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Autore: Emily27    24/07/2017    3 recensioni
[Cast The Walking Dead]
(Norman Reedus)
Non m'importa se si chiama Norman Ree-dus, gli lancio un'occhiata in grado di congelare l'intera Florida.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cuore di panna




 
L'oceano, la sabbia, una piacevole brezza, un cocktail e l'ombrellone di paglia, che cosa desiderare di più dalla vita? Magari Patrick Dempsey sul lettino accanto al mio... Ma mi devo accontentare della mia amica Francesca, compagna di mille avventure (e sventure) e anche di questa. Abbiamo deciso di concederci una super vacanza: una settimana qui a Miami Beach, poi via verso la Grande Mela, la nostra tanto sognata New York.
Francesca si sta arrostendo al sole, mentre io mi tengo al riparo sotto l'ombrellone, dato che la mia pelle color della mozzarella si è già arrossata il primo giorno. Bevo l'ultimo sorso del cocktail e appoggio il bicchiere sul tavolino, mentre da dietro le lenti degli occhiali da sole osservo due tipi notevoli che passano sul bagnasciuga. La prima fila è davvero un ottimo punto d'osservazione.
A metà pomeriggio inizio ad avvertire un certo languorino, avrei voglia di un gelato.
«Vado a prendere un cono, vuoi qualcosa dal bar, Fra?», domando alla mia amica, mentre osservo la sua schiena che sta diventando di un poco rassicurante rosso aragosta.
«No, grazie», mi risponde lei con voce sonnolenta.
«Dovresti venire sotto l'ombrellone, così rischi di bruciarti».
«Hmm... Cri, sembri mia madre!».  
«Okay...» dico rassegnata. «Io vado».
Mi alzo e m'infilo le infradito, dirigendomi poi al bar della spiaggia, popolato da bagnanti che bevono e spiluccano stuzzichini con il sottofondo di musica latino-americana. Nell'all inclusive sono compresi anche i gelati, una maledizione per la linea e il bikini nuovo che ho comprato il giorno prima appena arrivata, soprattutto da quando ho scoperto che anche a Miami Beach esiste il cornetto Algida, il mio preferito. Apro il freezer e vedo che ne è rimasto soltanto uno, ed è mio. Allungo una mano per prenderlo, quando un'altra mano, maschile, s'insinua tra la mia e il cornetto, afferrando quest'ultimo. Resto a bocca aperta, ed è con questa espressione che sollevo lo sguardo per vedere a chi appartiene la bieca estremità.
Il suo proprietario è un uomo dai capelli scuri lunghi quasi fino alle spalle, il pizzetto, gli occhi azzurri dal taglio stretto e che porta un cappellino nero. Mi guarda come un bambino soddisfatto della sua marachella. Gli occhi mi cadono sulla parola Norman tatuata sul suo petto in alto a sinistra, si chiama dunque così l'infame? Chiudo la porta del freezer con un gesto stizzito e mi metto una mano sul fianco.
«That was my ice cream», affermo già sul piede di guerra.
Lui assume un'espressione dispiaciuta. «Sorry...».
Per una frazione di secondo ci credo, che si sia riabilitato dall'infamia. Poi mi indica il freezer.
«There are many others».
Ora, ogni persona dotata di gentilezza e un minimo di cavalleria, che non guasta mai, mi consegnerebbe il cornetto e si prenderebbe uno dei tanti altri gelati, invece no, lui scarta il cono e poi morde la granella di nocciola e il cioccolato che lo sormontano, proprio davanti ai miei occhi colmi di sconcerto. Lo odio e odio il suo sguardo irriverente.
«Spero che ti vada di traverso!», sibilo in italiano, perché in questo momento non mi viene in inglese, ma lui avrà sicuramente capito che non è una cosa carina.
