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Autore: Belarus    22/07/2017    2 recensioni
Un Drago Celeste che nobile non è mai voluta essere, una fuga bramata da sempre e un mondo del tutto sconosciuto ad allargarsi ai piedi della Linea Rossa. Speranze e sogni che si accavallano per una vita diversa da quella che gli è da sempre stata destinata. Una storia improbabile su cui la Marina stende il proprio velo di silenzio, navi e un sottomarino che custodiscono un mistero irrivelabile tanto quanto quello del secolo vuoto.
#Cap.LXXXV:" «Certo che ci penso invece! Tornate a Myramera e piantatela con questa storia dello stare insieme! Io devo… non potete restare con me, nessuno di voi può. Sparite! Non vi voglio!» urlò senza riuscire o volere piuttosto trattenersi.
Per un momento interminabile nessuno accennò un movimento in più al semplice respirare e solo quando Aya fu sul punto di voltarsi per andare chissà dove pur di mettere distanza tra loro, Diante si azzardò a farsi avanti.
«Ci hai fatto giurare di non ripetere gli errori passati. I giuramenti sono voti e vanno rispettati.» le rammentò. "
Genere: Avventura, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eustass Kidd, Nuovo personaggio, Trafalgar Law
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Teru-Teru Bouzu '
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Titolo: Teru-Teru Bouzu
Genere: Avventura; Romantico; Generale {solo perché c’è davvero di tutto}.
Rating: Arancione {voglio farmi del male, oui.}
Personaggi: Nuovo personaggio; Eustass Capitano Kidd; Pirati di Kidd; Trafalgar Law; Heart pirates.
Note: Che venga messo agli atti signori, in questo capitolo Aya è sulla scia di Daenerys finalmente ritornata a Dragonstone che con sguardo da khaleesi qual è sbotta in un: “ Shall we begin.” Sì perché dopo tanto pellegrinare, illudersi e allontanarsi dal passato e dalla realtà del mondo che la circonda ha finalmente capito il suo scopo e la sua raison d’être. Lo ha fatto dopo un’eternità, costringendo il Dottore ad inseguirla senza Tardis e trascinandosi dietro dei poveri ignari che l’hanno presa per sbaglio a cuore, eppure lo ha fatto e io sono fiera di lei. Un po’ in verità sono anche fiera di me perché… lo saprete appena impatterete nella parete di viscido romanticismo che ho costruito attorno a questo capitolo. Ad ogni modo, ringrazio chi valoroso ancora cavalca tra le fiamme della disperazione tentando di scorgere la fine del tunnel che è questa storia, chi si aggiunge gettandosi a capofitto e chi passa soltanto per poi fuggire terrorizzato. Merci mes amis e alla prossima~



CAPITOLO LXXIX






A causa degli edifici blu di Sanko non aveva potuto godere del tramonto su Wonky Hole e non aveva fatto in tempo quel giorno a vedere l’alba da Down Under, ma quell’atmosfera ancora sonnolenta in cui tutto assumeva una bizzarra colorazione tra i fumi del vapore le aveva comunque dato sollievo. Almeno in parte.
La testa non pulsava tra il chiacchiericcio concitato dei facchini sulle banchine, i polmoni si erano allargati al profumo della salsedine mescolata al sapore ferrigno del geyser, le gambe si erano rilassate e penzolavano ad un pelo dall’acqua bollente in cui avevano avuto intenzione di sprofondare prima d’accorgersi che nessuno laggiù badava alla sua presenza. Per quella ragione le piacevano i porti, in una qualche maniera nessuno di coloro che vi si trovava era davvero lì. Le loro menti erano già altrove, proiettate verso un viaggio, una missione o un lavoro e non si soffermavano su chi restava più di tanto, non potevano che per il tempo in cui il corpo vi passava accanto. E sebbene la sua partenza non fosse poi così prossima, anche Aya aveva provato un simile sdoppiamento accorgendosi d’aver abbandonato una parte di sé nel passato con Ko benché avesse creduto d’aver superato la sua perdita. Si erano già separate in maniera definitiva, il suo era a tutti gli effetti il ricordo d’una persona fondamentale che non avrebbe più potuto confortarla, eppure Aya aveva continuato a concretizzarla, in una realtà inesistente che le aveva impedito di capire cosa andasse fatto in quella vera. Il dolore come l’affetto per lei non sarebbe mai andato via, ma restarvi aggrappata mentre il resto del mondo la trascinava era sciocco.
«Mi auguro che non tu non stia programmando di tuffarti. A dispetto di quanto sostieni, non sono disposto ad aiutarti a rimetterti dalle svariate ripercussioni che avrebbe una simile trovata.» fece presente una voce poco lontano e prima ancora di voltarsi per la sorpresa di saperlo lì, Aya la riconobbe. Nonostante quando aprisse bocca fosse sempre sicuro di ciò che diceva e lo facesse solo se necessario, Law a volte mentiva. Lo faceva da persona buona qual’era, celando l’impulso – potenzialmente controproducente per chi gli stava accanto – di spendere tutto sé stesso per difendere ciò che gli stava a cuore. Avrebbe inventato qualcosa per buttarsi in acqua pur non potendo nuotare se l’avesse fatto lei, Aya ne era sicura e quella consapevolezza le strappò un sorriso.
«Sembra che non sia brava a sparire a quanto pare…» mormorò fiacca, dandogli così il permesso d’avvicinarsi.
Ammirava Law, un po’ come ammirava Kidd e aveva ammirato Ko, la loro determinazione era rara e a dispetto del marciume che li aveva inghiottiti, pura. Lei non era come loro, se n’era resa conto sentendo parlare Shizaru e non lo sarebbe mai stata del tutto, il suo sangue era guasto, ma era pur sempre umana, poteva sbagliare e migliorare forse.
«Ho solo indovinato, sai farlo egregiamente.» la lodò sarcastico, fermandosi alle sue spalle con le iridi grigie che studiavano distratte la gigantesca shimenawa calata all’imbocco del porto, presunto shin’iki di Wonky Hole.
«Ma comunque non a sufficienza.» rifletté, pensando a quanti problemi avrebbe potuto evitare a sé stessa e a chi le stava accanto non dovendo guardarsi le spalle perennemente.
Era stato tutto così semplice prima che la sua strada s’incrociasse con quella di Kidd, nonostante per una volta lui non avesse avuto alcun merito nell’attirare troppe attenzioni. Adesso che il Mare Meridionale era lontano migliaia di leghe e le giornate che aveva giudicato noiose altrettanto, Aya provava quasi nostalgia nel ripensarci. Se fosse rimasta lì avrebbe avuto ciò che tanto desiderava, una vita serena, normale e persino lunga, ma aveva peccato di curiosità e ormai era consapevole di non poter più rimanere aggrappata a quel sogno.
Distogliendo lo sguardo dalla shimenawa che dondolava zuppa di salsedine per riportarlo su di lei, Law non poté fare a meno d’indurirlo nell’interpretare le sue parole come un rimpianto ai propri danni.
«Non sei tu a dover essere sotto accusa.» sentenziò quasi con rimprovero, ma per quanto Aya non avesse affatto alcuna intenzione di sparire dal mondo in maniera definitiva, si abbandonò comunque ad una smorfia.
«Lo pensi davvero Law?! Quando ho programmato di fuggire da Marijoa non ho pensato a Ko. Neppure per un istante ho pianificato di portarla con me, di ridarle la libertà cui l’avevano strappata, eppure le dovevo tutto… mi ha cresciuta e protetta, mi ha voluto bene ogni giorno con tutte le energie che aveva e io, l’unica volta in cui avrei potuto ripagarla, l’ho lasciata indietro. Come posso non essere responsabile quando persino dopo che le avevo detto addio lei ha cercato d’aiutarmi affidandomi a Shizaru?!» chiese con un groppo alla gola che avrebbe giurato essere un macigno, cercandolo con lo sguardo sebbene la sua domanda non richiedesse alcuna risposta.
Il senso di colpa per la morte di Ko l’aveva investita già sulla nave di Kidd e da allora aveva imparato a conviverci, sopportarlo e nasconderlo per godere di ciò che le era stato donato ad un prezzo così alto. Scoprire però di quel suo ultimo gesto d’affetto era stato un colpo al cuore per Aya peggiore persino del precedente, poiché vi si era aggiunta la consapevolezza di non essere mai stata all’altezza di un simile amore nemmeno dopo così tanti anni trascorsi l’una accanto all’altra. D’altro cosa aveva fatto per meritare d’essere considerata una figlia sulla soglia di un patibolo sul quale l’aveva spinta lei? La triste verità era che persino per Ko lei era stata una promessa deludente e non si era mai davvero impegnata, nonostante i tanti buoni propositi, per cambiare quella realtà.
Tra il fracasso delle merci scaricate, Law ricambiò la sua occhiata per un tempo piuttosto breve, prima di decidere con un respiro profondo di mettere giù la kikoku e sedersi accanto a lei.
«Pare che alcuni amici di Aohiro-ya la conoscessero, rivoluzionari… io so solo quello che mi hai raccontato di lei, ma sono convinto che portarla con te sarebbe stata una pessima scelta. Era fiaccata dalla schiavitù e dagli anni, ti avrebbe rallentato e con molta probabilità vi avrebbero ritrovate prima che poteste lasciare Sabaody.» suppose cinico, facendole serrare la presa sulla banchina.
