Anime & Manga > Detective Conan
Segui la storia  |       
Autore: Il Cavaliere Nero    22/07/2017    5 recensioni
Shinichi Kudo è famosissimo: il più giovane detective, un curriculm che vanta il maggior numero di casi- rapidamente!- risolti. Per la sua consapevole abilità, e talvolta saccente professionalità, parte della polizia lo applaude e lo stima; l’altra metà, per la stessa ragione, lo ostacola nascondendosi dietro una finta esaltazione di rigorismo, che è in realtà qualunquismo.

“Tu…sei, sei stato in centrale oggi?”
“Sì. Ma sai, non mi sono fermato lì con loro, non sono soliti parlare benissimo di me."
In quella dichiarazione di consapevolezza, in lui tornò a dominare il detective orgoglioso e sicuro di sé, distaccato e persino un po’ scontroso.
"Tu...sai che..."
"Mph, credi che io viva sulle nuvole? Dicono che io sia ancora più arrogante da quando sono amico suo. Un mese fa ero un eroe, ora improvvisamente uno sbruffone. Come si spiega quest'incoerenza? Io sono sempre io. Sono sempre stato un eroe, sarò sempre uno sbruffone. Purchè scelgano. Sono lo stesso di un mese fa, non c'è nulla di diverso in me."

Ran apprezza i suoi metodi, totalmente distanti da quelli di suo padre. Ma li apprezzerà anche quando ne verrà travolta?
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo Ottavo - Tortura

 
 
Alla fine del capitolo si trova una scena un po’ violenta. Non ho voluto alzare a livello rosso il rating della fic perché negli altri capitoli mi trattengo maggiormente, ma in questo contesto mi è sembrato necessario. Dunque, chi sia particolarmente suggestionabile, farebbe meglio a evitare l’ultimo paragrafo perché è praticamente RATING ROSSO.
 

Con un particolare ringraziamento a Rob,

 
 
«Hieme et aestate, prope et procul,
usque dum vivam…O grande e caro Iddio,
fammi vedere per un attimo solo, nel bianco
di quella nuvola, il profilo dell’uomo a cui lo dirò.»

Beppe Fenoglio
 
 
 
“Vieni qui, avanti: fatti sotto. Io non ho paura di te!”
“Ed è per questo che ti prenderò. La paura è una tra le più grandi forme di difesa. Pensi di essere coraggiosa? Invece non sei che un’incosciente e avventata ragazzina…”
 
Sonoko strinse il pugno contro il bracciolo del suo posto, trattenendosi a stento dal serrare gli occhi per non vedere i canini affilati del vampiro sullo schermo penetrare la carne morbida del collo della fanciulla – Yoko Okino trattava con maestria ogni ruolo le assegnassero.
L’ereditiera della famiglia Suzuki seguiva il film in perpetua tensione, ogni muscolo del corpo contratto che vibrava alla prima nota in falsetto del soundtrack, quando la giovane esploratrice apriva una porta o quando strisciava a terra per non farsi scorgere dalle creature cui dava la caccia.
 
“Ti mostrerò la differenza tra paura e incoscienza. Anche subito, se è questo che desideri…”
“La paura è assenza di lucidità, è l’irrazionalità che dirige il corpo. L’incoscienza è la paura riflettuta: è azzardo a capo della mente. Può vincere, se il caso l’aiuta. E chi osa, vince.”
 
Quando il vampiro si gettò contro la donna, gli altoparlanti tuonarono con una melodia in do minore: Sonoko trasalì, aggrappandosi al braccio della sua amica. Solo allora si accorse che Ran, la quale era di solito proclive ad abbandonare la sala di proiezione non appena il mostro di turno faceva la sua apparizione nel film, non aveva paura: il corpo morbidamente adagiato contro lo schienale, lasciava che i frammenti della pellicola le scorressero davanti agli occhi senza mostrare alcuna reazione intimorita.
“M-ma come fai, Ran? Io ho i brividi!” le sussurrò all’orecchio, facendola sussultare.
Le lanciò un sorriso silenzioso, senza replicare: cosa avrebbe dovuto dirle? Che da quando il film era iniziato non stava seguendo assolutamente un bel nulla? D’altronde Sonoko era stata così gentile ad invitare lei a quella prima del nuovo film di Yoko Okino, offrendole il secondo biglietto dei due che la produzione aveva regalato alla Suzuki Company in virtù del forte finanziamento ricevuto, che Ran non avrebbe davvero potuto rifiutare; in verità, per un istante, era stata sul punto di declinare: ma tanto l’entusiasmo della sua migliore amica quanto la voglia di distrarsi dalla sua ossessione l’avevano persuasa che quello spettacolo fosse un’ottima scusa per distogliere la mente da ciò che era avvenuto due notti prima. Eppure, dal momento in cui si era seduta, non aveva smesso di pensare neppure per un breve momento. In più, il tempo che trascorreva non l’aiutava a razionalizzare l’accaduto ed assumere una visione più distaccata ed oggettiva, al contrario: a interpretazione susseguiva interpretazione, e ciascuna di esse dipingeva la situazione con tratti sempre più cupi e foschi. Come in un vortice a cono ribaltato: dal gradino più alto, pur funesto, Ran si sentiva precipitare per le scale sino al punto più profondo e tetro, adottando prima una teoria –Shinichi si è pentito-, poi un’altra ipotesi –Shinichi ha pensato fossi una ragazzina-, infine una terza via di analisi –Shinichi non mi vuole più vedere-; improvvisamente, uno spiraglio di razionalità s’irradiava in quella tela tetra –Shinichi è molto occupato nell’indagine, appena potrà mi cercherà- ma permaneva con la stessa durata di un raggio di sole che s’infrange, filtrato da un vetro, su un oggetto. Ed ecco che, come il raggio di luce muta immediatamente colore dipendendo dalla posizione del vetro, mostrando rapidamente tutte le scale del suo spettro, così anche Ran subito ricadeva nelle paure precedenti, ed anche peggiori: Shinichi ha conosciuto un’altra, magari una sua ex; magari quell’attrice, magari una poliziotta; ha pensato non valesse la pena rischiare la reputazione con la figlia di un investigatore legato alla questura di Tokyo; e così mille ipotesi, delle quali l’unica costante era il suo torto. Ran era convinta che, qualunque cosa fosse andata storta e avesse indotto l’investigatore ad ignorarla per tutta la durata di quei due giorni, ciò era dipeso da un suo errore, e di questo non si poteva perdonare. Si rimproverava, con grande turbamento delle sue emozioni, di aver perduto la sua unica occasione di poter fare colpo sul grande e famoso Shinichi Kudo…sul suo Shinichi, un detective professionale ed un uomo perfetto –non perfetto in assoluto, naturalmente, ma perfetto per lei.
Si sentiva colpevole: il caso le aveva concesso la possibilità di provare a conquistarlo, di fargli provare almeno una stilla dell’infinito sentimento che lei nutriva per lui…e lei? Come rispondeva al destino? Rovinando tutto – e non sapeva neppure come aveva rovinato tutto!
 