Me ne vado a grandi passi per tornare al mio ombrellone. Ciò che mi fa incazzare di più non è il fatto che quel tipo abbia preso l'ultimo cornetto sapendo che lo avevo visto prima io, ma il modo in cui mi ha presa in giro. Ma chi lo conosce?! Se voleva far colpo su di me si è sbagliato di grosso.
Quando arrivo all'ombrellone Francesca è ancora al sole, sempre sdraiata a pancia sotto sul lettino, e sta scrivendo sul cellulare. Solleva la testa e mi domanda: «Niente gelato?».
«No», rispondo mentre mi siedo al mio posto e prendo anch'io il telefonino, «un tizio me l'ha rubato».
«Rubato?!».
Le racconto l'accaduto ancora seccata, poi lei scoppia a ridere.
«Brava, ridi delle mie disgrazie».
«Almeno era carino?».
«Così così», rispondo sapendo di mentire.
Scaccio dalla mente l'incontro di poco fa, mi levo gli occhiali da sole e controllo Facebook e WhatsApp, fino a quando noto un movimento nell'ombrellone alla destra del nostro, che dista parecchi metri come tutti gli altri in questa spiaggia dove lo spazio vitale è una prerogativa. Aguzzo la vista e guardo più attentamente: è proprio lui, il tipo del bar. Che maledetto.
Oltre al cappellino ha gli occhiali da sole e sta stendendo un telo sul lettino, ovviamente con una mano sola, perché l'altra regge il cornetto Algida. Facendo risalire lo sguardo dal costume-boxer, noto un altro tatuaggio sulla sua schiena, che da qui mi sembra composto da due figure alate. In altre circostanze lo avrei definito come un figo pazzesco, ma in queste è solo uno strafottente ladro di gelati.
«Quello è il cafone del bar», dico a Francesca indicandoglielo con un cenno della testa. Non mi preoccupo di parlare a bassa voce, anche se il tipo dovesse sentire dubito che conosca l'italiano, e se lo conosce tanto meglio, che sappia cosa penso di lui.
Francesca non mi risponde, non dà segni di vita e guarda in direzione del nuovo arrivato, che nel frattempo si è disteso sul lettino. La mia amica se ne sta con la bocca semiaperta e gli occhi sbarrati.
«Fra...?».
Finalmente riesce ad articolare una frase. «Quello è... è Norman Reedus...».
«Norman chi?», domando ricordandomi del tatuaggio sul suo petto.
«Norman Ree-dus!», risponde lei scandendo le sillabe del cognome con l'eccitazione nella voce. «Il Daryl Dixon di “The Walking Dead”!».
«Ah, la serie con gli zombie che tu adori, quella robaccia». Non ho mai avuto la minima intenzione di guardare quel telefilm pieno di esseri disgustosi, nonostante Francesca me ne decanti ogni volta le storie e la presenza di elementi maschili degni di nota. A quanto pare uno di questi è l'infame: una ragione in più per non guardare la serie.
«Norman si trova a qualche metro da me, non posso crederci!».
Io l'ho avuto a qualche centimetro e gli avrei tirato un pugno sul naso.
«Tu hai avuto un incontro ravvicinato con lui e vi siete anche parlati!», continua a urlare a bassa voce Francesca. «Ti rendi conto!?».
«Che fortuna eh...».
La mia amica è agitata come il ghiaccio nello shaker, la osservo mentre si scioglie i lunghi capelli neri e si guarda nello specchietto che ha estratto dalla borsa da spiaggia.
«Io vado da lui», annuncia stoicamente, «non posso lasciarmi sfuggire un'occasione del genere!». Trae un respiro profondo, prende il cellulare e si alza dal lettino, io le mostro il pollice rivolto verso l'alto.
Proprio mentre Francesca s'incammina verso l'uomo dei suoi sogni, quest'ultimo si volta verso di me e dà una bella leccata al mio gelato.
Idiota.