Chiunque nel vederlo seduto lì a passare con distrazione una mano tra le ciocche umidicce per il vapore, lo avrebbe giudicato un mostro privo di tatto ed empatia per una tale logica. Aya sapeva che invece era solo un modo per confortarla dai brutti ricordi, sebbene per uno con il suo acume la scelta della disquisizione fosse stata pessima.
«Non esistono buone ragioni per sacrificare qualcuno, lo sai.» evidenziò, non riuscendo a non farsi cogliere dal fastidio per una simile analisi degli eventi.
Lui aveva visto con i propri occhi fino a che punto gli uomini potevano divorarsi a vicenda per sopravvivere, sapeva quanto orribile fosse un atteggiamento del genere e che valore avesse la vita di ciascuno. Era razionale, prudente e capace di sopportare in silenzio persino le scelte peggiori, ma non avrebbe mai lasciato nessuna delle poche persone che gli stavano a cuore indietro. Law sarebbe rimasto, avrebbe dato sé stesso, lei invece era andata via.
«Sarebbe potuta fuggire senza di te dopo, se non l’ha fatto c’è una ragione: ha scelto di dare un’opportunità a te piuttosto che pensare a se stessa. Lo sapeva lei e lo sapevi anche tu, quindi se vuoi startene qui a rimuginare su ciò che hai perso fa pure, ma non fingere che le cose siano andate diversamente perché è più semplice prendertela con te stessa. Non serve con me e di certo non a te.» la riprese scuro in volto.
Per un lungo momento Aya rimase in silenzio, sentendo gravare sulle spalle l’intero peso di Down Under per quel rimprovero e simile ad una bambina si perse nell’osservare il proprio riflesso distorto dalle bolle.
Scoprire che davvero Ko in passato aveva avuto a che fare con i rivoluzionari era una sorpresa, ma non aveva cambiato di molto le cose in realtà. Combattente o no, era rimasta indietro ed era stata giustiziata perché lei non le era rimasta accanto e poco importava se ciò che Trafalgar aveva appena intuito fosse la verità. Anche Aya sapeva d’essere libera per una buona dose di fortuna e per il tempo che Ko aveva guadagnato, ciò non cambiava comunque che sarebbe sempre stata in difetto nei suoi confronti.
Il motivo per cui si trovava ancora inchiodata sulla banchina tuttavia riguardava lei e solo per riflesso chi le stava vicino, nel rifletterci un sorriso le scappò fiacco facendo assottigliare lo sguardo a Law.
«Non lo sto facendo. So perfettamente di chi è la colpa e come rimediare agli errori che ho commesso. Sono venuta qui solamente perché volevo… non respiravo là dentro.» ammise con un sospiro, stringendosi nelle spalle nude.
Aveva scoperto a causa dell’incidente di Kidd di possedere una soglia di sopportazione agli imprevisti tragici disumana. Non era scappata dal Karyukai per nascondersi e perché non sentire avrebbe giovato al suo umore, le sue gambe si erano mosse per tirarla fuori dal caos e darle tempo di riflettere sul da farsi. Bisognava mantenere la calma in momenti simili e l’attacco di panico, oltre che di rabbia, che minacciava di provocarle Shizaru non le sarebbe stato affatto utile.
Impreparato ad una risposta simile Law sgranò gli occhi e Aya dovette soffocare una risata intenerita nel vederlo districarsi tra la sorpresa e la tenace abitudine nel non farsi sopraffare in alcun ambito o modo da altri.
«Se ti fossi ricordata di prendere aria tra una minaccia e l’altra non sarebbe successo.» le fece notare, dando per riprendersi con velenoso sarcasmo una piega altrettanto insperata a quel bizzarro momento di confidenza che la fece sprofondare nella vergogna.
«Sarò sembrata una pazza dispotica.» sospirò imbarazzata, mentre lui esplodeva in uno dei suoi ghigni migliori.
La vista di Shizaru e il suo continuo ripetersi le aveva fatto perdere la pazienza. Non era stata in grado di trattenersi dal tirar fuori il proprio lato peggiore ed era tragico pensare che l’avesse fatto in un luogo nel quale era ospite, dando spettacolo e riuscendo a riprendersi solo perché il suo corpo era stato più maturo di lei.
«Eri piuttosto efficace in realtà, lo ammetto.» infierì divertito, spingendola a girarsi.
Stava per trasformarsi nell’ennesimo botta e risposta che a Law pareva piacere tanto, ci avrebbe scommesso se avesse avuto qualcosa da scommettere, ma non si trattava soltanto di quello. Era molto di più e la mera consapevolezza di cosa Trafalgar stesse facendo, nonostante le distanze che tanto suo malgrado si era sforzato di mantenere tra loro, le scaldò il cuore.
«Hai dei metodi di conforto discutibili.» constatò deponendo paziente le armi, sebbene per quanto discutibili avessero sortito l’effetto desiderato alleggerendole il petto dal peso che l’aveva schiacciata.
Davanti a quella che sembrava una critica Law scosse il capo fingendosi del tutto innocente, ma l’ombra di un ghigno che premeva per venir fuori non lasciava nessun dubbio sulle sue reali intenzioni.
«L’impressione era che non avessi bisogno d’essere confortata.» si discolpò con aria indifferente, nononostante nei suoi occhi Aya stesse leggendo un’approvazione, quasi orgogliosa, per sé stessa che aveva visto solo in quelli di Kidd in alcune occasioni.
In passato quando ne aveva avuto davvero più necessità c’era stata Ko e quando per la sua morte ne aveva nuovamente avuto bisogno c’era stato Kidd. Lui l’aveva lasciata piangere nella stiva e non si era scomodato a muovere neppure un singolo passo per raggiungerla, ma era stato meglio così, Aya lo sapeva. Se fosse andato a confortarla probabilmente lei gli si sarebbe infilata sotto la pelliccia per non uscirne mai più e invece aveva dovuto trovare le forze per rimettersi in piedi da sola. Aveva imparato in quei giorni a fare da sola.
«Ma sei comunque venuto a cercarmi.» lo inchiodò, senza il minimo desiderio di vincere quel loro tacito gioco quanto piuttosto di dare una consistenza reale a ciò che più di ogni altra cosa la stava rincuorando.
Perché malgrado, grazie alla lezione di Kidd, non avesse avvertito la necessità di avere qualcuno intorno che la incoraggiasse e anzi si fosse sentita soffocare tra chi le si mostrava amico appena poco prima, era davvero felice di non essere rimasta sola mentre raccattava i propri cocci. Non si trattava di forza infusa o del rifugiarsi all’ombra di Law, semplicemente la tranquillizzava la consapevolezza che semmai non fosse stata in grado di far da sé lui fosse già lì pur essendo rimasto in disparte a darle fiducia. Ed era così terribilmente piacevole e rasserenante una simile sensazione da non farle avvertire più in alcun modo il corpo oppresso dalla colpa e darle anzi lo sprono necessario a fare ciò che avrebbe dovuto molto tempo prima.
«Lasciarti a piede libero è un rischio che non sono disposto a correre.» sentì Law precisare ambiguo e nonostante avesse la quasi assoluta certezza d’aver ricevuto l’ennesima frecciatina ai propri danni, se ne infischiò fissandolo un’ultima volta prima di sporgersi temeraria.
Allertato da quella che era a tutti gli effetti una nuova invasione del suo sacro spazio vitale, Trafalgar la squadrò attento e già pronto a difendersi per tentare di riprendere le distanze. Quando Aya però lo tirò verso di sé per la maglia sorridendo, qualsiasi cosa stesse per lamentare contrariato dovette passargli di mente o venire sostituita da una ben peggiore che allo stesso modo tuttavia finì inascoltata e non detta, mentre lo baciava incurante del posto o di chi stesse loro attorno. Aveva un buon sapore Law oltre che un buon profumo e il suo corpo trasmetteva più calore di quanto chiunque avrebbe osato immaginare, si trovò a pensare in quello che le parve un momento troppo breve, sebben Law rimase rigido e forse persino a guardarla. Aya non si sconvolse più di tanto, aveva imparato a vederlo annaspare per un abbraccio figurarsi un contatto prolungato, potenzialmente portatore di germi ed intimo come un bacio, e mentalmente continuò a sorridere, soddisfatta ed elettrizzata dal suo primo passo, finché non si staccò da lui per farlo davvero.
«… ho promesso di non dirti più grazie.» scherzò per giustificarsi, trovandolo più stravolto di quanto credesse.
La sua non era stata una folgorazione improvvisa simile al curioso debole che nutriva per Kidd, le c’era voluto del tempo per andare oltre l’impressione che Law dava di sé ed apprezzarlo sino ad aggrapparsi a lui come ormai faceva, molto tempo considerando quanto lui si fosse opposto. Adesso, dopo tre anni e taciti accordi stabiliti ad occhiate, Aya non poteva fare a meno di avvertire un moto di affetto incontrollato avendolo vicino ed era più che certa che se non fosse stato potenzialmente nocivo per la salute dei nervi di Law e poco educato, avrebbe volentieri prolungato quel loro contatto ancora per chissà quanto.