 
Lei si chinò su di lui, come per baciarlo, ma si arrestò a pochi centimetri dalle sue labbra, nel momento in cui anche lui aveva fermato le mani sulle spalle di lei. A malapena trattenne un gemito, che si riversò in parte sulla bocca del detective, quando lui ripercorse di nuovo la schiena della giovane, a piene mani, dal collo alla vita. Allora le morse il labbro, attirandola a sé cosicché il suo ventre si poggiasse sul petto di lui. Sospirò ancora rumorosamente, mandandogli il sangue al cervello: afferrò i bordi della canottiera, e la lasciò nuda.
Ran rimase ferma, in imbarazzo, con la fronte appoggiata ancora sulla sua; Shinichi la scrutò completamente, facendo scorrere le mani di nuovo sulle sue gambe, perché si sedesse sul suo grembo più comoda. Risalì poi con gli occhi sul viso di lei, scoprendolo imporporato dall’imbarazzo.
“Mi vuoi, Ran?” si assicurò in ultimo barlume di lucidità. Le afferrò il capo con le mani, sciogliendole i capelli cosicché gli ricadessero sul viso.
“Sì.” Rispose in un bassissimo sussurro, arrossendo ancora di più.
Per tutta risposta, lui si tolse la camicia sbottonata e la attirò a sé, facendo scontrare i loro corpi con foga. Stavolta, lei non poté trattenere un gemito, cui fece eco anche Shinichi. Gli passò le mani sul petto, sull’addome e sui fianchi, facendolo trasalire.
Si baciarono. Ancora e ancora, continuando a toccarsi e scontrarsi così, per metà nudi, desiderosi l’uno dell’altra.

Animata da un’intraprendenza che a priori non si sarebbe mai saputa attribuire, Ran fece lentamente scorrere le mani dalle spalle sino alla cintura di lui, per poi afferrarne la fibbia. Fu allora che Shinichi le bloccò i polsi, trattenendo il respiro.
La ragazza rimase paralizzata, sentendosi immediatamente divampare della verecondia tipica di chi non è usata alla sfrontatezza.
“Scusami, io…”
“Zitta. Non senti nulla?”
A quel punto, racimolò quel poco d’audacia che le era rimasto e alzò gli occhi per incrociare i suoi; distolti dal corpo che da tempo stava contemplando, ispezionavano rapidamente l’appartamento.
Rimasero in silenzio per un po’, come in attesa di qualcosa, finché entrambi non videro chiaramente un’ombra attraversare il corridoio esterno dell’agenzia investigativa.
Contemporaneamente, trasalirono.
“È mio padre!” squittì Ran mentre già Shinichi tentava di sollevarla per i fianchi per riuscire ad alzarsi. In un batter d’occhio la giovane si ritrovò a terra, la magliettina tra le mani che tremavano e a malapena riuscivano a vestirla nuovamente, quando invece la situazione richiedeva una particolare velocità. Improvvisamente però, la luce della stanza s’accese e la voce di Kogoro echeggiò nel locale:
“Ran?”
L’ex poliziotto aprì la porta, facendo capolino nella stanza.
“Ma cosa stai facendo?”
Avvampando, non seppe rispondere. Si voltò per cercare aiuto nel ragazzo, ma dietro di lei carponi sul pavimento, il posto sul divano era vuoto. Tirò un sospiro di sollievo, comprendendo che il detective era stato più rapido di quanto lei non aveva saputo fare, e tornò a rivolgersi all’uomo in pigiama di fronte a lei:
“Io…avevo sentito…dei…rumori…”
Pregò che il padre non si spingesse a guardare oltre il divano, dove Shinichi, accucciato, stava pazientemente riabbottonandosi la camicia.
“E cerchi qualcosa a terra?”
“Ho…ho pensato che…” si alzò, tremolante “Nulla…no-non importa, papà. Torniamo a letto…”
“Hai le stesse idiosincrasie di tua madre.” Decretò lapidario, sbadigliando. Fortunatamente, non sospettò oltre e si incamminò per le scale. Ran fece altrettanto, lanciando un’occhiata alla porta socchiusa dell’agenzia. Non seppe trovare alcuna scusa per indugiare oltre in quella stanza, perciò, in imbarazzo ma ancora esaltata, si avviò verso casa.
 
 
Pertanto, la sua premura maggiore era di aver fatto la figura della bambina; era che Shinichi pensasse lei fosse una bambina.
Nonostante non ignorasse il suo aspetto fisico ed anzi, fosse consapevole della scultoreità del suo corpo grazie agli anni di karate praticato (e su questo molto spesso avesse provato a far leva, con i giusti vestiti e colori appropriati), Ran aveva sempre voluto puntare sulla mente per colpirlo: l’idea che Shinichi la trovasse affascinante o in qualche modo bella l’avrebbe lusingata, ma mai avrebbe voluto che il giudizio si appiattisse su quell’unica caratteristica. Quante belle donne aveva visto e avrebbe potuto vedere, con il lavoro che praticava? Certo, avrebbe potuto incontrare anche donne estremamente acute e intelligenti, sempre per via della sua professione. Ma, consapevolmente, Ran voleva appartenere alla categoria delle ragazze brillanti, nella personale classifica dell’investigatore. Voleva che Shinichi pensasse a lei in quei termini, quanto meno: voleva risaltare al cospetto della sua mente.
Nondimeno, cosa aveva ottenuto? Il parossismo del contrario: Shinichi aveva potuto pensare fosse una ragazzina, una bimbetta immatura, e per questo l’interesse per lei era scemato, o peggio: ignorandola in quel modo, le stava implicitamente suggerendo di troncare ogni rapporto, che lui non desiderava affatto prolungare oltre il necessario.
Quando Sonoko, film concluso, le si rivolse per invitarla a mangiare una pizza, a Ran veniva da piangere.

§°§

Sospirò, accucciandosi sul gradino di una piccola scalinata, celata alla vista dagli arbusti del giardino incolto che quel parchetto blandiva.
Scrutò l’orologio da polso: l’una e venti del mattino.
Sperò che tutto stesse andando per il meglio, scoccando un’occhiata al magazzino diroccato a qualche centinaia di metri da lui. Scompigliandosi i capelli con una mano, si rigettò la frangia all’indietro ma delle ciocche continuarono a danzargli al vento di fronte agli occhi, facendolo sbuffare.
Poggiando la schiena contro un altro gradino, chiuse gli occhi; la leggera brezza che soffiava quella notte gli suggerì il respiro delicato di Ran sulla sua pelle, due giorni prima. Sorrise, pensando a come anche allora si fosse accucciato per non farsi vedere da qualcuno, e il sorriso s’allargò ancor di più in viso quando si disse mentalmente che aveva temuto più Kogoro allora di quanto non temesse in quel momento gli uomini all’interno del magazzino cadente.
Quella ragazza gli aveva fatto perdere il controllo, di nuovo…
Trasalì, spalancando gli occhi. Non era il momento di distrarsi!
Si issò sulle ginocchia, tornando in piedi; sgranchendosi le gambe, s’illuse di accantonare il profumo della giovane che da due giorni non riusciva a dimenticare: non appena chiudeva gli occhi, ecco le forme di Ran a delinearsi con precisione di fronte a lui, sotto le sue mani, pronte al suo tocco…
Un vetro andò in frantumi e Shinichi Kudo si voltò: al quarto piano del fatiscente edificio, una finestra era stata colpita con forza dall’interno, e i cocci precipitavano sin sulla strada producendo dei bagliori fulminei come minuscole stelle comete in picchiata.
Senza esitazione, contravvenendo agli accordi presi il mattino precedente, il giovane detective non attese alcun segnale e accorse all’entrata dell’edificio in rovina, correndo su per le scale.
 