Non m'importa se si chiama Norman Ree-dus, gli lancio un'occhiata in grado di congelare l'intera Florida. Mi raccolgo i riccioli ramati con un fermaglio e prendo in mano il libro che ho portato con me, “La sostanza del male”, e lascio Francesca alla sostanza della cafoneria. Contenta lei...
Apro il libro, ma il mio sguardo corre all'ombrellone vicino, dove vedo la mia amica farsi dei selfie con Mr Zombie, il quale sembra davvero disponibile e gentile con la sua fan. Ma questo non cambia la mia opinione su di lui.
Quando Francesca è di ritorno, euforica e saltellante, le domando con ironia: «Già qui? Credevo ti facessi spalmare la crema» (la sua schiena ne avrebbe bisogno).
«Guarda!», esclama sedendosi accanto a me e mostrandomi le immagini di loro due sul telefonino. «Norman è semplicemente meraviglioso», dice in un sospiro. Estasiata, mi racconta la sua esperienza e io l'ascolto interessata dicendomi contenta per lei, mentre con la coda dell'occhio osservo Norman al sole che smanetta con il cellulare.
Poco dopo andiamo a fare il bagno nuotando e giocando fra le onde come due bambine, poi torniamo ai nostri lettini dove ci stendiamo per asciugarci con il calore del sole,ascoltando musica dalle cuffiette, fino a quando decidiamo che è ora di tornare in hotel. Per tutto il tempo lui ha guardato il telefonino, fumato una sigaretta e bevuto una birra che è andato a prendere al bar, è anche rimasto senza fare niente, con le braccia incrociate dietro la testa, e posso scommettere che abbia continuato a scrutarci attraverso le lenti scure.
Raccogliamo la nostra roba e ci copriamo con i parei colorati, dopodiché, prima di andare via, Francesca lo saluta con la mano rivolgendogli un sorriso a trentadue denti. «Goodbye, Norman!».
Lui ricambia agitando la mano. Io mi limito a sollevare il mento.
L'albergo è a due passi, proprio sulla spiaggia, e facciamo il nostro ingresso nella grande ed elegante hall, dove sostano altri vacanzieri. Dietro il bancone, con il suo impeccabile completo blu e i capelli neri impomatati, il concierge portoricano di nomeVictor ci accoglie. Non conosciamo l'inglese alla perfezione, ma abbastanza per capire cosa ci viene detto e cavarcela a rispondere.
«Bentornate Misses, com'è andato il pomeriggio in spiaggia?».
«Magnificamente, non poteva andare meglio!», gongola ancora Francesca.
«Benissimo, grazie, si stava da Dio (vicini di ombrellone a parte)», rispondo io.
«Mi fa piacere. Buona continuazione, Misses».
Ringraziamo e salutiamo il gentile Victor e prendiamo l'ascensore, che ci conduce fino al piano in cui si trova la nostra camera, spaziosa e con un balcone con vista sull'oceano. Apro la porta con la tesserina magnetica ed entriamo nella stanza che profuma di lavanda, dove regnano ordine e pulizia dopo il passaggio della cameriera. Francesca si siede sul suo letto e guarda per l'ennesima volta i selfie con Norman.
«Chissà se lo rivedremo in spiaggia... Oppure qui in albergo!».
Della spiaggia e del bar, dietro pagamento, possono usufruire anche coloro che non soggiornano in hotel, quindi lui potrebbe far parte di questa o quell'altra categoria.
«Anche no. Magari è solo di passaggio».
«Eddai Cri, non puoi avercela con Norman Reedus, sei pazza!», mi riprende. «E solo per un gelato».
«Non è per il gelato, ma per una questione di principio!», ribatto convinta.
«Appunto, un principio di pazzia!».
Le lancio il telo che ho appena tirato fuori dalla borsa e ridiamo, poi vedo sul volto di Francesca una smorfia che sembra di dolore.
«Tutto bene, Fra?», le domando aggrottando la fronte.