Mentre lo vedeva boccheggiare allucinato per la spiegazione ricevuta, tentando di certo di scegliere da quale dei molti punti che gli aveva fornito cominciare a rimproverarle la sua totale mancanza di inibizioni, qualcos’altro attirò l’attenzione di Aya oltre le sue spalle. Un uomo, rannicchiato tra una pila di casse appena scaricate, pareva non riuscire a toglierle gli occhi di dosso e malgrado la prima spiegazione a tante attenzioni che le venne in mente fu che doveva aver assistito all’intera scena, prontamente la soppiantò un campanello d’allarme nel vederlo scappar via di corsa una volta scoperto.
«Un altro cacciatore di taglie!» lanciò l’allarme, scattando in piedi e superando di corsa Law che riuscì appena a fulminarla con le iridi grigie per il modo in cui lo stava mollando lì.
Quando riuscì a riappropriarsi dell’uso della parola, Aya era già sulla scia dell’uomo che per chissà quale miracolo pur rovinando su qualsiasi cosa gli si parasse davanti persisteva a non cadere, barcamenandosi tra le prime bancarelle e le montagne di merci pronte a risalire i livelli del mercato per le vendite. Intenzionata ormai a prendere la situazione in pugno, ignorò i richiami di Law che minacciava di scambiarla pur di fermare la sua corsa ed accelerò il passo per scoprire per merito di chi o per quale ragione ci fossero tanti cacciatori di taglie sulle sue tracce. Un sospetto più di tutti le ronzava nella mente, ma si era ripromessa di non cadere nella trappola che il suo stesso sangue le tendeva ad ogni respiro e prima di credere che i suoi genitori avessero mandato dei sicari sin laggiù – sebbene la Marina stesse rivestendo quel ruolo già perfettamente – voleva averne le prove.
«Fermo, fermati! Dimmi perché mi state cercando! Fermo!» ordinò più volte senza sortire altro effetto se non quello di farlo correre con più foga, finché la calca tra i negozi non la favorì e ad una nuova svolta, allungò il braccio immobilizzandolo per il torso contro la parete di un negozio di luminarie in un groviglio di arti.
Nel sentirlo scalciare disperato pur di liberarsi finì per sederglisi a cavalcioni sulla schiena e serrò la presa, premendo sulla nuca con il gomito come le aveva insegnato Bepo affinché la respirazione intralciata lo trattenesse giù più del suo peso esiguo.
«N-no, n-no, v-vi supplico… n-no-n uccidetemi, v-vi prego, non accadrà più, lo giuro, non uccidetemi…» lo udì farfugliare con voce rotta.
«Perché mi spiavi?» lo interrogò, ma lui non parve neppure sentire la sua domanda.
«La prego… i-io non scapperò più, r-rimarrò qui, non mi uccida-» e la totale angoscia con cui le parole gli fuggirono di bocca in un ripetersi incontrollato le rivoltò lo stomaco.
Non era stata garbata e il fatto che lo avesse bloccato non preannunciava certo un cordiale scambio di saluti, ma Aya aveva già visto uomini chiedere pietà di fronte alla disfatta e quel lamento da morto non poteva appartenere ad un cacciatore di taglie che aveva fallito il colpo né ad un codardo. C’era qualcosa di disperato nel modo in cui supplicava contorcendosi sotto di lei, nell’affondare delle nocche sbiancate nella terra dura e nelle lacrime che la bagnavano. Pareva quasi che per lui quella fosse già una tortura e scandalizzata dal tremore del suo corpo, si sporse per sbirciarlo in volto pur non sapendo cosa dire per quietarlo perché era evidente che in quello stato avrebbe finito solo per uccidersi da sé togliendosi quel po’ di fiato che aveva. Quando finalmente vi riuscì tra le contorsioni dell’altro, si spostò ammutolita ed assorta a guardare il presunto cacciatore di taglie che ancora schiacciava il capo sulla terra sino a farlo sanguinare sebbene non vi fosse più nessuno a tenerlo fermo.
«Hai un viso familiare… ti conosco?» mormorò dubbiosa direttamente all’uomo, ma quello strisciò il capo senza neppure muoversi di un millimetro.
Qualcosa nei tratti del suo volto sporco le dava l’impressione che le loro strade si fossero incrociate tempo addietro, eppure per quanto la sua memoria fosse stipata d’informazioni spesso cavillose che ricordava con una inutile e disarmante lucidità, non le scattava in quella precisa occasione nulla così su due piedi.
«M-mi dispiace, m-mi dispiace, la prego, mi dispiace…» cantilenò terrorizzato ed ossequioso, aggrappandosi al terreno come se si aspettasse di venir sollevato malamente da un momento all’altro per finire impiccato.
«Chi sei? Perché mi spiavi?» insistette a chiedere decisa, tuttavia l’umore dell’altro non migliorò e anzi si fece più incerto, mentre un tremore da convulsioni lo scuoteva per intero.
«N-Non accadrà più, mai più, n-non volevo guardarla Hime-sama, l-la prego non mi punisca-» implorò da chissà quale meandro oscuro in cui era sprofondato e ad Aya fu sufficiente sentirsi chiamare a quel modo per capire.
D’improvviso la sua memoria riesumò il ricordo perduto di un uomo con catene e collare che a Marijoa aveva intravisto in un paio di circostanze tenersi in equilibrio su una vasca di squali con ogni genere di cianfrusaglia sopra la testa per il divertimento degli spettatori. Allora era più giovane ed Aya poco più che una bambina perennemente appesa alla gonna di Ko, ma il suo viso emaciato con lo sguardo distrutto era rimasto uguale.
«Nessuno ti punirà, te lo prometto.» giurò rassicurante, accovacciandoglisi di fronte per posargli una mano sulla guancia solcata dalla cicatrice ormai fradicia.
Pietrificato da quel contatto il funambolo dei suoi ricordi non accennò a muoversi, forse persino più terrorizzato di prima e Aya allontanò la mano, poggiandola paziente in grembo affinché capisse di non stare per finire in una diabolica trappola ai suoi danni di cui i Draghi Celesti erano maestri indiscussi.
«Puoi parlare e guardarmi, ti ho dato la mia parola. Qual è il tuo nome?» chiese, rivolgendogli un abbozzo di sorriso che l’altro intravide solo dopo dei lunghi momenti di dubbio.
«… Amaro, S-Signorina.» biascicò, spostando convulsamente lo sguardo da lei al suolo quando si fu un po’ rassicurato.
Soddisfatta dalla propria piccola vittoria Aya non attese che si convincesse a sollevare gli occhi del tutto e si abbassò per incontrarli da sé, certa più che mai che quell’incontro col passato fosse un segno mandatole da Ko.
«Immagino tu sappia già il mio nome Amaro. Usalo per piacere, non lo fa mai nessuno!» lo pregò amichevole, sorridendo mentre lui rimaneva interdetto e ancora un po’ spaventato a fissarla per la prima volta nella sua vita in viso.



Al di là degli oblò gelati per metà, Wonky Hole affrontava placida ed innevata l’ennesima giornata come un enorme vongola sbucata nel mezzo del mare, tra gli sbuffi del geyser particolarmente vivace sin dall’alba. Sulla sua cima gli abitanti di Sanko chiacchieravano del più del meno, sbrigando i loro affari incuranti di ciò che gli brulicava sotto i piedi o volutamente ciechi, mentre barche dai carichi dubbi scivolavano silenziose nelle insenature dalla parte opposta dell’isola sotto lo sguardo crucciato dei pirati Heart rimasti a far la guardia al Polar Tang.
«Chissà quanto si staranno divertendo! Non sono nemmeno tornati a dormire…» borbottò Clione, la punta del cappuccio penzolante sul viso quasi la neve all’esterno glielo avesse appesantito.
Seduta accanto a lui, Ikkaku soffiò indispettita posando con fare bellicoso la tazza di caffè nero che avrebbe dovuto ridarle la carica per tornare nella fornace in cui si era trasformata la sala macchine per colpa della corrente calda.
«Perché Senchō devono accompagnarlo sempre quei tre?!» lamentò contrariata, incrociando le braccia sotto il seno affatto camuffato dalla divisa bianca.
«Quattro. C’è anche Jean Bart.» puntualizzò Clione con una smorfia, mentre la nakama imbronciata ringhiava infantile il proprio disappunto in un gonfiarsi di riccioli.
A bordo del loro sottomarino non c’erano distinzioni, Senchō era democratico nel distribuire le proprie occhiate glaciali e nel fingere di non sapere quando necessario, ma se dovevano scendere su un’isola Penguin, Shachi e Bepo finivano sempre per stargli appiccicati e quando a Jean Bart non toccava farne le veci, si univa anche lui. Capivano che lì la questione era estremamente delicata, di vitale importanza per il loro capitano, una volta tanto però avrebbero potuto spalleggiarlo anche loro. Dovevano parlarne alla prossima riunione.
«Hanno una missione importante da svolgere e noi facciamo lo stesso occupandoci del sottomarino. Smettetela di lamentarvi, in fondo siamo saliti in città appena arrivati.» ricordò loro Uni da sotto la bandana, lo sguardo puntato sui monitor perennemente accesi.
Dalle loro postazioni, Ikkaku e Clione si voltarono a fulminarlo, mentre dondolava sulla poltrona girevole che di solito occupava Penguin per l’ebbrezza del potere di cui era stato investito sebbene per scorrimento.
«Volevi andarci anche tu, non farci la predica.» fece presente acido Clione.