§°§
 
“Stupida ragazzina!” le sputò addosso, accompagnando il movimento delle labbra con quello dei piedi e ficcandole la punta della scarpa nel fianco.
Quella non rispose nulla, neppure gemette; come senza vita, fece scivolare la schiena contro il muro, finché non si trovò seduta a terra, per quanto il polso ammanettato alla manopola del termosifone glielo permettesse.
“Adesso sta’ qui, e poi…-
“Non essere tanto maleducato.” Lo interruppe il suo partner d’azione, estraendo una sigaretta dalla tasca interna del cappotto scuro.
“Mia cara, avevo chiesto a qualcun altro di occuparsi di te, ma purtroppo quel tipo è sempre indaffarato, ultimamente. E noi non abbiamo troppa pazienza, perciò…- sbuffò fuori dalla bocca un alito di fumo.
–rispondi, e fa’ in fretta. Porterai a termine il progetto, oppure no? Non avrai altre spiegazioni oltre a quelle che già ti abbiamo generosamente elargito.”
La donna tacque, mantenendo lo sguardo puntato al pavimento. Non sembrava nemmeno respirare; era immobile, inginocchiata a terra, come una bambola bellissima, diafana ma senza vita, di quelle della Hinamatsuri *. Se uno di quei due uomini le avesse sollevato il volto, avrebbe notato che anche i suoi occhi erano vietri e vuoti esattamente come quelli finti, pur luminosi, di una bambola.
“Hai preso la tua scelta. Decideremo cosa fare di te.”
L’uomo biondo più alto buttò a terra la sigaretta ancora accesa, calpestandola con il tacco dello stivale nero, sbriciolandola attorno alle gambe della donna.
“Tienila pure in tasca, se la vuoi come ultimo desiderio.”
Poi, con un gesto di scherno, le lanciò addosso una sigaretta nuova, appena presa dal pacchetto.
Quando i due uomini uscirono dalla stanza, lei ripose la sua mano nella tasca.
 
§°§
 
“Non mangi niente? Ti sei messa di nuovo a dieta?”
Ran sussultò, trascinata nella realtà da quelle parole. Sorrise alla sua migliore amica, spostando con la forchetta * da una parte all’altra del piatto il cibo ordinato. Non aveva voglia di mangiare.
“Stai bene, Ran?” ma quando la karateka annuì, Sonoko non le credette. “È da oggi che sei strana. È successo qualcosa? Forse hai visto qualcosa che ti ha spaventata quando sei andata da tuo padre alla centrale di polizia? Prima mi hai detto di aver fatto tardi perché gli hai portato le chiavi di casa, che aveva dimenticato come al solito. Sei dovuta salire sino nell’ufficio dell’ispettore Megure? Hai visto qualcosa di brutto?”
“No, Sonoko. Cioè, in realtà ho incontrato una persona…” soltanto allora le guizzò alla mente il singolare incontro di quel pomeriggio, con quello che suo padre aveva già qualche giorno prima definito un sospettato dell’inchiesta su cui sia lui che Shinichi lavoravano.
-Shinichi…-
Ogni pensiero tornava a lui. Di nuovo l’immagine del detective scacciò dalla mente ogni altra idea dalla testa, compresa la particolare conversazione avuta con quell’uomo qualche ora prima. Ma cosa importava di quel tizio? Cosa importava di tutto il resto?
Era una ossessione, un pensiero dominante.
 