«Certamente», risponde sicura. «Vado a farmi la doccia».
Mentre lei scompare in bagno, io esco sul balcone a stendere i teli. Ammiro le onde in lontananza, godendo della piacevole brezza che mi accarezza la pelle. Sono felice di essere qui, a Miami Beach, con l'oceano a pochi metri e il sole della Florida, e con la prospettiva di New York come tappa successiva, voglio godermi al massimo questa vacanza insieme alla mia migliore amica.
Poco dopo quest'ultima esce dal bagno avvolta nell'asciugamano che le lascia scoperta la schiena, dove vedo il motivo della sua smorfia di dolore: là la sua pelle è violacea.
«Fra... la tua schiena... ti sei ustionata!».
«Ustionata? Che dici... Non è niente», sostiene con noncuranza.

Mezz'ora dopo mi trovo nella farmacia più vicina per acquistare una pomata per le scottature solari. Ne chiedo una forte, così sono sicura che farà effetto, non vorrei che Francesca debba visitare anche il pronto soccorso di Miami Beach.
Una volta tornata in albergo salgo nella nostra stanza e trovo la mia amica coricata sul letto a pancia in giù, sopra indossa soltanto il reggiseno, la pelle ustionata e dolorante a prendere aria.
«Arriva la medicina!».
«Grazie, Cri», mugugna.
«Adesso te ne spalmo una bella dose e domani andrà meglio», la incoraggio tirando fuori il tubetto di pomata dalla confezione. «O preferisci che lo faccia Norman Reedus...», dico allusiva.
«Magari...».
Dato che l'infame non è reperibile, ci penso io farle da infermiera. «Comunque dovevi stare all'ombra, te l'avevo d...», l'ammonisco, ma Francesca non mi lascia terminare la frase.
«Non dirlo!», esclama con un movimento che le provoca dolore. «Cri, penso di non essere nelle condizioni di scendere per la cena, vai tu e abbuffati anche per me», afferma desolata.
Il buffet dell'hotel è un'esplosione di prelibatezze, ma mi dispiace lasciarla qui sofferente e andare da sola, e in ogni caso anche lei dovrà pur cenare. Così opto per un'alternativa.
«Niente affatto. Il servizio in camera è compreso nel prezzo, usiamolo».
Così ci facciamo portare la cena in stanza, tanto buon pesce e ogni varietà di dolce. Al diavolo la linea.
Dopo aver mangiato penso ancora di non uscire, preferisco tenere compagnia a Francesca, la quale giace nuovamente distesa sul letto sempre nella stessa posizione. La mia compagna di viaggio, però, insiste affinché io vada a godermi la serata, arrivando addirittura a minacciarmi.
«Se entro mezz'ora non sarai uscita di qui, straccerò il tuo biglietto per New York!».
Ovviamente so che non lo farebbe, se decido di accontentarla è perché sono sicura che insisterebbe fino allo sfinimento.
Indosso un vestitino rosso di chiffon e dei sandali dello stesso colore, mi trucco, lascio i capelli sciolti sulle spalle e sono pronta.
Oggi in albergo è in programma la serata karaoke a cui noi tenevamo tanto, non in qualità di partecipanti, ma per divertirci impietosamente delle esibizioni degli altri, così prometto a Francesca qualche video interessante e poi esco.

Nel grande giardino dell'hotel è stato allestito un piccolo palco, sul quale in questo momento una ragazza si sta esibendo in “Million reasons” di Lady Gaga, con una voce che sta incantando tutti i presenti, in parte in piedi e in parte seduti agli eleganti tavolini. È davvero brava, soltanto da applausi, penso mentre mi dirigo al bar. Ammetto di non sentirmi del tutto a mio agio a essere qui tutta sola, magari prendere qualcosa da bere mi aiuterà a sciogliermi. Ordino un mojito e scambio qualche parola con il simpatico barman. Intanto la ragazza ha finito di cantare e, tra gli applausi, viene raggiunta dal conduttore, un tipo che assomiglia a Bruno Mars, cappello compreso.
