anno» fu quella lo conclusione del discorso di mio padre, che mi tenne inchiodata per quasi un’ora al divano, ripetendo quanto fossi stata incosciente ad avventurarmi in una zona sconosciuta e così pericolosa della città. Anche se apprezzava la mia generosità nei confronti di Joshua, non poteva lasciare impunita la mia sortita. Niente telefono per un mese e non avrei messo piede fuori casa se non per recarmi a scuola.
Quando finalmente si decisero a mandarmi a letto, ero stremata. Andai di filato in camera mia.
«L’hai fatta davvero grossa!» ridacchiò mia sorella.
«Sta zitta, Daisy» sbuffai. Tirai fuori la mia camicia di lino da un cassetto e mi trascinai in bagno, seguita da mia sorella che sgambettava dietro di me.
«Avanti Lana, racconta, com’è Brooklyn? E’ davvero un postaccio come dicono?» era trepidante di curiosità.
«Non ti dirò proprio niente, Daisy. Sono stanca morta e voglio solo andare a dormire» usai un tono che non ammetteva repliche, ma Daisy era un osso duro.
«Oh andiamo, che vantaggio c’è ad avere una sorella maggiore se poi non ti racconta niente?» piagnucolò sull’uscio del bagno.
«Facciamo così, se tu prometti di coprirmi con mamma e papà quando vorrò usare il telefono, io domani ti racconterò tutto» le proposi.
«Puoi contare su di me, sorella!» mi fece un occhiolino strambo e finalmente potei infilarmi in bagno.
 
 
 
La doccia calda aveva mandato via parte della mia frustrazione, ma quando poggiai la testa sul cuscino fresco di pulito, ci misi un po’ ad addormentarmi. La mia mente era un vortice di pensieri, strozzati sul nascere dal nervoso. E pensare che era tutta colpa di quell’arrogante, di quel triviale, di.. solo allora mi resi conto di non sapere neppure il suo nome.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
 
 
 
 
 
 
   
 
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