Dolcissimo, possente
Dominator di mia profonda mente *

 
“Sonoko, non chiedermi niente. Devo assolutamente andare via, ma non vado a casa. Devo…fare una cosa. Potresti coprirmi? Dì a papà che sono con te, se ti telefona.”
Non le diede il tempo di accettare –ma certo che avrebbe accettato! Sonoko era la sua migliore amica, ed erano sempre state complici, fin dall’infanzia, quando la giovane ereditiera sgattaiolava via dalle lezioni di ceramica * che entrambe seguivano per andare all’appuntamento con il ragazzo di turno. “Uno stupidotto, Ran, non hai idea.” Le diceva poi il giorno dopo, insoddisfatta dalla mediocrità del suo cavaliere- che si alzò dalla sedia e corse via dal ristorante, dirigendosi a gran velocità verso villa Kudo. Convinta che quel pensiero non l’avrebbe lasciata in pace fin quando non si fosse decisa a fronteggiarlo, corse per molto e dopo un tempo per lei incalcolabile giunse di fronte al cancello chiuso della residenza dell’investigatore.
Lì, da sola, circondata dal buio della notte e da quei luoghi così familiari per il ricordo che ne conservava da giorni, si sentì avvampare nonostante non le stesse capitando assolutamente nulla di particolare: si trovava in una strada come un’altra, di fronte a una porta chiusa come ne vedeva a bizzeffe di giorno in giorno, e nessuno intorno certificava alcunché.
Eppure il cuore le martellava violentemente nel petto, come se quei luoghi fossero intrisi della presenza di lui -e questo le capitava realmente, in quel momento, poiché ciò che percepiva era frutto delle sensazioni sperimentate lì, per la prima volta così forti e dirompenti che mai avrebbe potuto dimenticare, anche quando avrebbe disperatamente voluto riuscirci.
Una Toyota chiara attraversò la strada lentamente, puntandole i fari addosso così rischiarando la sua sagoma che piroettò distorta sul muro della cancellata. Arrossì violentemente, arretrando di qualche passo affinché ogni testimonianza della sua presenza si dissipasse: incosciamente, rivolse uno sguardo allarmato all’automobile, come se il conducente sapesse per quale motivo lei si trovava davanti a quel portone e la deridesse per questo.
Sei qui per lui, era l’urlo silenzioso che ogni oggetto là attorno emanava.
Deglutì, nel tentativo di calmarsi. Velocemente percorse la distanza tra il cancello e l’angolo della strada, nascondendosi dietro il muretto che delimitava l’incrocio tra due vie: poggiò le spalle contro il muro e prese fiato. Perché il cuore batteva così forte?
Prese un secondo respiro e repentinamente, quasi fosse un’epifania, constatò che quelle che stava provando fossero sensazioni piacevoli: se ne sentiva arricchita, la sua anima irrazionale e sognatrice respirava aria pulita dopo averla desiderata per tanto tempo, pur non sapendo dire che odore emanasse. Adesso lo sapeva, e le piaceva tanto da toglierle il fiato.
Tanto su di giri quanto lo era stata pochi istanti prima, tornò di fronte al cancello Kudo. Rossa in volto, ignorò il suo imbarazzo e fece per suonare al citofono.
“Ran! Cosa ci fai qui?” una voce inconfondibile la bloccò, facendola voltare.
“Non è assolutamente questo il momento, devi andartene!” la rimproverò senza aspettare la sua risposta, quando ancora la ragazza non lo aveva neppure guardato in volto.
Finalmente, dopo due giorni, lo vide. I vestiti erano stropicciati e impolverati, il cappotto di tessuto completamente coperto di cenere e foglie secche, i vestiti impregnati dall’odore dell’alcol.
Lo fissò negli occhi e vi colse preoccupazione. Perché mai Shinichi era così turbato? E cosa ci faceva, in quelle condizioni, alle due di notte passate? Soltanto allora si capacitò dell’uomo al suo fianco: un tizio alto, con i lunghi capelli scuri arruffati sotto un berretto nero, gli occhi verdi che la scrutavano assottigliati, esaminandola. Con un braccio circondava le spalle dell’investigatore, più basso di lui, che lo sorreggeva con una mano.
Sebbene la situazione fosse chiaramente delicata, a Ran parve di leggere una nota di divertimento negli occhi di quell’uomo.
Sei qui per lui, di nuovo quel grido…
Deglutì, parlando nonostante l’imbarazzo che le divampava nel cuore in misura esponenziale.
“Shinichi, io…”
Udendolo apostrofare in quel modo, la luce divertita negli occhi di quel tipo s’accentuò, e un leggero sorrisetto andò a incrinargli il volto, prima truce.
-Truce?- Ran esitò un momento, colta dal dubbio di aver già visto altrove, prima di allora, quell’uomo dall’aspetto altero.
“Ran, davvero, non è il momento, è pericoloso per te stare qui.”
“Che cosa succede?”
“Non posso dirtelo.”
“Sei nei guai?”
“Sono un investigatore, svolgo il mio lavoro.”
Quei primi momenti di esitazione che avevano sorpreso Shinichi al pari di un ragazzetto del liceo rapidamente sparirono sotto il peso della responsabilità morale cui si ricordò d’essere investito.
Incredibile come quella ragazza lo facesse vacillare! Con enorme stupore e un pizzico di fastidio, Shinichi Kudo si rese conto che le sue mani tremavano, e non certo per il peso dell’uomo che sorreggeva, ma per l’emozione di trovarsela sorprendentemente lì davanti, a pochi passi da lui. Di fronte casa sua, di nuovo.
Deglutì e ignorò quel nodo piacevole alla bocca dello stomaco, ostentando un atteggiamento freddo e professionale.
“Devi andartene, Ran.”
Riprese a camminare portando l’altro a braccio, ma entrambi si muovevano con evidente difficoltà, stanchi dalla distanza già percorsa.
In un baleno, la ragazza fu loro di fianco.
“Vi aiuto io.” Asserì, offrendo la propria spalla come supporto all’altro braccio dell’uomo.
Shinichi sbuffò e quello, incredibilmente, ridacchiò. Accettato l’aiuto della giovane, bofonchiò:
“Tu devi essere il motivo per il quale Shinichi-san mi risponde sempre in ritardo…”
“Ti ho già detto che avevo un contrattempo.”
“Sto appunto alludendo al fatto che sia lei, il contrattempo.” *
Ran gli lanciò uno sguardo, ed ebbe l’impressione fosse impercettibilmente arrossito sulle gote, oltre quella corazza d’indifferenza di cui continuamente s’ammantava. Stranamente soddisfatta, aiutò i due a varcare la soglia del giardino, e poi di casa.
Le luci del soggiorno le permisero di meglio scrutare quel singolare accompagnatore dell’investigatore: la camicia era sporca più di quella del ragazzo e il volto ferito da alcuni lividi piuttosto evidenti. Una chiazza scura sulla parte destra della fonte, come avesse sbattuto il capo da qualche parte di appuntito; e un’altra dalla tonalità leggermente più chiara, quindi procurata più di recente, sul mento. Anche lui puzzava di alcool.
Si chiese cosa fosse mai potuto essere successo. Lo fissò per un po’, dubbiosa: improvvisamente, ricordò.
-È l’uomo che ho incontrato questo pomeriggio alla centrale di polizia! Il sospettato dell’omicidio su cui indagano Shinichi e papà…-
“Prendici un secchio con dell’acqua e un asciugamano, per favore. Grazie, Ran.”
Perché erano ridotti così? E perché Shinichi conosceva quell’uomo? Qualche giorno prima, ai tempi del primo interrogatorio di quel tipo, Ran ricordava chiaramente come Kogoro e Shinichi avessero parlato di lui * e di come Shinichi non avesse minimamente accennato al fatto di conoscerlo, né addirittura avere un rapporto tale da ospitarlo in casa sua dopo quella che i segni parevano additare come una lotta riuscita male. Perché aveva taciuto?
-Perché nascondono qualcosa, ovviamente.-
“Hai paura?” si ritrovò Shinichi alle spalle, e sussultò. L’asciugamano che stava bagnando sotto il getto del lavandino le scivolò tra le dita, schizzandola in viso.
“Curioso, è la stessa domanda che mi ha fatto il tuo amico questo pomeriggio.”
L’espressione interrogativa di Shinichi la indusse a continuare.
“L’ho incontrato questo pomeriggio, alla centrale di polizia. Papà mi ha detto che è uno dei sospettati per l’omicidio di quella ragazza, che il suo numero di telefono è in assoluto il più chiamato da quanto compare nei tabulati del secondo telefono che le hanno trovato addosso. Che non ha un alibi, che nega ogni rapporto con lei. Per questo lo hanno convocato una seconda volta.”
“E cosa gli hai risposto?”
Rimase sorpresa da quella replica impudente. Il detective glissava su tutta la questione, non le spiegava nulla. Un ruggito d’orgoglio la fece parlare, esattamente come qualche ora prima:
“Non ho paura. Sto solo riflettendo.”
“Rifletti un po’ troppo.”
“Da che pulpito!”
Le loro mani s’intrecciarono sotto il flusso del rubinetto, per strizzare l’asciugamano raccolto dal fondo del lavabo.
“Perché sei qui?”
“Perché volevo vederti.”
Ancora una volta, le parve arrossisse mentre abbassava lo sguardo ai suoi piedi.
“Mi dispiace. Come vedi, ho avuto un problema da gestire.”
“Voglio solo sapere se ti sei pentito…”
“Affatto.”
“Cosa gli stai facendo?”
“Lo sto medicando. Ma forse, questo riuscirà meglio a te. Lo faresti per me, Ran?”
“Dimmi cosa gli è successo.”
“No.”
“È un tuo amico?”
Annuì.
“Non è colpevole, Ran. Te lo giuro, non ha fatto nulla di male. Tutt’altro.” Parlò, e i suoi occhi divennero improvvisamente molto tristi.
La giovane karateka, avvezza ai medicamenti successivi agli incontri di karate, fu una valida infermiera per risanare le ferite, non troppo gravi, di quell’uomo sdraiato sul divano del soggiorno di villa Kudo. Shinichi e lui nel frattempo, si erano scambiati qualche parola di cui lei non aveva saputo cogliere il significato.
“Vi lascio da soli.” Gli sorrise, facendo per andarsene.
“Aspetta!” la richiamò il ragazzo e il suo cuore prese nuovamente a palpitare.
“Sì?”
“Passa dall’uscita sul retro. Per questa sera, è meglio.”
“Oh…” delusa da quel misero avvertimento, fece un cenno di saluto all’uomo che però teneva gli occhi chiusi –ma dubitava fortemente si fosse addormentato- e si recò in cucina, da dove sarebbe uscita.
Una mano le si posò sulle spalle.
“Scusami se non ti accompagno. Mi si è presentato un problema, e debbo risolverlo urgentemente.” Shinichi l’aveva raggiunta e conversava con lei a bassa voce, forse perché credeva che il suo ospite dormisse, o forse perché non voleva farsi sentire.
“Mi fido di te. Se dici che è innocente, allora ti credo.”
Ed era vero. Qualunque cosa capitasse, la sua fiducia nei confronti del giovane investigatore prodigio era incrollabile. Quello slancio incondizionato la faceva sentire allo stesso tempo potente e protetta.
“Non dirlo a nessuno, Ran. Non dire di averlo visto, di averlo medicato. Non dire assolutamente che io e lui ci conosciamo. Questo è un grande segreto, ed è di vitale importanza che non si sappia.”
Avrebbe voluto chiederne il motivo, ma l’espressione tanto seria quanto tesa del ragazzo la fece desistere.
“Non lo dirò a nessuno.”
Shinichi Kudo era, per prima cosa, il più grande detective che lei avesse mai incontrato. Professionalmente parlando –e probabilmente, non solo- avrebbe fatto qualunque cosa le avesse chiesto. E quella richiesta non faceva eccezione.
“Ran?”
“Quello che vuoi.”
“Posso…chiederti, se vuoi aspettare?”
“Aspettare che cosa?”
“Lo sai.”
“Che intendi?”
“Lo hai capito benissimo, stupida.” La rimbeccò, per la terza volta rosso in volto nonostante tentasse di celare l’imbarazzo con il sarcasmo. E stavolta Ran fu sicura del rossore che gli imporporava il viso. Rise.
 “Non lo so. Ho tanti ammiratori…”
“Li farò arrestare tutti.”
“Mio padre non c’è ancora riuscito.”
“Puoi scommetterci che ci riuscirò io.”
“E io cosa dovrei fare alle tue ammiratrici?”
“Nulla, perché io lo sto chiedendo a te, non a loro.”
“E cosa dovrei aspettare, esattamente?”
“Tu cosa vuoi aspettare, esattamente?” rispose tanto allusivo quanto lo era stata lei, sorridendole malizioso.
Non replicò, mordendosi un labbro divertita.
Il giovane si sporse verso di lei, che chiuse subito gli occhi. Il caldo tocco delle sue labbra, però, giunse sulla guancia della ragazza, che comunque trasalì. Strinse le braccia attorno al collo del detective, rabbrividendo quando lui le sussurrò: “Grazie, Ran.”
Dopo qualche secondo, tuttavia, aggiunse maliziosamente: “Pensa a cosa vuoi io ti faccia, per sdebitarmi.”
Ma la karateka colse l’occasione, e si propose di rivolgergli una domanda in termini di massima dolcezza. Tuttavia, quando parlò, la voce uscì timida e impacciata:
“Puoi mandarmi un messaggio, qualche volta?”
Shinichi sorrise.
Lanciò uno sguardo oltre la porta del salotto, scorgendo il suo amico ancora sdraiato sul divano con gli occhi chiusi.
“Dai, ti accompagno a casa.”
 