«Fantastica la nostra Jenny! Dopo ti vogliamo ancora qui. Non è vero?!».
Dal pubblico si leva un coro di Yeah!, a cui una radiosa Jenny risponde assicurando un'altra esibizione, per poi lasciare il palco.
«Bene», continua il conduttore, «ora, per movimentare un po' la serata, sarò io a scegliere sia la canzone che la persona che verrà a cantarla. Siete d'accordo?!».
Un altro entusiastico coro di Yeah! dà il consenso.
Il clone di Bruno Mars fa ricadere la sua scelta su un uomo di mezza età con la camicia hawaiana, che accetta di buon grado e sale sul palco, dove lui gli pone alcune domande per rompere il ghiaccio: si chiama David, è di Chicago, è qui in vacanza con la moglie.
Nel frattempo mi è stato servito il mojito e ne bevo un sorso, mentre viene comunicato il titolo della canzone con cui David dovrà cimentarsi, ovvero “American land” di Bruce Springsteen. Inizia a cantare e già dalle prime strofe capisco che la musica non è il suo forte, per usare un eufemismo. A Bruce Springsteen si rizzerebbero i capelli e tutti i peli sulle braccia. Faccio un video con il telefonino a beneficio di Francesca, come le ho promesso.
Mentre finisco il mojito, David scende dal palco guadagnandosi applausi per la simpatia, compreso il mio.
Il conduttore riprende la parola.
«Ed ora... vediamo un po' chi sarà il prossimo...», dice scrutando tra il pubblico.
Tra tutte queste persone, le possibilità che la sua scelta ricada su di me sono quasi pari a zero, per sicurezza, però, è meglio se mi sposto verso un gruppo di tavolini seminascosti da alcune palme. Ma non faccio in tempo ad arrivarci.
«Quella bella ragazza là in fondo, con il vestito rosso!».
Cazzo.
Avrei dovuto indossare un abito di un anonimo grigio.
Mi guardo intorno con indifferenza, con la vana speranza che esista un'altra bella ragazza con un vestito rosso.
«Sì, proprio tu!».
Bruno Mars sta indicando me, non c'è alcun dubbio, e tutti mi stanno osservando. Sono fregata. Non mi resta che dirigermi verso il palco cercando di sorridere, per non sembrare una che va al patibolo. Questo è il karma, lo so.
Non ho mai partecipato a un karaoke, ma in fondo non sarà così tragico, si tratta solo di cantare una canzone, questione di cinque minuti, rifletto quando il conduttore mi accoglie sul palco. Sotto ci sono una cinquantina di persone con gli occhi puntati su di me, più in là la spiaggia e l'oceano.
«Come ti chiami?», mi domanda lui dopo avermi consegnato un microfono.
«Cristina».
«Ah, sei italiana! Con chi sei in vacanza?».
«Con la mia amica Francesca».
«Vi siete fatte un bel viaggio negli Stati Uniti! Avete in programma altre mete dopo Miami Beach?».
«Sì, faremo tappa a New York».
Sembra un po' un interrogatorio, ma in fondo l'amico Bruno Mars è simpatico e mi sto sciogliendo (o forse è merito del mojito).
«È una città fantastica! New York... New Yooork...», canticchia imitando Frank Sinatra. «Okay, passiamo alle cose serie. Cristina, avrai l'onore di essere parte del primo duo di questa sera, canterai con un'altra persona del nostro pubblico, un maschietto per la precisione».
Bene, è una bella notizia, almeno non mi sentirò sola nella mia figura di merda.
«Chi sarà...?». Il conduttore incomincia a passare in rassegna la gente con lo sguardo, fino a quando qualcuno emerge dai tavolini in parte celati dalle palme, dove avrei voluto nascondermi poco fa, e viene verso il palco con la mano alzata.