« “Vengo anch’io Senchō!”» lo imitò Ikkaku in una smorfia, riuscendo nell’impresa di sgonfiarlo con una frase e schivare svelta l’attacco ai propri danni con uno dei compassi a riduzione di Penguin.
«Già-ahi! Non abusare del potere che hai!» strepitò Clione, non altrettanto rapido nell’evitare il colpo.
Piccati chi per un verso e chi per un altro, finirono per livellare i ruoli e rotolarsi sul pavimento della sala comandi nel tentativo d’azzuffarsi sotto lo sguardo seccato di Ikkaku che avrebbe volentieri preso a sberle entrambi se tra la miriade di sirene, monitor, segnalatori e luci che riempivano la stanza il lumacofono non avesse preso a borbottare insistente.
«Zitti! Sta suonando!» li rimise in riga, acciuffandoli per capelli e cappuccio pur di riottenere silenzio.
Richiamati all’ordine i due rivolsero ammutoliti gli sguardi sull’animaletto che occupava il posto d’onore del loro capitano sul divanetto, quasi con la stessa espressione d’irremovibile pedanteria che mostrava a volte.
Non era strano che ce ne fosse uno lì, quando non era dell’umore – spesso – Senchō utilizzava il lumainterfono per dare direttive a Bepo senza doversi scomodare dal laboratorio o dalla propria cabina, a volte la sua voce riecheggiava di colpo per i meandri del Polar Tang più lugubre e strascicata di quanto già non fosse provocando principi d’infarti a metà ciurma. Shachi viveva veri e propri incubi per colpa di quelle bestiole. Quello però era il lumacofono privato di Senchō, non suonava mai e l’unico habitat che gli fosse noto era la scrivania nella sua cabina.
«Una chiamata privata per Senchō.» notò Uni, incredulo ed inquietato allo stesso tempo dal vederlo continuare insistente a pretendere attenzioni durante il suo primo turno da vice.
«Riceve chiamate private?! Da quando?! Da chi?! E perché non ne sappiamo niente?! Siamo il suo equipaggio, deve informarci!» s’infervorò Ikkaku, sempre pronta a far valere i propri diritti d’appartenenza alla ciurma.
In effetti cosa se ne facesse Trafalgar Law di un lumacofono privato quando parlava per lo più tramite monosillabi e aveva l’innato talento, abilmente allenato ed esercitato per di più, di stroncare la maggior parte degli esseri umani che s’imbattevano nel suo cammino, era un mistero.
«Aspetta… non è che per caso è… quella chiamata?» avanzò con un groppo alla gola Clione in un attimo di acume.
Allarmato dalla sola possibilità che potesse trattarsi davvero di ciò che aveva immaginato, lanciò un’occhiata ai suoi due compagni che altrettanto sulle spine spostarono l’attenzione sulla bestiola che con il suo imperterrito “piru-piru” berciava dal divano con le occhiaie scure e un cappellino maculato in miniatura. Un’atmosfera greve calò su di loro, finché coraggiosa vedendo che il suono non accennava a smettere Ikkaku non agguantò il microfono con le labbra serrate pronta a dichiarare guerra a chiunque fosse dalla parte opposta.
«Moshi-moshi?» sbottò, neppure tanto in una domanda, facendo prendere un colpo ai due con lei.
«Ikka che diavolo fai?!» gemettero sconvolti, allungando le mani per fermarla sebbene fosse già tardi.
«Ha detto di controllare il lumacofono, zitti.» rammentò, concentrando il proprio disappunto sul lumacofono che finalmente emise qualcosa di diverso dal proprio borbottio e decisamente simile ad una voce non amichevole.
«Trafalgar Law?» domandarono dall’altro capo e il disgusto misto a fastidio con cui quel qualcuno pronunciò il nome del loro capitano diede la certezza a tutti prima del tempo che malauguratamente si trattasse proprio di quella chiamata tanto attesa.



Seduta su una cassa vuota e sgangherata abbandonata sul retro del negozio lo seguì attenta con lo sguardo, mentre accovacciato a terra passava la mano sulla nuca indolenzita dalla presa in cui l’aveva stretto sino a poco prima, rivelando una porzione del collo. Sino ad allora, pur essendogli letteralmente saltata sopra, non vi aveva affatto badato a causa della camicia sbrindellata che lo copriva, ma a pochi centimetri dalla pelle nuda il segno indelebile dello zoccolo celeste con cui era stato marchiato era intatto ed orribile tanto da farle aggrottare la fronte. Aveva sentito raccontare di schiavi ritornati liberi che avevano preferito strapparlo via a carne viva pur di non vedere e di altri che lo avevano coperto con tatuaggi, Amaro invece lo teneva nascosto da un pezzo di stoffa e con del sincero rammarico ad Aya non sfuggì l’abilità con cui le sue dita non vi si posavano neppure per errore.
«Mi spiace non averti riconosciuto subito, per qualche strana ragione mi danno la caccia.» si dispiacque nel sentire le sue vertebre scrocchiare per riassestarsi.
Bepo le aveva raccomandato d’impegnarsi ad indirizzare bene il suo peso, dato che per muscoli non brillava, ma non era decisamente colpa sua se aveva esagerato con la verve in quell’occasione. La piega che avevano preso gli eventi nell’ultima mezz’ora le aveva dato una scaricata di adrenalina di troppo da smaltire, doveva ricordarsi di chiedere a Law come tenerla a bada. Lei non era abituata a quel genere di cose quanto lui e Kidd.
«Lo so, sono tornato indietro per questo. Ho sentito dei mercenari parlarne, mentre ero nelle gallerie.» le spiegò Amaro con un sospiro, smettendo di massaggiarsi la nuca per rimettere a posto la camicia sgualcita.
«Credevo fossero tutte chiuse.» ammise confusa, piegando appena il capo per quel marasma di informazioni.
Era pur vero che di Down Under non sapeva neanche ciò che sarebbe dovuto esserle necessario, ma in quel posto c’erano davvero troppi cavilli e sofisticherie, senza contare che le novità piovevano dal cielo ad una velocità tale da dare a stento il tempo per abituarcisi.
«Lo sono ancora, mi sono calato giù dalla scritta…» chiarì l’ex schiavo, abbassando il capo nel ripensare a ciò che aveva fatto per raggiungerla sfidando i vapori ustionanti del geyser in piena attività.
Persino da quell’angolo sperduto tra i negozi dove la massa in fermendo di Down Under non si spingeva, Aya riuscì ad intravedere girandosi a guardarlo per un attimo il baratro d’effluvi zolforosi attorno a cui la città era sorta e lo stupore per un’impresa come quella che gli era appena stata confessata le si attenuò solo rammentando le incredibili doti acquisite da Amaro a Marijoa.
Sebbene mode e divertimenti in voga passassero da un giorno all’altro sulla cima della Linea Rossa, tra i Nobili mondiali non era mai andato via quello di dotare i propri schiavi di un frutto del diavolo per potersene servire nelle ore più noiose. Ne circolavano di ogni genere e prezzo pur di allietare la sete di divertimento della sacra stirpe e anche sua madre ne aveva acquistati alcuni da sfoggiare con le sue amiche, giusto per commettere l’ennesima crudeltà su chi già supplicava di morire pur di abbandonare quell’inferno. Ad Amaro ne era toccato uno per sua somma sfortuna e sebbene Ko l’avesse tenuta strenuamente alla larga dalle sale da gioco dei suoi genitori, non le era mancata occasione di vederlo all’opera. I giochi d’equilibrio erano il suo forte allora e supponeva che starsene in piedi su una vasca dove avrebbe potuto esser mangiato vivo non fosse poi così diverso dal calarsi da una scritta luminescente dentro un geyser pronto a cucinarlo, ma poco importava. Usarlo doveva avergli ricordato Marijoa una volta ancora e la sua espressione era stata tutto fuorché di gloria.
«Almeno alla fine il frutto è tornato utile a qualcosa! Ci ha fatti incontrare!» notò con una mezza risata, cercando di alleggerirgli così il peso che sembrava averlo piegato nel rendersi conto delle proprie azioni.
Forse non vi riuscì con il successo che sperava, ma Amaro sollevò comunque lo sguardo e dopo un momento in cui si perse nell’osservarla sorridere anche lui se ne lasciò sfuggire uno, seppur fiacco e malinconico.
«Lo dicevano tutti in casa che era una bambina buona.» rammentò nostalgico, abbassando le spalle davanti alla tenacia battagliera con cui Aya stava tentando in ogni modo di metterlo a suo agio.
«Ci voleva poco per sembrarlo in casa mia, ma sei gentile.» lo ringraziò e davanti al suo nuovo sorriso Amaro si raggelò, tornando a chinare il capo sulle proprie ginocchia lerce con i pugni serrati.
Il silenzio cupo nel quale sprofondò la allarmò quando venne interrotto da un tremito del corpo magro simile ad un singhiozzo, ma non ebbe il tempo di prodigarsi per aiutarlo che lo vide rialzare colpevole lo sguardo lucido per lacrime trattenute a fatica. Colta impreparata dalla rabbia che vi leggeva riuscì appena a sporgersi dalla cassa prima che Amaro la squadrasse con una smorfia che lo rese persino più cupo.
«Non dovresti esserlo con me. Io… volevo moriste tutti nell’incendio la notte in cui Fisher Tiger ci liberò.