§°§
 
Dai finestrini oscurati della Toyota chiara, la donna poggiata al sedile del guidatore sbuffò fuori dei cerchi di fumo che s’addensarono al contatto con l’aria fredda della notte.
Seduta con tanta eleganza, quasi come si trovasse a posare per il trailer d’un film o la copertina di un giornale anziché a bordo di una macchina in totale solitudine, riusciva a passare inosservata come fosse assente.
Pur parcheggiata diversi metri in lontananza rispetto all’abitazione del famoso investigatore, distingueva molto bene l’ingresso secondario, sul retro del giardino della villa. Vide Shinichi e Ran uscire, l’uno a fianco dell’altro, conversando di qualcosa che li aveva portati a punzecchiarsi vivacemente.
Lei non sembra una poliziotta, aveva pensato la donna, in attesa di un qualche evento eccezionale che però non si verificò. Attese fino al ritorno del ragazzo, circa dieci minuti dopo. Si raccolse i capelli biondi in uno chignon alto sul capo, e avviò il motore dell’auto.
 
§°§
 
Osservò il suo riflesso nello specchio mentre si asciugava il volto, china sul lavandino del bagno. Sorrideva tra sé e sé ripensando al momento in cui le sue dita si erano intrecciate con quelle del giovane investigatore, sotto il flusso gelido dell’acqua corrente, qualche ora prima. Aveva percepito soltanto lei la medesima…malizia, in quel momento? Era stata l’unica a provare una forte scossa e a desiderare di poter bloccare il flusso del tempo sotto lo scorrere dell’acqua? E Shinichi sapeva quello che aveva fatto, si era reso conto di quel movimento che per lei era significato così tanto, oppure la ragazza aveva vissuto un’esperienza totalmente individuale dettata dalla contingenza del momento?
Decise di non curarsene, e di godere semplicemente di quel che era successo, ignorando finché possibile qualunque ragionamento le suggerisse la sua mente iper-attiva, secondo la pessima abitudine di pensare troppo e meditare ancora di più del necessario.
Osservò nello specchio il suo volto raggiante.
Si diede della stupida, a gioire come una bambinetta per qualcosa che forse era accaduto soltanto nella sua testa.
Eppure…
Posso chiederti…se vuoi aspettare?
Iniziando a strofinarsi lo spazzolino sui denti, si sentì entusiasta, forte, elettrizzata.
Doveva distrarsi. Doveva cacciare via quell’eccitazione dal corpo, altrimenti non sarebbe mai riuscita a prendere sonno –e se suo padre l’avesse colta, poi, alle tre del mattino a lavarsi i denti!
Sospirò, mentre si rimboccava le coperte e, al buio, tentava di divagare la mente.
Ripensò allora a quel tipo sdraiato sul sofà del ragazzo, quell’espressione del volto divertita talmente diversa rispetto all’atteggiamento assunto ore prima di fronte la questura.
 
 
Con lo sguardo chino e la mente lontana, Ran percorreva velocemente il marciapiede alberato che l’avrebbe condotta all’ingresso principale, le chiavi di casa già strette nella mano destra per poterle rapidamente cedere a suo padre e poi correre da Sonoko. Come auspicava che l’amica l’aiutasse a rasserenarsi! Nondimeno, la speranza divideva un posto del suo cuore con la disillusione: ciò che Shinichi rompeva, soltanto Shinichi poteva aggiustare.
Se i suoi pensieri erano naufragati a causa sua, potevano ritrovare un approdo sicuro soltanto per merito suo. Insomma, una strada senza uscita, per la sua psiche innamorata.
Convinta di aver rovinato per sempre il rapporto con quel ragazzo per cui aveva provato un dolcissimo sentimento ancora prima di conoscerlo davvero, non riuscì a trattenere le prime lacrime, che iniziarono a scorrerle in viso copiosamente.
Quasi non si accorse di una sagoma poco distante da lei, sin quando quasi non si incrociarono lungo il breve sentiero. Alzò casualmente gli occhi, e si ritrovò quelli verdi dell’uomo, severi, puntati su di lei.
“Stai piangendo, ragazzina?”
Batté le palpebre un paio di volte, stupita che lui si stesse rivolgendo a lei, una sconosciuta, con tono tanto algido.
“Sei una di quelle ragazzine che piangono sempre?”
Inspirò, passandosi una mano sulla frangia per liberarsi la fronte mentre il vento le scompigliava le punte dei capelli.
“E se fosse?”
“Perché piangi?” proseguì quello.
Oramai erano entrambi fermi, l’uno di fronte all’altro.
“Hai paura?”
“Non ho paura. Sto solo riflettendo.”
L’uomo dai capelli lunghi estrasse una sigaretta e la mise tra i denti.
“E allora perché piangi?”
Accese la sigaretta mentre Ran gli rispondeva, piccata: “Cosa importa?”
“Mi ricordi una ragazza. Era una stupida che piangeva di nascosto e non si confidava mai con gli altri. Era veramente una sciocca.” *
Non attese la risposta, e dopo averla superata se ne andò, il passo veloce e le mani nelle tasche dei pantaloni neri.
 
