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Autore: tixit    22/07/2017    4 recensioni
Una ragazzina torna a casa e cerca di adeguarsi alla vita in famiglia.
Breve storia minore su personaggi minori che non è diventata originale.
Genere: Commedia, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sorelle Jarjeyes, Victor Clemente Girodelle
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Sigyn la rossa'
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Si fermano gli orologi

Erano in giro per la campagna inseguendo la luce che ogni giorno si allungava un pochino di più - sapevano tutto sull’argomento, e sulle longitudini e le latitudini, o almeno credevano di saperlo con tutta la supponenza di un’infanzia che iniziava placidamente a sfumare.

La giornata se ne era andata in affondi e traduzioni.
Tytire tu patulae recubans sub tegmine fagi - chiusi nello studio, guardati a vista dal precettore, antico quasi quanto un aoristo passivo, avevano cercato le giuste parole per un pastorello che aveva il tempo di starsene sdraiato sotto una quercia pensando ai suoi casi d'amore.
Un compito difficile - l’amore, per loro due, era un'idea astratta rispetto alla guerra - da grandi volevano essere dei soldati, per il momento erano stati briganti inglesi, pirati, e subito dopo eroi. Ma senza principesse da salvare.

Faceva caldo, ma non così caldo per un salto allo stagno - laghetto! lei ci era quasi affogata - e faceva freddo, ma non così freddo da aver voglia di rientrare a casa: era il tempo giusto per un acquazzone, quel tanto che giustificasse una corsa pazza sotto la pioggia, e lavasse via il caldo appiccicoso e la noia.
Nuvole, purtroppo, non se ne vedevano, solo in lontananza la polvere sembrava rombare grigia - Oscar scrutò la strada, incuriosita, socchiudendo gli occhi blu zaffiro contro il sole calante, poi fece cenno ad André di fermarsi: qualcuno stava arrivando.

Smontarono e pigri si sdraiarono nell’erba, puntellandosi sui gomiti e sfilando gli stivali, incuranti delle calze bianche di seta che si sarebbero - forse - macchiate di verde. André tirò fuori una mela, una delle ultime delle stagione, poi, in un paio di giorni, quelle che avanzavano sarebbe diventate misteriosamente marmellata.

“Vuoi fare una scommessa? Parigi o Versailles?” la voce del ragazzo dai capelli scuri era allegra, lo scrocchiare dei morsi avido.

“Versailles.” lo disse non del tutto convinta mentre stiracchiava le gambe lunghe da merlo.

“Andata!” ribatté André.

Lei gli rubò la mela e lui la lasciò fare con un sorriso appena accennato, accarezzandola protettivo con lo sguardo.

Avevano tutto il tempo del mondo.


 

Se la vita fosse una bilancia sarebbe sbilenca o truccata.
Guardò, sbattendo gli occhi, i bauli e le scatole impacchettate razionalmente che sobbalzavano oltre il finestrino anteriore: eccole là tutte le briciole dei suoi biscotti, del tempo passato a copiare lettere in bella, a leggere ad alta voce e a studiare. Gli amati resti delle punizioni tediose in cucina, dell'Asciutta che le insegnava tutto quello che il Generale disprezzava, del Nonno che completava con quello che il Generale trovava irritante, buon ultimi lo zio Jean-Claude per l’incomprensibile e lo zio Antoine-Benoit per l’eccentrico (inutile era la categoria che li comprendeva tutti).
E poi le piante nella serra, la scala a chiocciola su cui sapeva arrampicarsi anche al buio, le camminate lungo la spiaggia, gli spruzzi sulla chiglia della sua barchetta, le onde d’inverno che la rendevano leggera come la piuma smarrita da un gabbiano.

La vita non lo sa davvero cosa sia l’ordine fino a che non è finita, allora la puoi impacchettare con calma e vedere quanto spazio davvero occupa.

Della sua in Normandia restava così poco che te la potevi portare via tutta con un solo viaggio.

Chiuse gli occhi.