Volevo che anche voi vedeste la vostra vita bruciarvi davanti perché meritavate solo l’inferno. Non ho badato neppure ad una bambina… non saresti qui se fosse dipeso da me.» sbottò crudo sorprendendola.
Quella notte, una delle più confortanti che paradossalmente Aya avesse vissuto, era lontana più d’un decennio e non per questo dimenticata. Il lezzo di Marijoa, divorata dalle fiamme, sarebbe stato indelebile nella sua memoria e in quella di molti schiavi che l’avrebbero identificato con il profumo della libertà riottenuta. Ko era stata la sola a rifiutarsi d’andare per restare al suo fianco e proteggerla, i quattro che si erano rifugiati con loro nella cantina lo avevano fatto perché certi d’andare in contro alla morte varcando le porte della città. Amaro per Aya allora era stato solo l’ennesima figura in fuga, ciò per cui pareva tanto furioso da arrivare quasi a piangere però era la consapevolezza d’aver perso la propria umanità ed aver commesso una crudeltà degna di chi lo aveva umiliato tanto. A lei, dal basso della sua etica e dell’opinione che aveva della propria gente, non sembrava poi così strano o orrendo che avesse preferito dopo tutte quelle sofferenze se stesso, ma sospettava dal suo volto che difficilmente Amaro sarebbe stato d’accordo.
«Sei venuto a cercarmi per uccidermi quindi?» chiese di getto, optando per una strada che lo riportasse alla ragione per sottrarlo al limbo nel quale si trovava da anni probabilmente.
Forse la vicinanza con Law stava avendo dei brutti effetti su di lei o magari dipendeva solo dalla sua natura, tuttavia sebbene si rendesse conto di star rischiando di traumatizzarlo in maniera definitiva, Aya era convinta con ogni brandello di se stessa che a parlare fosse stato il dolore e non la presunta cattiveria di cui l’altro si sentiva reo. Come ne avesse l’assoluta certezza non avrebbe saputo spiegarlo, ma era così e non avrebbe permesso ora che aveva le forze per farsi carico davvero delle proprie responsabilità che qualcuno sprofondasse davanti a lei senza averlo aiutato in alcun modo.
La domanda come previsto piombò su Amaro inclemente e terribile, gettandolo nel panico della sorpresa per un lungo momento in cui fu in grado solo di aprire e chiudere la bocca stordito.
«C-cosa?» balbettò alla fine, supplicando forse d’aver sentito male.
Il suo stordimento non la distrasse affatto dal proprio proposito e dopo un respiro profondo Aya lo puntò convinta, assestandogli il colpo di grazia con disarmante serenità.
«In tutta sincerità ho sempre pensato che nessuno meriti le sofferenze di una vita in catene, semmai quello si possa chiamare vivere e l’idea che imporla fosse un diritto naturale di noi Draghi Celesti non mi convinceva neppure da bambina, ma ho le mani sporche anch’io per cui se lo ritieni un modo giusto per pareggiare i conti fa pure.» accettò di buon grado, rimanendo ferma al proprio posto in attesa.
Turbato dalla rassegnata pazienza con cui era pronta ad accettare la propria morte per ridargli la vendetta che meritava sui Nobili mondiali, rimase pietrificato a fissarla con occhi sgranati. Forse farlo gli sarebbe stato di una qualche gioia, magari gli avrebbe ridato la forza che pareva aver perso a causa delle umiliazioni continue o un po’ di sollievo dall’incubo che era stato per lui ritrovarla lì, Aya non poteva saperlo né pretendeva di comprendere ciò che Amaro stava provando. Confidava però che ciò che lo aveva spinto a tornare sui propri passi dopo aver spiato la conversazione di quei mercenari non fosse stato il desiderio di assistere alla sua morte e seppe di non aver riposto male le proprie speranze quando lo vide serrare la presa sul terreno con altrettanto turbamento.
«Io non voglio ucciderti. Pensavo di volerlo, ma giudicare a priori non è la cosa giusta da fare… s-sono tornato indietro perché mi sono reso conto di doverti la possibilità che altri ti avevano dato prima di me e volevo… non so bene cosa in verità, ma non volevo morissi per dei mercenari.» sputò tutto d’un fiato deciso, terminando ciò nonostante con lo sguardo una volta ancora fiaccato in quella che doveva essere la curvatura naturale delle sue palpebre assonnate.
Aya lo ascoltò in silenzio, sforzandosi di non godere del proprio istinto infallibile in certe faccende, ma non poté trattenere un sorriso divertito e premuroso nel piegarsi verso di lui per trovarcisi faccia a faccia.
«Allora non credo sia il caso di parlarne ancora non pensi?!» bisbigliò complice, quasi si stessero confidando un segreto di cui sarebbe davvero stato meglio non discutere mai più.
Nessuno più di lei poteva capire quanto nella vita di ciascuno fosse importante fare le scelte giuste. Era da quelle e dai piccoli gesti che dipendeva tutto. Voltarsi per non guardare, fingere di non sentire, illudersi d’aver ragione, crogiolarsi negli sbagli, fra ognuna di quelle strade e il suo opposto passava un abisso dal quale era difficile risalire se si persisteva nell’errore, ma era facile cambiare se si tornava sui propri passi. Lei e Amaro lo avevano fatto quasi in contemporanea, affrontando ciascuno le proprie paure e rinunziando a qualcosa. Forse se ne sarebbero pentiti, magari avrebbero rimpianto il giorno in cui si erano parlati e l’aver preso una decisione piuttosto che un’altra, malgrado tutte le incognite cui andavano in contro però Aya era convinta che valesse la pena provare.
«Mi credi?» farfugliò incredulo Amaro invece, sebbene fosse stato lui per primo a tirare d’azzardo.
Soffocando il sorriso affettuoso che l’era salito alle labbra per quel suo auto-pessimismo che faceva a pugni con il coraggio ed il desiderio quasi disperato di cambiamento, Aya si rimise in piedi ed inattacabile nel proprio vestito da sera al mattino e l’acconciatura ormai inesistente gli scoccò un’occhiata di una tale serietà che chiunque avrebbe potuto dirla un patto da non infrangere a costo della vita.
«Tu dai una possibilità a me, io la do a te. Ora rimettiti in piedi, altrimenti cominciamo male.» decretò autorevole, facendogli un cenno con il capo affinché fossero finalmente alla pari.



Girando in allerta tra i banchi dei negozi vicini al molo d’attracco di Shinkiro senza scorgere la benché minima traccia della testolina rossa di cui era alla ricerca, si accorse d’avere un molesto retrogusto di tè sulle labbra. Il lampo che lo colse sul posto a quel pensiero gli fece serrare d’istinto la presa sulla kikoku e lo bloccò tra la ressa di venditori ed acquirenti, ignari dell’ondata di malumore nella quale Trafalgar Law era appena sprofondato con tanto di scarpe, camicia e cappello.
In verità il fatto che sentisse quel sapore in bocca era perfettamente logico, ma che ne avvertisse la presenza di colpo solo per la mancanza di Aya non lo era altrettanto ed era anzi un pessimo sintomo del suo stato di salute, psicologico e fisico. Non aveva tempo né spazio nella propria vita per farsi trascinare in faccende sentimentali, specie se riguardavano qualcuno di impegnativo come lei che non celava un debole per quell’altra testa rossa d’Eustass-ya e si era persino dileguata dopo essergli quasi saltata addosso. Aveva un equipaggio di cui prendersi cura e una missione da portare a termine cui aveva sacrificato dodici anni della propria vita ritrovata, accettare di buon grado di lasciarsi andare a scariche di dopamina sovreccitata era l’ultima delle cose che potevano servirgli. Specie perché Aya era già una distrazione per lui, non occorreva certo aggravare la situazione con promesse adoloscenziali ed ormoni in subbuglio.
Benché fosse iniziato tutto come pura curiosità, aveva finito malgrado ogni sforzo per tenere a lei, forse più di quanto avrebbe dovuto o solo potuto immaginare. Non sopportava di saperla nel mezzo di Down Under ad affrontare probabilmente un cacciatore di taglie e se ne stava già ampiamente rimproverando, dato che avrebbe dovuto mostrare più prontezza nel fermarla, ma non era stato affatto pronto. Non le era neppure andato dietro subito a dirla tutta e questo perché il suo ennesimo attacco d’affetto immotivato lo aveva non solo colpito, ma anche affondato nonostante lo sforzo di sottrarvisi. Trafalgar stava già stoicamente rimettendo insieme la propria flotta certo, però sapeva che a nulla sarebbe servita se una parte di lui continuava ad assecondare quella follia suscitandogli ora correlazioni dalle tinte romantiche a dir poco nauseanti. Di quello in fondo si trattava, non di Aya che gli sorrideva ad ogni occasione né di lui che avrebbe voluto per una volta annullare in suo favore il proprio spazio vitale perché non gli dispiaceva averla vicina, si trattava del dopo Down Under e fuori di lì Law aveva solo scogli su cui infrangersi sperando che crollassero con lui. Lì non c’era spazio per Aya né ce ne sarebbe mai stato, come non ce n’era per Bepo, Penguin, Shachi, gli Heart al completo e nessun’altro se non Law stesso. Si sarebbero dovuti separare volenti o no, avrebbero preso direzioni opposte, forse non si sarebbero mai più incrociati per cui era del tutto inutile che si crogiolasse nel proprio brodo e sentisse già il rimorso d’essersene rimasto immobile a lasciarla fare poiché rispondere lo avrebbe spinto al passo fatale. Raziocinio e sangue freddo lo avevano salvato dal caos delle decisioni troppo umane sin da bambino, quella sarebbe stata solo l’ennesima prova di quanto utili potessero dimostrarsi.
