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Autore: vero511    22/07/2017    1 recensioni
Ellie Wilson 24 anni, appena arrivata a New York insieme alla sua gioia più grande: il figlio Alex. Lo scopo della giovane è quello di ricominciare da zero, per dare la possibilità ad Alex di avere un futuro diverso dal passato tumultuoso che lei ha vissuto fino al momento del suo trasferimento. Quale occasione migliore, se non un prestigioso incarico alla Evans Enterprise per riscattarsi da vecchi errori? Ma Ellie, nei suoi progetti, avrà preso in considerazione il dispotico quanto affascinante capo e tutte le insidie che si celano tra le mura di una delle aziende più influenti d’America?
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Buongiorno! Scusate se metto qui le note, ma ho un avviso importante da darvi e vorrei che lo leggeste. Siccome domani parto, sarò impossibilitata a pubblicare il prossimo capitolo per qualche giorno, di conseguenza il prossimo aggiornamento arriverà intorno al 3/4 di agosto. VI chiedo scusa per il disagio. 
Per il momemento, godetevi questo capitolo, spero vi piaccia, baci <3


ZACK’S POV

“Io…posso spiegare…” farfuglio sentendomi colpevole come mai prima di adesso. “Immaginavo l’avresti detto, dite sempre così. Però sono curiosa, quindi sentiamo la tua grande spiegazione e vedi di essere convincente” ha un tono glaciale, ma questa possibilità che mi sta dando, mi tranquillizza e mi conferisce il coraggio necessario per iniziare a parlare. “Ero preoccupato per te, volevo saperne di più, capire cosa ti facesse stare così male”. “Hai letto il biglietto che ti ho lasciato stamattina, no? E ti prego, almeno su questo non mentirmi” mi osserva in attesa. “Sì, l’ho letto.” “Quindi cosa ti costava avere ancora un po’ di pazienza? Sai da mesi che nel mio passato c’è qualcosa…e l’arresto di mio padre te l’ha confermato; hai atteso così tanto, perché non potevi farlo ancora per un po’?” Ha ragione: ero veramente in pensiero per lei, ma il suo ragionamento non fa un piega. Avrei dovuto soffocare la mia curiosità invadente e aspettare che fosse lei a rivelarmi la verità. “Non è necessario che tu nasconda nulla: tua madre era malata, non ha deciso lei di avere qualsiasi cosa abbia avuto!” Le mie parole sono dirette, ma non vogliono essere un attacco, più un modo per capire. “Questo lo so benissimo, io non mi vergogno di nulla. Semplicemente non amo farmi compatire e mi piace che le mie questioni personali restino tali. In questa città tutti ci adoravano, la mattina salutavamo i vicini appena uscivamo dal vialetto, le persone ci aiutavano a portare le buste della spesa quando erano troppe o troppo pesanti, il meccanico e l’elettricista ci facevano lo sconto perché essere in questa comunità significava essere in una famiglia, poi le cose sono cambiate. Quando è stata diagnosticata la malattia a mia madre, tutti la pensavano esattamente come hai detto tu poco fa, in fondo, nessuno vorrebbe stare male; poi la patologia è degenerata, lei ha iniziato ad essere aggressiva, ce l’aveva con il mondo e gli unici che riuscivano a capirla eravamo io e mio padre. La perdonavamo quando ci urlava contro, quando rompeva i piatti a causa degli scatti d’ira e persino quando la violenza le sembrava l’unica soluzione per combattere. Per me è stato davvero difficile, ero solo una bambina, ma la realtà è che sapevo che stava affrontando una guerra e in guerra non si va mai disarmati: la rabbia era la sua unica arma.”

 Ho i brividi a causa del suo racconto e non so in che modo rispondere, nessuna parola sembra quella giusta da usare in questo momento. Sta facendo una piccola pausa, il suo viso è perso, immerso nei ricordi e non posso fare altro se non aspettare che continui.
“Non esisteva una cura e non esiste tutt’oggi, la soluzione migliore sarebbe stata portarla in un centro dove si sarebbero presi cura di lei, ma…non volevamo lasciarla così presto. Mio padre…ha fatto tante cose sbagliate nella sua vita, ma lui la amava così tanto…ha passato la sua vita con lei, è un piccolo paese, si conoscevano da quando erano piccoli. Erano davvero felici, credo di non aver mai visto nessuno così. Per lui è stato un duro colpo da digerire. Non lo giustifico per il male che ha fatto negli ultimi tempi, ma infondo è solo un uomo, ha perso la persona che più amava e non credo sia possibile sopportare un dolore così, senza uscirne demoliti. “ Da queste sue ultime parole, trapela un sentimento di affetto verso Garrett che non le avevo mai letto negli occhi. Sono davvero stati uniti, una volta. E forse, anche se come ha detto lei, questa storia drammatica non giustifica le sue azioni, permette quantomeno di capire da cosa è stato innescato questo ciclo di decisioni sbagliate che ha preso.