Avrebbe potuto dare la colpa al fatto di non essere amata, ma lei lo era stata, amata, e pure parecchio - un affetto che non aveva condizioni scritte in piccolo di cui non sapevi nulla, pronte a pugnalarti a sorpresa, né clausole che ti serravano la gola. Non come per sua sorella, insomma, l’immensamente amata, l’unica di sei a non essere orfana, a parte, forse, Joséphine.
E non le era mai sembrato che ci fosse una data di scadenza entro cui qualcuno avrebbe preteso indietro tutto e con gli interessi. Mai. Non era mica una carica di quelle di Corte che prevedevano un subentrante che avrebbe pagato per il privilegio - e comunque non c’era abbastanza denaro in tutta Versailles per comprare quello che lei aveva avuto.

Così razionalmente ingoiò ciò che proprio non le faceva piacere: colpa tua, Sigyn, colpa solo tua. Tua. Tua. Tua.

Le sembrò che il cigolio delle molle le ripetesse l’accusa ad ogni giro di ruota. Con un’ombra di ribellione si disse che lo accettava, non poteva che essere così, del resto, la responsabilità era tutta sua, va bene, che la crocefiggessero pure. Ma, per carità cristiana, perché? potevano almeno dirle perché?


 

I ragazzini nell’erba guardarono la carrozza che si avvicinava con gli occhi improvvisamente spalancati. Non era una “chaise de poste” di quelle “a culo di scimmia”, come avevano pensato: di solito precedevano la carrozza ufficiale, rapide come il vento e trasportavano sbattacchiandolo chi si sarebbe occupato di tutti i dettagli minuti per i viaggiatori ufficiali, cose come trovare dove dormire, dove mangiare, dove bere, far arieggiare delle stanze, far preparare uno spuntino e qualunque altra cosa potesse servire a rendere gradevole un arrivo dopo un lungo viaggio.
Quel coupé cicciottello, loro due, lo conoscevano bene: era il coupé piccolo dei Reynier. Era NasoCorto. E filava e molleggiava che era una meraviglia.

“Sbrigati!” intimò Oscar afferrando gli stivali.

André fu il primo a saltare sul cavallo e correre all’inseguimento, Oscar però era più leggera e poi montava Fulmine, il cavallo preferito del Generale: pollice per pollice cercarono di riacchiappare la carrozza fuggitiva, ridendo nel loro stesso vento.

Non c'era postiglione sulla carrozza perché non c'era cassetta: la carrozza era un coupé, una carrozza il cui abitacolo, invece di essere simmetrico, appariva, appunto, come "tagliato" in modo che il davanti fosse occupato dai bagagli. Sarebbe sembrata una vettura fantasma non fosse stato che il postiglione esisteva e che, come d'uso, cavalcava il porteur , il cavallo cioè di sinistra.

Quando Oscar fu a fianco del coupé si sporse per bussare alla porticina, con impazienza.

“Dai Oscar piantala!” le urlò André, “Potresti farti male!” osservando preoccupato quanto le zampe del cavallo fossero vicine alle ruote.

La ragazzina gli scoccò uno sguardo irritato, poi si sollevò sulle staffe con le gambe che le tremavano. Aveva deciso e lo avrebbe fatto e André doveva starsene zitto perché lei quando non era a Palazzo era un pirata ed un bandito ed un moschettiere del Re, e anche nella noia del Palazzo, sotto l’ombra del precettore, era comunque Monsieur Oscar François Reynier de Jarjayes, unico figlio maschio ed erede di Augustin François Reynier de Jarjaeys, Conte per nascita, nonché Generale per merito, e faceva come voleva.

Fu a quel punto che la porticina della carrozza si schiuse.

“Io non lo farei,” disse la ragazzina pallida con i capelli rossi, seduta all’interno, con un tono di voce fermo, ma non severo “però ho segnalato di rallentare per arrestarci. Se proprio devi dare spettacolo, cerca di non ammazzarti - al massimo di farti male.”

Oscar sbuffò, ma attese fino a che non si sentì sicura, mentre l’andatura rallentava sensibilmente, poi, puntellandosi allo sportello, tenuto ben fermo dall’altra, si slanciò all’interno della carrozza, accolta dalle braccia della ragazzina che la tennero stretta stretta.