Sebbene fosse fermo in quella decisione, presa forse la notte precedente o inconsciamente chissà quando, il suo radar personale non mancò di fargli saltare all’occhio nel mezzo dei propri pensieri un gruppetto di uomini dai visi torvi intenti a confabulare tra loro con gli sguardi rivolti alla calca di passanti come alla ricerca di qualcuno in particolare. Chi fosse l’obiettivo di tali attenzioni Law lo sospettò in anticipo e d’istinto, ma non mancò d’averne conferma avvicinandosi con passo fermo senza che vi badassero minimamente.
«Della nave ormeggiata se ne occuperanno altri, è inutile provare a prendere il battello per arrivarci. Il Mediatore ha chiuso tutto, sarebbe una perdita di tempo! Gli unici due membri della ciurma che possiamo catturare sono il Massacratore e quella donna che tengono a bordo.» sputacchiò uno, lanciando continue occhiate ai volantini che teneva tra le mani per impremere con più sicurezza i volti nella mente ed individuarli meglio tra la folla.
Silenzioso e inosservato Trafalgar scivolò alle loro spalle, finché non fu così vicino da sentire il lezzo di tabacco masticato, alcool mal smaltito e abiti lerci che sarebbe stato il caso di bruciare per evitare una pestilenza, fermandosi ad osservarli con curiosa attenzione.
Di mercenari, ladri e cacciatori di taglie a Down Under ce n’erano quasi quanti all’arcipelago Sabaody e non era poi così strano che pianificassero d’attaccare un’equipaggio attraccato sull’isola, eppure malgrado si tenesse informato su tutto con metodica cura da quanto ne sapeva c’era solo una persona al mondo a portare il soprannome di Massacratore ed era il vicecapitano dei pirati di Kidd.
«Tobe quella diceva d’averla trovata ieri, ad una festa all’Emporium. Dev’essere ancora nei paraggi, le gallerie sono chiuse.» rammentò in uno slancio di ottimismo il compare accanto, accarezzando languido sotto la maglia sbrindellata il filo del proprio coltellaccio dall’impugnatura d’osso.
«Col Massacratore faremmo più soldi però, quel tipo ha detto che raddoppiera ogni taglia!» lamentò avido un altro poco dietro e il tipo con i volantini si girò a fulminarlo con gli occhietti da talpa.
«Va ai primi livelli a cercarlo allora. Io preferisco tenermi la testa sul collo e avere le tasche piene per una sgualdrina piuttosto che rischiare di crepare a mani vuote-» berciò a mò di rimprovero verso di lui, ma lo sguardo cisposo gli cadde poco più indietro, dove Trafalgar se ne stava ad osservarli meditando dopo quell’ultimo commento dei modi originali per sbarazzarsi di loro senza dover sentire altro.
L’uomo probabilmente non aveva idea del perché li ascoltasse né della sua conoscenza con Aya, impiegò qualche secondo di troppo per riconoscerlo tra la sfilza di ricercati di cui doveva aver memorizzato i volti per mestiere e come lui il resto del gruppetto, voltatosi indietro per capire le ragioni del suo silenzio. Quando i suoi due unici neuroni s’accordarono per trasmettergli le informazioni e farlo agire, la kikoku era già sfoderata e Law gli regalò impassibile un ultimo secondo prima di anticiparlo.
«Temo di non poter lasciare la testa a nessuno di voi, desolato.» esalò strascicato, privandoli in gruppo di quell’inutile propagine del corpo di cui spesso i cacciatori di taglie avrebbero serenamente potuto far a meno.
Sette teste rotolarono piangendo davanti alle sue scarpe, mentre i corpi si sbracciavano alla cieca e benché avesse voluto riservar loro una fina più pittoresca li appiccicò alla fiancata d’un negozio per toglierli dalla strada ed evitare che dessero troppo nell’occhio.
Lui ed Aya non avrebbero avuto alcun futuro roseo considerando che forse lui non ne avrebbe neppure avuto uno e l’incidente, per quanto piacevole fosse stato, che era avvenuto tra loro sarebbe rimasto un ricordo dal retrogusto di tè, ma ciò non implicava che se ne sarebbe stato con le mani in mano a guardare chiunque avesse preso di mira la ciurma di Eustass-ya mentre tentava di catturarla e peggiorava la situazione già critica. Quando l’avrebbe ritrovata ed era strano che non fosse accaduto fino ad adesso conciata a sera com’era in piena mattina, sarebbero tornati al Karyukai avrebbero fatto i bagagli e si sarebbero salutati per non vedersi forse più al pass per Sanko, tornando ognuno alla propria dimensione quotidiana lontano dall’altro malgrado l’imprevisto legame che li univa e i guai in cui finivano sempre per invischiarsi.
Deciso a seguire quel piano, l’unico ed il solo sensato, quasi rischiò l’infarto vedendosela sbucare da dietro le spalle inaspettata e di corsa come solo lei sapeva essere benché il suo haki della percezione non avesse fatto altro che cercarla nell’ultima mezz’ora senza risultati.
«Cosa ti avevano fatto di così tremendo da finire appesi come quadri?» domandò interdetta, fissando le teste.
Riprendendosi dalla sorpresa per non perdere la faccia, Law la squadrò da capo a piedi, ignorando il disappunto istintivo per l’abito che indossava e che avrebbe potuto fare da faro su una scogliera tanto accecava, per controllare che fosse intera.
«La gente non bada all’importanza delle parole.» commentò evasivo, puntando in fine le iridi grigie sulla figura che stava alle spalle di Aya con espressione sconvolta e un po’ ammirata per i prodigi dell’ope-ope.
«Ne a quella delle presentazioni. Law lui è Amaro, una mia vecchia conoscenza. Amaro? Lui è Law.» fece gli onori Aya, richiamando l’attenzione dell’uomo che l’accompagnava.
Ancora distratto dal macabro spettacolo nel quale era incappato si girò con aria trasognata riprendendo un po’ di contegno solo quando l’ebbe identificato, allora si chinò appena con il capo in una piccola riverenza di saluto che Law ricambiò a stento con un’occhiata diffidente.
Ad Aya le distinzioni non piacevano, di qualsiasi sorta esse fossero. Adorava leggere per esempio e Law l’aveva vista incredulo affrontare con entusiasmo ore di lettura intensa di romanzi come di tomi di medicina per i quali non aveva le competenze necessarie passando per le istruzioni dei bocchettoni d’aerazione, per cui non era una novità che il suo spirito d’uguaglianza la portasse a bizzarre conoscenze. Tuttavia bastava pensare ad Eustass-ya e negli ultimi due giorni a quella psicopatica di Celya per rendersi conto di quanto pericolosa potesse essere quella sua abitudine. Lo faceva sempre con criterio, aveva specificato quando Law glielo aveva fatto notare, ma di che criterio si trattasse era piuttosto dubbio. Ora, lui non aveva alcuna forma di pregiudizio verso l’uomo che etichettava come una sua vecchia conoscenza, il fatto però che saltasse fuori nel mezzo del caos nel quale si trovavano era decisamente sospetto.
«È… impressionante.» lo sentì commentare riportando lo sguardo sui cacciatori di taglie svenuti, di nuovo con espressione combattuta tra orrore ed interesse.
«Lo è la quantità di gente in cui incappi.» appurò Law, deviando la propria attenzione direttamente su Aya che pronta lo prevenì da ulteriori commenti sarcastici che pungolassero Amaro.
«Era al servizio della mia famiglia e non per lavoro… lo avevo scambiato per un cacciatore di taglie al molo, ma stava solo controllando che uno di loro non mi avesse catturata. Pare davvero che ce l’abbiano con me… è un brav’uomo, mi stava accompagnando a cercarti.» spiegò sorridendo affettuosa nel vederlo tentare con scarsi risultati di fingersi indifferente alla presenza degli spettatori privi di sensi e corpi.
Trafalgar non poté suo malgrado che farsi andare per buono quel riassunto ed accettare la presenza seppur discreta di Amaro. In primo luogo perché era altamente improbabile che Aya cambiasse opinione sulla base della logica per cui proprio da un uomo che la spiava e che aveva anni di schiavitù sulla spalle di cui vendicarsi avrebbe dovuto diffidare. In secondo perché conosceva sin troppo bene il suo talento nel far capitolare chi si trascinava appresso ed ebbe l’ennesima conferma di quell’ultima terribile verità nel sentire una scarica molesta al pensiero che fosse lei a star cercando lui.
«È ad Eustass-ya che mirano. Vogliono togliere di mezzo lui e la sua ciurma, ma com’è ovvio l’interesse s’è esteso anche a te.» rivelò, cercando di concentrarsi su ciò che davvero richiedeva attenzione pur non risparmiando un pizzico di velenoso sarcasmo e bastò che lo nominasse affinché Aya s’irrigidisse.
«Cosa c’entra Kidd?» s’informò seria, sotto lo sguardo confuso di Amaro che tentava in silenzio di trovare il filo della discussione alla quale stava provando ad unirsi con ritardo.