 
Prima di poter trarre qualche indizio, tuttavia, era già scivolata nel sonno con il dolce ricordo delle ore appena trascorse e una sensazione di completa piacevolezza a scaldarle il volto.
 
§°§
 
Shinichi Kudo percorreva a grande falcate la distanza che copriva l’agenzia investigativa Mouri dalla sua villa a Beika. Lo aveva lasciato da solo e aveva uno strano presentimento. La telefonata che avevano avuto due giorni prima lo aveva già messo sul chi va là, sia perché aveva dedotto da sé l’alone di pericolo sempre più spesso che si stava stringendo attorno all’amico, sia perché l’uomo stesso gli aveva parlato con tono di voce che doveva sembrare normale, ma che il ragazzo aveva saputo riconoscere come decisamente preoccupato.
“Li incontrerò nel vecchio magazzino in disuso di Haido, all’una del mattino. L’ora in cui quei due terminano le loro operazioni, troppo tardi per vecchi incarichi ma troppo presto per i nuovi.”
E poi la richiesta.
“Verrai a controllare la situazione, Shinichi?”
 Una domanda che non gli aveva mai posto prima di allora, sebbene lui si fosse offerto spontaneamente di farlo molte altre volte in passato in caso di circostanze di quel tipo.
E se gliel’aveva chiesto così esplicitamente, temeva il peggio. Entrambi sapevano cosa sarebbe potuto accadere, quella notte, e nessuno di loro si era tirato indietro.
“Aspetta fuori, non farti assolutamente vedere. Se noti qualcuno di loro monitorare l’edificio dall’esterno, vattene. Non è il caso che tu ti esponga in questo modo, proprio adesso. Se invece sarai solo lì fuori, non fare nulla. Te lo ripeto, aspetta. Aspetta finché non te lo dico, mi farò vivo io. Non devi entrare. Hai capito, Shinichi? Non entrare.”
Shinichi Kudo non aveva mai accettato ordini nella sua carriera, sin da quando aveva risolto il suo primo caso a bordo di un aereo diretto a New York, a 16 anni *. E lui questo lo sapeva benissimo: era anche per questo che era rimasto tanto colpito dall’investigatore, perciò non gli aveva mai dato alcun comando. D’altronde, non era mai stato necessario: le loro menti procedevano alla medesima velocità, le idee si compenetravano per risolversi in un’unica strategia, sempre.
Per questa ragione Shinichi aveva compreso, non appena ebbe udito le indicazioni dell’amico, che questi non gli stava fornendo ordini, ma raccomandazioni: lui era preoccupato che qualcosa andasse storto. Ed esattamente per questo, di guardia a quel vecchio magazzino sin dalle undici della sera precedente, non aveva esitato neppure un momento quando la finestra era andata in pezzi, segnalando che qualcosa decisamente stesse andando storto.
Entrò dall’ingresso di servizio da cui Ran e lui erano usciti qualche minuto prima, e si affrettò tanto da non notare la Toyota chiara distante diversi metri dalla casa. Corse nel salone, che scoprì vuoto. Lo cercò in ogni stanza della casa, chiamandolo a gran voce per nome.
Solamente quando entrò in bagno, trovò un biglietto poggiato sulla mensola dello specchio.
L’armadietto delle medicine contava delle aspirine di meno, e Shinichi lesse ad alta voce:
“Non esporti troppo. Se qualcosa va storto – Shinichi imprecò -almeno uno di noi due deve proseguire l’indagine, e io non mi fido di nessun’altro.”
Quella notte il detective migliore del Giappone non riuscì a prendere sonno. Gli eventi da poco capitati si ripresentavano regolarmente nella testa nel momento in cui chiudeva gli occhi per assopirsi, sempre più vividi, sempre più reali. Anche ciò che non aveva visto direttamente, ma che lungo il tragitto di ritorno gli era stato raccontato dall’amico, gli parve tanto reale da poterlo percepire concretamente, quasi come se lo avesse vissuto lui stesso.
 