“I lividi…è stata…” non riesco a concludere la mia domanda, ma lei comprende subito e mi risponde. “Sì, è stata lei. Non so esattamente come sia andata, ma mentre io ero a scuola, devono aver litigato e lei ha avuto uno dei suoi scatti d’ira…gli ha messo le mani attorno al collo e ha stretto.” Vorrei chiederle perché non l’ha fermata, come sia stato possibile che un uomo ben piazzato come Garrett, si stesse lasciando strangolare così facilmente da un’esile donna, ma poi ci arrivo: “L’amava talmente tanto che era pronto a sopportare qualsiasi cosa.” Annuisce e i suoi occhi sembrano tornare al presente. “Senza nemmeno accorgersene, lui ha urlato e dei vicini l’hanno sentito. Era disposto a lasciarsi uccidere, ma nel profondo sapeva che mi avrebbe lasciata sola e non era questo ciò che voleva. Poi l’ha fatto comunque, ancora non sapeva la portata del dolore che la morte di mia madre gli avrebbe causato”.

Nella sua espressione trapela un senso di abbandono che mi rivolta lo stomaco e il peso di questa conversazione mi colpisce con improvvisa durezza. La rabbia nei confronti del Signor Wilson monta nelle mie vene e non riesco a trattenermi: “Però hai sofferto anche tu!” Sorride dolcemente e posa una mano sulla mia, lasciando che dei brividi si irradino per tutto il mio corpo a partire dal punto in cui la nostra pelle si accarezza. “Ce l’ho ancora con lui per questo e tu lo sai, ma vedi…il periodo in cui mia madre è stata malata, è stato incisivo nella mia memoria. I ricordi felici che ho di lei, risalgono a quando ero fin troppo piccola, invece lui ha avuto anni e anni per imprimersi nella mente il suo sorriso e la sua risata.” Non so perché, ma in qualche modo continua a giustificare suo padre, nonostante io sia perfettamente consapevole di quanta rabbia nutra nei suoi confronti. “Non dovresti difenderlo così, non metto in dubbio l’inferno che ha passato, ma tutti soffriamo”. Stringo ancora di più la sua mano e con il pollice disegno dei cerchi sul suo dorso. “Siamo creature immensamente fragili, Evans, tu hai avuto il tuo momento di debolezza recentemente, il suo è solamente durato di più. Ha lottato per tanti anni e ora è semplicemente stanco. L’essersi consegnato, lo dimostra.” “Vuoi perdonarlo?” La mia non è un’accusa, in qualche modo, inizio a comprendere il suo discorso e incredibilmente riesco a mettermi nei panni di quell’uomo. “Ciò che voglio, è proteggere Alex. Non mi riavvicinerò a mio padre se questo significa mettere in pericolo mio figlio, ma odiare è faticoso e il tempo che passo a provare risentimento, potrei spenderlo in altri modi” so che non è il momento, ma queste sue ultime parole, mi fanno provare un certo calore, come se la sua fosse una sorta di illusione a ciò che è accaduto ieri.

Restiamo in silenzio a lungo, i viaggi nel passato sono stremanti e tutto il carico di informazioni e riflessioni è stato fin troppo pesante per entrambi e ora abbiamo bisogno di riprenderci.
Siamo ancora seduti alla penisola della cucina e non ci guardiamo nemmeno, semplicemente le nostre mani sono intrecciate come non lo erano mai state prima d’ora. È una sensazione piacevole, come se nessuno dei due volesse intromettersi in questo attimo di raccoglimento dell’altro, ma al tempo stesso, come a dire: “se vuoi dire qualcosa, io sono qui per ascoltarti; se hai bisogno di una spalla su cui piangere, eccomi; se ti senti stremato e hai bisogno di forza, ti cedo la mia”.
“Sei ancora arrabbiata?” Questo dubbio mi perseguita e non mi sento la coscienza pulita. “Un po’ sì. Perdono la tua curiosità e mi fa piacere che tu fossi preoccupato, ma avresti dovuto dirmelo” non ha un tono nervoso o di rimprovero, è più una costatazione. “Mi farò perdonare, promesso” le faccio l’occhiolino e il suo sguardo a metà tra lo stupito e l’incuriosito è tutto ciò che mi serve.
  
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