Law le concesse appena un’alzata di spalle, facendo dondolare le nappe della kikoku.
«Credo sia lui il pirata che sta distruggendo i primi livelli. Purtroppo non ho il piacere di conoscerlo abbastanza da trovarvi anche una ragione, semmai ne abbia sempre una per fare risse, ma non ci è d’aiuto nella situazione in cui rischiamo di finire con quel marine di mezzo.» s’espresse critico, mentre Aya fissava un punto imprecisato pensierosa forse nel tentativo di venirne a capo ed Amaro decideva di slancio d’immischiarsi.
«Marine? C’è un marine qui?!» chiese, trattenendo con inaspettato controllo l’allarmismo nel quale Law avrebbe scommesso di vederlo precipitare con tanto di camicia strappata alla notizia com’era accaduto agli altri al Karyukai.
«Ko gli ha affidato la mia salvezza lontano da Marijoa e purtroppo è una scimmia tutta d’un pezzo.» mormorò Aya a mò di chiarimento, facendogli sollevare interdetto le sopracciglia per quel appunto all’apparenza campato in aria.
Trafalgar non condivise con lui la confusione per le parole di Aya ed anzi finì per leggervi qualcosa di più tra le righe che lo mise in allerta.
Poche volte l’aveva vista arrabbiata ed erano state tutte occasioni nelle quali quella famiglia di marines aveva svolto un ruolo più che di comparsa, non ultima in ordine d’importanza la sfuriata all’emporio di Madame Faraouki dove era stata sul punto di consegnare Shizaru alla gogna di persona pur di liberarsene. Nessuno avrebbe avuto il minimo dubbio nel credere che la sua ostilità fosse irreparabile dopo ciò che le avevano fatto in quei tre anni di libertà sudata, eppure adesso non aveva udito che una traccia di disappunto nella sua voce e pareva più di rassegnazione che d’odio. Di colpo gli venne in mente lo stato nel quale l’aveva trovata sulla banchina del molo e gli fu chiaro che dovesse aver preso la decisione della vita con una stoccata controcorrente che rivoltava il suo mondo personale a favore di uno sforzo di bontà di cui Law non sarebbe mai stato capace.
«Avere una città che ti dà la caccia per aver infranto tutte le sue regole sarebbe un’esperienza meno piacevole di un gruppo di cacciatori di taglie.» le fece notare, osservandola allontanarsi appena da loro per guardare tra la folla caotica e chiassosa del mercato dei miracoli.
Lo disse con tutto l’affetto e il cinismo di cui si sapeva capace nei suoi confronti, ma capì d’anticipo vedendola sbirciarlo senza voltarsi indietro che non gli avrebbe dato retta poiché aveva preso da chissà quanto quella decisione, in compagnia dei ricordi della donna che l’aveva salvata dal baratro, sulla banchina bollente di una città che non esisteva.



Erano trascorsi pochi giorni da quando si erano conosciuti, accasciati entrambi nel budello lindo che erano le gallerie di Down Under, sotto indicazioni fuorvianti e piegati dal dolore per acciacchi differenti. Si erano guardati di sfuggita, avevano continuato a sopportare in silenzio per non disturbare l’altro ed interrompere il silenzio irreale che vigeva in quei cunicoli, finché trascorsa un’ora Shizaru non aveva potuto fare a meno di avviare una conversazione per non sembrare scortese andandosene. Amaro gli aveva rivelato d’essere stanco per il troppo lavoro e lo sforzo di trascinare da un capo all’altro del mercato la sua farmacia mobile, allora Shizaru ne aveva approfittato per chiedere un rimedio – più per garbo che per volontà – e il dolore alla spalla che aveva minacciato di immobilizzargli il braccio era svanito grazie ad una pralina colorata dal sapore di gyuhi e pepe. Si era impegnato a costruire per Amaro una nuova farmacia più leggera da trasportare per ripagarlo e il giorno seguente, dopo aver portato a termine il lavoro con rinnovata forza e i dovuti saluti, si erano separati grati l’uno all’altro. Lo ricordava curvo, dal volto livido e gli occhi arrossati per la carenza di sonno, più un’ombra che trascinava i piedi e di cui non ci si sarebbe potuti serenamente accorgere, certo non l’uomo dal sorriso bonario e dalla rinnovata energia che gli stava inaspettatamente di fronte con un piatto di zuppa di maiale fumante.
«Sono felice che i kusudama abbiano funzionato… per le gambe non posso fare niente purtroppo, non saprei nemmeno da dove cominciare e dubito basti un farmaco…» si rammaricò dopo aver mandato giù un boccone succulento, guardando con soggezione lo stato in cui Trafalgar Law lo aveva ridotto per tenerlo a bada da vivo.
«Hai già fatto abbastanza per me. Me lo merito, in qualche modo.» lo confortò Shizaru, credendo davvero a ciò che diceva e con lui concordarono sia la giovane mercante d’arte che gli Heart carichi di provviste.
«In più di qualcuno.» berciarono accaniti contro di lui, scoccandogli delle occhiatacce che avrebbero provocato terrore e senso di colpa in chiunque se non fossero state interrotte da un brontolio impossibile da ignorare.
«Si può sapere da quanto tempo non mangiavi tu?!» ringhiò contrariata dall’interruzione Celya, trafiggendo Amaro che tentava boccone dopo boccone di placare i morsi della fame.
Il farmacista rimase con un pezzo di maiale bloccato in bocca ad osservarla in silenzio in un misto di dispiacere e soggezione finché con vergogna non lo mandò giù a rilento, asciugandosi con due dita gli angoli delle labbra per poter rispondere.
«… dieci giorni più o meno. Aspettavo che Madame Faraouki avesse il suo ordine.» bofonchiò in sua discolpa, senza additare neanche per errore la donna gigantesca che sedeva placidamente poco più in là con il suo pappagallino per non offenderla.
A Shizaru una simile confessione provocò un moto di simpatia nei confronti di Amaro e la breve risata che si lasciò sfuggire l’uomo di nome Sanai tra l’incredulità degli Heart gli diede la conferma di non essere il solo, ma dall’alto della sua inclemenza Celya si esibì per contro in una smorfia di disgusto seccato. Lo fece con una tale efficacia da far andare il cibo di traverso ad Amaro benché l’avesse già ingoiato e quando fu certa d’aver fatto presente il proprio disappunto, si girò a braccia serrate verso la Signorina seduta ad osservarli.
«Aya lo dico per il tuo bene. Dovresti smetterla di raccattare tutti i miserabili che incontri!» la esortò perentoria, mentre l’altra le rivolgeva appena uno sguardo di pazienza divertita.
«Ha ragione Aya-sama.» concordarono una volta ancora gli Heart, dandole manforte.
Ammutolito e ancora confuso dalla ventata d’aria nuova che pareva aver cancellato le minacce incombenti su di lui, Shizaru assistette dalla propria sedia alla scenata che si profilava con l’impressione di star seguendo una farsa da teatro di strada. Durante gli scontri al mercato aveva subito dei colpi, la perdita delle gambe era stata uno shock non indifferente che lo aveva tramortito per qualche minuto e non negava di non star attraversando uno dei momenti più sereni e riposanti della sua vita, ma non si trattava di uno scherzo delle sue orecchie e dei suoi occhi. Le stavano davvero rimproverando il suo comportamento e mai Shizaru avrebbe pensato in vita sua d’assistere ad una cosa simile.
«Se devi necessariamente indirizzare la tua compassione su qualcuno, prendi un animale da compagnia.» la incoraggiò speranzosa, cedendo pian piano all’affetto sino a perdere il tono di rimprovero per uno da amica.
«Sarebbe più semplice in effetti.» s’intromise quasi con un sospiro Trafalgar Law a quell’idea e il suo vicecapitano non mancò di cogliere la palla al balzo per andargli dietro, sebbene a modo proprio.
«Un’orsa magari O-jochu!» propose entusiasta, facendo voltare di scatto il moro e strappando una risata soffocata alla Signorina che dovette tapparsi la bocca per non esplodere.
Una goccia di miele trapassò il pavimento in mezzo alle sue zampe per quel suggerimento. Non abbastanza vicino da fargli del male, ma quanto occorreva per fargli bofonchiare delle scuse con tanto d’inchino di rammarico e solo dopo averne ascoltate una decina in serie Celya tornò a girarsi verso la Signorina.
«Un pappagallino come quello di Madame per esempio. Piccolo, grazioso, non ti sta mai tra i piedi, lo liquidi con un sacchetto di semi ed è intelligente quanto tutti loro messi insieme.» rincarò di rimando, meritandosi sta volta una serie di occhiatacce dagli uomini presenti che aveva additato con disinteresse.
«Hai la minima idea ti quanto sia offensivo quello che hai appena detto?» le domandò risentito Sanai dal proprio angolo e lei lo fulminò sul divano per aver osato intromettersi.
«Tu e la tua virilità offesa potete accomodarvi fuori dal Karyukai dato che nessuno vi ha invitato ad entrarci.» cinguettò velenosa, riducendo le iridi chiare sino a che non diventarono due punte di spillo che non preannunciavano nulla di lieto.
Temerario, Sanai le tenne testa finché la minaccia non fu tale da riempire l’aria d’un intenso odore di miele e allora dovette tastarsi con finto acciacco la schiena per non ammettere la sconfitta senza battaglia.