 
Non appena entrò in quella vecchia sala, probabilmente in passato piena di scatoloni e paccottiglia da trasportare da un capo all’altro della metropoli, l’uomo totalmente vestito di nero che l’aveva accolto all’ingresso dell’edificio arrestò il passo.
Lui fece altrettanto, scoccandogli uno sguardo che non poté incontrare quello dell’altro, celato dagli spessi occhiali dalla montatura scura che indossava sempre. Non ricordava di averlo visto senza neppure una volta. Basso e muscoloso, quell’uomo non brillava per l’intelligenza, ma per i modi rozzi e spiccioli: poco incline al ragionamento, abitualmente pronto all’attacco.
Soffermò allora la sua attenzione sul tipo di fronte a lui, il quale, chinato su una scatola molto ampia, si ripuliva le mani nude.
Si ricacciò i lunghi capelli dietro le spalle mentre osservava l’altro muoversi con una calma imperturbabile, come se non li avesse sentiti arrivare e credesse ancora di essere solo. Ma era una pantomima: ci avrebbe scommesso, il suo udito finissimo quale quello di un predatore l’aveva informato persino dei loro passi sulle scale.
“Immagino tu sappia perché sei qui.” Proferì dopo aver indossato i guanti neri. Lanciò una eloquente occhiata all’altro, più tarchiato, che afferrò al volo il comando e andò a chiudere la scatola con una velocità che gli mise i brividi.
Lo vide buttare a terra il panno con cui si era ripulito le mani, e lo scorse impregnato di sangue. Ma lui non era ferito, rifletté.
I capelli, lunghi quanto i suoi, gli ricadevano lungo le spalle, e il loro colore argenteo donava a tutta la sua corporatura un tocco… maligno. Tale colore, che su altri avrebbe prodotto un effetto delicato, su quell’uomo non produceva altro che connotazione spettrale, in virtù del forte contrasto tra gli abiti, completamente tinti di nero, e lo sguardo di ghiaccio.
“Cosa diavolo vuoi, Gin?”
Finalmente il biondo si voltò, e lo fissò negli occhi.
“L’operazione è fallita. Ma questo già lo sai, non è vero?”
“Ti avevo detto di agire con cautela. La tua impulsività ci ha rovinati. Come avevo previsto, ci hai scavato la fossa tu stesso.”
“Un tizio dalla faccia da scemo ha avvisato Whisky*, che era, camuffato da vecchio, a guardia del posto. Gli si è avvicinato e gli ha detto d’andarsene, che stava per succedere qualcosa. Che era in pericolo.” Calcò la voce sull’ultima frase, accendendosi una sigaretta.
“E chi era?” domandò lui, altrettanto imperturbabile.
“Perché non me lo dici tu, Rye?”
“Come credi che possa saperlo?”
“Ti avevo chiesto, inoltre, di occuparti di quella ragazzina. Non mi pare che tu abbia fatto ancora nulla. * Ho dovuto farlo io.”
“Con la tua avventatezza da barbaro non arriveremo mai a nulla, Gin.”
“Rifletti troppo. A forza di riflettere rischi di rimanere imbrigliato e impiccarti da solo. Tu non sei d’accordo con me, Vodka?”
L’uomo con gli occhiali da sole, al fianco di Rye, annuì. Poi, come quella frase fosse un segnale precedentemente stabilito, assestò un calcio alle ginocchia di Rye, facendolo cadere carponi. Non si aspettava quel colpo, perciò non riuscì a difendersi. Ma, quando si ritrovò a terra, comprese che quell’incontro cui Gin e Vodka l’avevano chiamato non si trattava di un rendez vous galante, e fece per muovere la mano alla fondina della sua pistola.
“Non così in fretta, amico.” Percepì la fredda canna dell’arma di Vodka sotto il mento, e alzò lo sguardo a Gin. Questi s’era avvicinato a lui, e lo squadrava dall’alto con malevola fierezza.
“Sei un traditore. E tu lo sai cosa facciamo ai traditori.”
“Tu sei un pazzo.” Gli disse pacato, quasi stessero conversando del tempo o delle stagioni. Non lasciando trapelare il minimo cenno di paura, fece indispettire Gin che, solitamente, manteneva il pieno controllo di sé; ma quell’uomo, quel maledetto bastardo di Rye, quante volte gli aveva mandato il sangue al cervello! E più di tutto, quella calma con cui sembrava affrontare persino l’assassinio di un altro membro dell’Organizzazione, lo mandava in bestia.
Rye era fiero e coraggioso, era arrogante e borioso. Gli puntò la pistola alla tempia, liberando Vodka dall’incombenza di tenerlo a tiro e questi si allontanò di qualche metro, oltre le spalle dell’uomo, che non poté più seguirne le mosse. Di fronte a lui, soltanto il biondo e la sua arma.
“Sei stato il mio braccio destro per un po’. Ed ho capito questo, su di te. O sei uno sporco traditore, o sei uno schifoso coniglio. Oppure sei un puttaniere che ha goduto a farsi quella puttana e poi s’è tirato indietro.”
Vodka poggiò una bacinella d’acqua tra Gin e Rye, tornando al fianco di quest’ultimo.
Rye capì.
“Dunque, quale delle tre?” domandò Gin.
Lui non rispose, continuando a fissarlo senza esitare neppure per il breve momento di un battito di ciglio.
Il biondo gli sorrise. Proprio quando Rye vide quello abbassare la pistola, sentì la mano di Vodka afferrarlo per i capelli e fargli precipitare la testa nel secchio colmo di acqua gelida resa pruriginosa dall’alcool mescolato al suo interno.
Rye non oppose resistenza, trattenendo il respiro.
Se lo torturavano, non sapevano bene cosa pensare. Se lo avessero saputo, lo avrebbero ucciso. C’era ancora un’alta probabilità di uscirne vivo.
Questo sillogismo lo aiutò a mantenere la calma, in apnea dentro la bacinella.
Nel momento in cui Vodka lo fece riemergere, inspirò l’aria che gli bruciò i polmoni: reazione al freddo e alla percentuale alcolica dell’acqua in ammollo.
“Cosa sei, Rye?” proseguì Gin, che nel frattempo aveva preso una sedia su cui aveva preso posto a gambe larghe, con le mani appoggiate in cima allo schienale.
Per quanto dannato tempo lo avevano tenuto là sotto?
“Sei una spia, è vero? Per chi lavori? Cosa sanno di noi?”
Per tutta risposta, con tono di voce impassibile e occhi sollevati, quello proferì: “Sei un pazzo impulsivo, Gin.”
Al segnale convenuto, di nuovo Vodka lo spinse nell’acqua, tenendogli la testa sotto la superficie ghiacciata. Stavolta lo tennero per più tempo, e faticò a mantenere il respiro.
Lo sollevarono e il biondo rincarò: “Dimmi chi sei.”
“Spera che io sia un traditore, Gin. Perché dopo questo scherzetto, se sono uno dei vostri, come io sono, t’assicuro, t’ammazzerò con le mie mani.” Ancora inalterabile, Rye sembrava non provare alcuna emozione.
Di nuovo giù nell’acqua, la faccia sbattuta violentemente, ebbe la medesima sensazione di uno schiaffo tirato a mano aperta in pieno volto, e le orecchie iniziarono a bruciare.
“Cosa ti ha detto quella puttana?
Il rancore serbato per giorni deflagrò: con uno scatto felino si liberò dalla presa di Vodka e fu sopra a Gin, pronto a colpirlo. Udì però dietro di lui un fruscio sempre più vicino, e capì che l’altro si stava affrettando a recuperare la presa su di lui. Scorse nel riflesso dell’acqua la pistola impugnata al contrario alzata oltre la sua testa, e quando la sentì fendere l’aria si scansò rapidamente, cosicché il colpo di Vodka andasse a colpire Gin in pieno volto. Il biondo cadde a terra, e Rye si girò.
“Bastardo…” ringhiò contro di lui, e se non avesse indossato gli occhiali il suo sguardo avrebbe tradito la rabbia cieca che in quel frangente lo animava. Senza perdere tempo a prendere la mira sparò un colpo, ma l’uomo dai lunghi capelli neri riuscì a evitarlo gettandosi a terra, colpendo però con la testa il bordo del secchio ancora pieno. Cadde per terra rovesciando tutta l’acqua, proprio mentre il proiettile viaggiava a velocità della luce oltre il corpo di Rye, andando a schiantarsi contro il vetro della finestra alle loro spalle, mandandolo in frantumi. Pronto a esplodere il secondo colpo, Vodka perse qualche secondo a mirare adeguatamente, e gli fu fatale: con un gesto rabbioso, Rye afferrò il secchio oramai vuoto e lo calò con violenza sulla testa dell’uomo, tramortendolo.
Rimase immobile per parecchio tempo, aspettandosi da un momento all’altro che uno dei due si rialzasse e lo uccidesse.
Per fortuna, questo non accadde: Gin e Vodka erano svenuti, privi di conoscenza, riversi a terra nel polvericcio di quell’edificio in rovina e raccapricciante.

Tirò un lungo sospiro di sollievo, accasciandosi a terra lui stesso: si toccò con una mano la testa, che gli pulsava impetuosamente per il colpo contro la bacinella. Non appena entrò in contatto con la ferita, dal cranio partirono delle fitte che gli trafissero violentemente tutto il corpo, mozzandogli il respiro.
Portò la mano insanguinata di fronte agli occhi, e vide che l’immagine non gli appariva troppo nitida. Chiuse gli occhi, cercando di riprendere fiato, ma non ci riuscì.
Improvvisamente, udì dei passi. Passi veloci di qualcuno che correva su per le scale, e che da lì a pochi secondi l’avrebbe raggiunto.
Disteso a terra, Rye non riusciva a muoversi. Troppo dolore, poche energie.
“Maledizione, non così…” imprecò a denti stretti, respirando affannosamente.
Con le ultime forze rimaste, si issò sulle ginocchia, provando un dolore lancinante.
I passi erano sempre più vicini, sempre più rapidi.
Reggendosi la testa con le mani nel vano tentativo di lenire il dolore, Rye imbracciò la pistola di Gin e la sollevò a malapena all’altezza del torace. Mosse qualche passo verso la porta, desiderando nascondersi dietro lo stipite per coglierlo alle spalle. Ma una fitta acuta lo travolse, e le gambe gli cedettero proprio nel momento in cui Shinichi Kudo faceva il suo ingresso, affannato, nel vecchio stanzone.
Rye cadde sulle ginocchia e il detective lo afferrò per le spalle, aiutandolo a raggiungere il pavimento con minore impeto.
“Akai-san!” lo apostrofò, e sentendosi chiamare in quel modo l’agente dell’FBI tornò finalmente a respirare. Sospirò, lasciandosi cadere.
“Non ti affaticare, Akai-san. Ti aiuto io.”
Privo di ogni energia persino per sollevare lo sguardo, Shuichi s’abbandonò alle mani robuste dell’amico, sul punto di perdere conoscenza. Non disse nulla, e aprì la mano da cui scivolò via la beretta di Gin.
“Akai-san!” lo chiamò di nuovo Shinichi, cercando di mantenerlo sveglio.
“Shuichi!” fu l’ultimo suono che l’agente speciale udì, prima di svenire.
 