“Non serviva che mi aprissi,” esclamò appena riprese fiato, divincolandosi per mettersi a sedere “avevo pensato di saltare dietro, sulle molle e da lì arrampicarmi sul tettuccio!” la vocetta infantile di Oscar risuonò abbastanza sicura. “Poi lo avrei attraversato tutto, strisciando, per entrare qui dal finestrino davanti. Sono magro abbastanza!”

“Un buon piano, ma poco fattibile.” confermò l’altra, con voce quieta, sistemandole i riccioli biondi con infinita cura.

“Dici così perché porti le gonne! ” ribatté Oscar, piccata, poi, con un certo disprezzo, aggiunse “E pure il petit panier!”

“Dico così perché le mie ossa mi piacciono proprio così come sono, tutte intere.” Si tolse i guanti con gesti eleganti e le carezzò una guancia con le punta della dita, segnalando che era lì in pace.

Si sedettero tranquille, una accanto all’altra, nello spazio ristretto, studiandosi.

La ragazzina pallida pensò allo zio Jean-Claude, il Gesuita Nero, che la invitava sempre ad osservare - c’è una persona sotto i vestiti, i tatuaggi, le cose istintivamente che non comprendi, quelle che ti disgustano o che non ti appartengono, c’è una persona sotto ai suoi pregiudizi ed ai tuoi, devi solo trovarla. Lui era un missionario, per lui era facile pensò ingenuamente, e le aveva imposto l’abitudine a provarci - di più non le potevano chiedere, era troppo piccola per capire come uno grande.
Lo zio aveva riso quando glielo aveva detto, e le aveva scompigliato i riccioli, ma questo in un’altra vita, in questa c’era solo questa specie di brutta abitudine che non le riusciva di perdere anche quando quello che vedeva non le piaceva affatto.

Oscar era ancora immortale, decise. Non come lei. Una buona cosa.

Monsieur Oscar era ancora un maschio e questo era triste. Perché c’era stata convinta a forza di insistere, ché la goccia, si sa, scava la roccia e il Generale sapeva essere molto più duro dell’acqua, un cielo che grandinava chiodi per inchiodartici a quella roccia come i grandi colpevoli di qualche mito che aveva studiato, tipo quel tizio che aveva rubato il fuoco agli dei. Avrebbe dovuto chiedere a Clément, lui di sicuro lo avrebbe saputo.
Il Generale era un uomo che i sogni o li chiamava traguardi o niente.

Oscar era bellissima, aveva i lineamenti delicati, ma simili a quelli austeri e perfettamente simmetrici del Generale, compresa la piega ostinata della bocca, e la posizione delle spalle, cose che non ti regala la vita, ma che si imparano.
Crescendo, pensò con un brivido, ne sarebbe diventata la copia, avrebbe parlato come lui, e l’avrebbe giudicata in quello stesso modo spietato, contando tutte le cose che non era e che sapeva benissimo.

Oscar era cresciuta, ma era ancora una bambina. C’era ancora tempo. D’impulso le baciò una guancia e poi si ritrasse in un angolo.


Oscar non protestò - non le piaceva essere abbracciata e sbaciucchiata, non senza preavviso, non le piacevano quelle smancerie da femmine, reagiva subito male perché posassero il pensiero e non ci provassero più, ma faceva eccezione per due persone che proprio non riuscivano ad imparare: André, che aveva l’entusiasmo di un bracco, e Sigyn, la Numero Cinque, troppo sciocca, come diceva il precettore, per ricordare davvero qualcosa.

C’era qualcosa che non andava, però, sua sorella era troppo quieta - ruppe il silenzio per prima, accusandola: “Hai scritto un sacco di lettere stupide sai? E poi non scrivi che stavi tornando!”

“Una cosa improvvisa.” bofonchiò Sigyn con gli occhi chiusi.

“Per quanto?”

“Non lo so. Credo sempre.”

Oscar sorrise, un sorriso largo e spontaneo, ma l’effetto andò perduto perché la carrozza ormai era arrivata e sua sorella se ne stava scendendo, senza aspettare nessuno.

   
 
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