«Sto contribuendo alla causa con la saggezza che ho accumulato negli anni.» spiegò per evitare di finire incollato al soffitto del Karyukai o peggio, soffocato da una massa viscosa e zuccherina color oro.
«Se speri di uscirtene con una frase del genere sei più rimbambito di quanto sembri.» finì di freddarlo sarcastico Trafalgar, evitando ad occhi chiusi per il tedio della conversazione uno scappellotto che avrebbe dovuto rammentargli forse di portar rispetto verso chi era più in là con gli anni di lui.
Estraneo a ciò che accadeva Shizaru assistette ai botta e risposta che si susseguirono un po’ tra tutti ancora per qualche minuto, guardando quel gruppetto di individui agitarsi chi più chi meno su faccende disparate attorno alla figura della Signorina, che dal basso della propria sedia pareva quasi divertirsi.
Sanai gli era totalmente sconosciuto, non sapeva chi fosse, da dove venisse né cosa c’entrasse; Madame Faraouki era la proprietaria del Karyukai, una delle persone più in vista della città, ma perché si prestasse ad ospitare una simile ressa era un mistero; Celya lavorava per lei e pareva aver stretto amicizia con la Signorina, tuttavia Shizaru non era certo che fosse saggio lasciargliela vicino, forse non era saggio lasciarla vicino a nessuno; Amaro era un uomo gentile e per quanto ne sapeva di buon cuore, ad ogni modo la sua presenza era fuoriluogo in quel momento quanto la zuppa di maiale che stava ingurgitando per colazione; poi c’erano gli Heart e su di loro Shizaru avrebbe potuto elencare centinaia di rapporti della Marina, malgrado ciò in nessuno era mai stato accennato alle ragioni per cui persistevano a spalleggiarla né Trafalgar Law si era speso nel dargli spiegazioni quando aveva chiesto. Erano un’accozzaglia di gente non esattamente rispettabile e che tuttavia a modo proprio pareva interessarsi alle sorti della Signorina, ma per quanto parlassero e s’infervorassero cercando di tirarla dalla propria nessuno si stava preoccupando davvero di ciò che contava.
«Signorina… mi spiace d’essere così insistente, ma è necessario che al più presto troviamo una soluzione.» le rammentò serio, intromettendosi nella calca per richiamare almeno lei all’attenzione.
Sapeva che era furiosa e che non aveva intenzione di dargli retta, quantomeno però doveva rendersi conto di ciò cui stava rischiando di andare in contro continuando a tirare d’azzardo contro il Governo mondiale. Non importava se le sue parole le fossero entrate in testa quando lui era già sulla forca a penzolare, valeva la pena per Shizaru di persistere e patire la propria fine a capo chino se alla fine avrebbe almeno potuto esserle d’aiuto.
«Ne ho una definitiva, tranquillo.» annunciò candida, lasciandolo sconvolto a boccheggiare tra il silenzio improvviso che aveva colto gli altri.
Turbato da quella novità che gli giungeva alle orecchie quando si sarebbe aspettato di ricevere un insulto, la guardò sconcertato, mentre spostava i propri occhi color ambra direttamente su di lui con serena decisione. Un brivido gli percorse la schiena incrociandoli ed ebbe il terrificante timore che in quelle parole si nascondesse una dichiarazione di guerra contro l’Ordine prestabilito.
«… combattere non è la via giusta da percorrere-» mormorò greve, sentendo il sangue gelarsi.
L’aveva inseguita per mezzo mondo, sacrificando uomini, fatiche lavorative e la propria famiglia. Lo aveva fatto sempre, persino mentre sbagliava, con l’unico scopo di proteggerla e tenerla lontana dai pericoli che avrebbe potuto scatenare perdendo il senso della realtà lontana da casa. Non poteva credere d’aver fallito a quel modo e di doverla vedere tentare di distruggere ogni cosa per vendetta, morendo schiacciata dal rancore.
«Combattere? Io non voglio dichiarare guerra a nessuno, non pianificherò di distruggere Marijoa. Una parte di me lo vorrebbe lo ammetto, ma non accadrà perché non ne sarei capace purtroppo e perché è ciò che invece avrebbero fatto loro al mio posto. Quando non riescono a controllare qualcosa, quando qualcosa li spaventa, la distruggono. Io sarò migliore di loro come voleva Ko, per cui accetto il tuo aiuto.» lo sorprese ancora.
Ormai totalmente sconvolto Shizaru divenne bianco in volto e rimase attonito ad osservarla aspettando di sentirsi ridere in faccia per un crudele scherzo perfettamente riuscito, ma non accadde nulla di tutto quello e la Signorina Aya persistette a fronteggiarlo decisa dalla propria sedia con l’aspetto quasi d’una persona diversa che lui era riuscito ad intravedere solo durante il disastro di Serranilla dal ponte della nave di Eustass Kidd.
«Cosa?!» chiesero tutti altrettanto stupiti in coro, meno Trafalgar Law d’improvviso attento ed Amaro che smise di mangiare per non perdere il filo della discussione.
Nessuno ricevette ulteriori spiegazioni e vedendosi tacitamente interpellato dagli occhi ambrati che ancora lo fissavano in attesa, raccolse il coraggio per chiedere e conoscere la propria sorte.
«Dice davvero? Verrà con me?» balbettò incredulo quasi temendo di rovinare le cose con la propria voce, ma la Signorina negò con il capo senza rabbia.
«Verranno loro quando saremo usciti tutti di qui.» precisò serafica, allungando un dito verso Amaro e Celya che per l’occasione si accordarono in uno strepito che minacciò di traumatizzare i clienti presenti nell’Emporio.
«Cosa?!» domandarono sconvolti, ricevendo appena un sorriso di incoraggiamento e scuse.
«Portali lontano, in un posto dove possano essere ciò che vogliono e nessuno glielo impedisca.» diede convinta direttive, auspicando per entrambi un futuro roseo cui non avrebbe assistito.
Shizaru non aveva idea del perché tenesse tanto alle sorti di quei due da anteporli alla propria e sì, lo trovava un pensiero degno di un nobile e della ragazza che aveva sospettato fosse già nella cabina della sua nave durante la prigionia verso Marijoa, ma no, non poteva accontentarla. Non in quel momento, quando era lei ad aver bisogno d’essere nascosta in un luogo remoto per continuare a vivere senza che qualcuno glielo impedisse per sempre.
«Signorina io devo aiutare lei!» tuonò quasi sull’orlo della disperazione per la sua testardaggine, ricevendo presto rinforzi inaspettati dai due interessati.
«No, Aya, no… io sto benissimo qui, scherzavo lamentandomi dei guadagni e del banchetto! Non ho bisogno di nulla di più di ciò che ho, davvero. Non preoccuparti tanto per me, devo solo aggiustare un po’ il tiro.» assicurò paterno Amaro, abbandonando senza pensarci il proprio pasto per cercare di convincerla.
«Non ho la benché minima intenzione di andarmene da questo buco infernale con una scimmia, ci siamo intesi?! Basto e avanzo a me stessa per altre cento vite!» ringhiò offesa Celya, perforando il pavimento con il tacco in un tale stato di rabbia che la crepa inclinò il tavolo e parecchie piastrelle pià in là.
Sorda a suppliche e rimostranze, Aya non batté ciglio e persistette nel puntarlo con l’aria di chi non è disposto ad ammettere il benché minimo cambiamento del proprio piano.
«Lo farai, aiutandomi ad aiutare loro.» troncò lapidaria.























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Note dell’autrice:
Ho scritto queste brevi noticine in spiaggia, per cui per una volta mi sono immedesimata in voi anime pie che leggete in estate questo abominio di storia. Ho avuto pietà e in fondo per una volta posso anche fare a meno di dare spazio al mio egocentrismo narrativo.

- Shimenawa: le avrete di certo già viste. Si tratta delle gigantesche corde intrecciate che vengono appese ai templi shintoisti o, in misure meno ingombranti, a volte adornano capi e cintole di alcuni sacerdoti persino negli anime di seconda categoria. Hanno il compito di delimitare il mondo terreno da quello ultraterreno, motivo per cui segnano il limite ultimo entro cui i pellegrini possono spingersi nei luoghi sacri o indicano che quel luogo/oggetto/persona è di proprietà o fa da intermediario ad un kami.
- Amaro: Avevo in principio intenzione di assegnargli un altro frutto, ma Oda me lo ha fregato durante la saga di Whole Cake per cui ho ripiegato sul Kinkou Kinkou no Mi, il frutto dell’equilibrio. Tramite esso ha la possibilità di concederlo o sottrarlo ad altri, mantenerlo persino in situazioni improbabili come per esempio la discesa dalla scritta di Down Under e manipolarlo in ogni suo aspetto e sfaccettatura. Sarebbe tornato utile a Cora in effetti… ma ad Amaro sta meglio, fidatevi.
- Gyuhi: sono dei dolci tipici di Okinawa molto simili ai mochi. Differiscono tuttavia per il gusto che è molto delicato persino per i giapponesi, il cui palato credetemi è un radar dalle papille discutibili. Solitamente sono alla frutta e per questo vanno a ruba tra i macachi di montagna che sono soliti sguazzare negli onsen nipponici… ho tirato un colpo basso a Shizaru, aye aye.


  
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