 
 
 
§°§ §°§ §°§
 
 
 
[1] Festa delle bambole o Festa delle bambine, è una ricorrenza giapponese che cade il 3 marzo, cioè il terzo giorno del terzo mese. In questa occasione sono preparate delle piattaforme con un tappeto rosso, sulle quali è esposto un insieme di bambole ornamentali che raffigurano l’imperatore, l'imperatrice, gli attendenti e i musicisti della corte imperiale con vestiti di corte del periodo Heian.
[2] Ho italianizzato la scena adottando posate europee al posto delle bacchette.
[3] Sono fissata con la poesia. Ho voluto inserire qualcosa di Leopardi. Perdonatemi!
[4] Ho preso ad esempio e incastonato nella storia gli episodi in questione, Il corso di ceramica.
[5] È successo nel capitolo sei, Nubi all’orizzonte:
 
“Puoi parlare?” fu l’esordio di quella telefonata segreta.
“Sì, scusami. Io ero…impegnato.” Shinichi sorrise tra sé e sé, rifugiandosi dietro l’angolo del complesso di edifici a cui apparteneva anche l’appartamento dei Mouri. Non appena aveva sentito il telefono vibrare nella tasca interna della giacca, aveva pensato di dover correre via per rispondere; ma quel bacio l’aveva travolto, e lui aveva preferito ignorare, per qualche istante, il lavoro, le preoccupazioni, il mondo esterno. Che il suo telefonino stesse suonando non glien’era importato più molto.
“Ascoltami, Hidemi…”
“Lo so, è venuta da me. Ieri.” Aggiunse, repentino. Sollevò gli occhi; il cielo cominciava a farsi scuro, delle nubi si condensavano oltre i raggi, già deboli, del sole.
“Mi ha ragguagliato sulla situazione.”
“Molto bene, così risparmieremo tempo.”
“Come vanno le cose?” si affrettò a chiedergli prima che riagganciasse.
“Mi hai appena detto che Hidemi…!”
“A te, intendo. Come ti vanno le cose?”

 
[6] Nel capitolo sette, Fervore.
[7] Se questo scambio di battute vi suona familiare, abbiate fede e proseguite nella lettura. Presto (cioè, “presto”…) capirete il perché.
[8]  Dagli episodi Il Primo Caso di Shinichi.
[9] Non esiste nel manga un personaggio con questo nome, non faccio riferimento a nessuno di conosciuto.
[10] Alcune battute di questo dialogo si riferiscono al precedente incontro tra Gin e Rye, nel capitolo settimo:
 
“Sei impazzito? Perché l’hai fatto, eh?”  gli ringhiò addosso l’uomo dai capelli corti, irrompendo nella sua stanza.
L’uomo dai capelli lunghi non lo guardò neppure in faccia; afferrò una sigaretta dal pacchetto poggiato di fianco allo schermo del computer, e se la ficcò in bocca.
“Non io, ma quei due.”
“Su tuo ordine.”
“Tu hai procurato un gran caos, e noi abbiamo provato a risolverti il problema.”
“Il gran caos lo avete fatto voi: avete sparato addosso a un investigatore! Cosa credi che faranno adesso, loro? Indagheranno, risponderanno all’attacco.”
“Le cose sono due.” Si accese la sigaretta, inspirando il tabacco “O sei un gran codardo, e temi la polizia; oppure vuoi tenere fuori quel detective dal mirino, per chissà quale motivo. In entrambi i casi, non mi sta bene. E non sta bene neanche a Lui. Senza considerare il fatto, che abbiamo ancora la questione di quella ragazzina in ballo.”
“Bisogna agire con cautela, tu sei troppo impulsivo. Non ragioni, non capisci che così ci stiamo scavando la fossa da soli.”
“Dimostrami di non essere un codardo. Va’ da quella ragazzina, e rimettila in riga. Non importa come: viva o morta, non deve più starci tra i piedi.”


§  °     §


Note dell’autrice: Salve a tutti! In primo luogo, torno a ringraziare di vero cuore tutti coloro che hanno letto, e ancora di più chi ha recensito lo scorso capitolo. Dopo aver atteso così tanto per ricominciare a pubblicare gli aggiornamenti, ero convinta che nessuno avrebbe più avuto la voglia di leggere la storia. Trovare le recensioni è stata una meravigliosa, splendida sorpresa. Quindi, ancora: grazie! Grazie in particolar modo a: aoko_90, _Rob_, mikietta, mangakagirl, Cia_, Laix, Shin17, SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate.
E come sempre il grazie più affettuoso va a _Rob_, carissima collega e complice che mi sprona sempre e mi incoraggia. Grazie cara!
 
In merito al capitolo appena terminato: dalle recensioni lette, ho pensato fosse il momento di dichiarare esplicitamente l’identità dei loschi figuri in nero di tutti i capitoli precedenti: i Mib! Anche perché siete state così brave da avermi scoperto, quindi non aveva più senso lasciare in piedi questo mistero: complimenti! =D E inoltre, ecco entrare in scena il bravissimo e fuori classe…Shuichi Akai! Spero davvero non sia risultato troppo OOC. Gosho l’ha talmente, diciamo così, variato, ultimamente, che non sono sicura di essere riuscita a inquadrare per bene il suo carattere.
 
Da questo capitolo in poi, la situazione entra un po’ più nel vivo dell’indagine e alcuni nodi disseminati qua e là vengono al pettine – il progetto portante, sempre relativamente all’inchiesta poliziesca, di questa fanfiction si rivelerà molto presto, e mi auguro davvero di non aver preso una strada troppo OOC o, peggio ancora, banale, su cui costruire tutta la trama. Era un’idea che, prima di cominciare a scrivere questa fic (anni e anni e anni e anni e anni fa…) mi ronzava in mente da parecchio e avevo voluto mettere per iscritto, ma ora come ora, a distanza di tanto tempo, mi sembra forse una scelta azzardata. Vedremo se vi piacerà oppure no.
Nei prossimi capitoli, se avrete la pazienza di aspettare i miei aggiornamenti (sigh!) capirete di cosa sto parlando e a quale struttura portante sto facendo riferimento. Per il momento, vi basti sapere che da brava vigliacca sto mettendo le mani avanti!
Grazie di cuore a chi sarà arrivato fin qui, e a chi recensirà la storia.

Un abbraccio fortissimo dalla vostra ritardataria e disordinata Cavy :*
   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Detective Conan / Vai alla pagina dell'autore: Il Cavaliere Nero