Oh no... no...
Non posso crederci. È lui, Mr Zombie.
Indossa dei bermuda verde militare e una camicia bianca a mezze maniche che mette in risalto la sua abbronzatura, non porta il cappellino e sul suo volto aleggia un sorriso. Ma resta comunque uno strafottente ladro di gelati.
«Abbiamo un volontario!», esclama Bruno Mars mentre lui si avvicina seguito dagli sguardi estatici di donne di ogni età. «E non è niente di meno che... Norman Reedus!».
Il pubblico applaude con foga.
Norman ci raggiunge attraverso la scaletta a lato del palco, senza staccarmi i suoi occhi ridenti di dosso. Sono convinta che se qui non ci fossi stata io non si sarebbe mosso da dov'era ma, sicuramente, visti i nostri precedenti, ne ha visto qualcosa di divertente. Peccato che io sia di tutt'altra idea.
«Norman, è un piacere averti qui a cantare con noi», lo riceve il conduttore fornendo anche lui di un microfono.
«Cantare...?», domanda Mr Zombie assumendo un'aria perplessa. «Credevo di dover stare sul bersaglio di un lanciatore di coltelli, o di fare qualche imitazione, mi riesce bene quella di Andrew Lincoln...».
La sua battuta provoca le risate generali.
Dato che sono di fronte a tutta questa gente, decido di fare buon viso e sotterrare l'ascia di guerra, almeno per il tempo che sarò su questo palco. Quindi rido anch'io. Lui mi guarda e sembra apprezzare.
Quando anche il clone di Bruno Mars smette di ridere, si prosegue. «Allora, è giunto il momento che sappiate con quale canzone dovrete mettervi alla prova, che è... “You're the one that I want” dei fantastici John Travolta e Olivia Newton-John!».
Finalmente la fortuna gira dalla mia parte, ho visto Grease così tante volte che conosco la canzone a memoria, e questo mi sarà d'aiuto.
«Norman e Cristina, siete pronti?».
Lui volge lo sguardo prima verso di me e poi verso il conduttore. «Devo anche baciarla come nel film?».
Che cosa?!
«Non è necessario, ma se volete...», dice Bruno Mars divertito.
Non scherziamo. Un conto è sotterrare l'ascia di guerra, un altro è farmi baciare dall'infame.
Quest'ultimo mi strizza l'occhio, poi di nuovo quel suo sguardo irriverente (e azzurro e profondo come il mare, ma è un dettaglio), io gli faccio un sorrisetto che vuole essere un avvertimento.
Il conduttore ci lascia soli e le prime note della canzone riempiono l'aria, mentre sul monitor posizionato di fronte a noi compaiono le parole.
La strofa iniziale è di Danny e Norman incomincia: «I got chills, they're multiplyin', and I'm losin' control, cause the power you're supplyin', it's electrifyin'».
Se la cava piuttosto bene, devo riconoscerlo. Adesso tocca a me con il pezzo di Sandy, che Dio me la mandi buona.
«You better shape up, cause I need a man, and my heart is set on you. You better shape up, you better understand, to my heart I must be true», canto seguendo solo le prime parole sul monitor e andando poi a memoria.
«Nothing left, nothing left for me to do!»
Dopo quest'ultima strofa di Norman dobbiamo continuare in coro, e lui si sporge verso di me a distanza molto ravvicinata.
«You're the one that I want, ooh ooh ooh, honey...».
Andiamo avanti così, cantando da soli o insieme, accompagnati dall'entusiasmo del pubblico, qualcuno scatta foto o gira video. Non so dire se è quello, o il fatto di essere in vacanza, oppure il profumo che arriva dall'oceano, o forse è tutta colpa del mojito, ma mi sto divertendo, non m'interessa nemmeno più di cantare bene o male, canto e basta. A un certo punto io e Norman accenniamo anche delle mosse in stile Grease (non possiamo essere davvero noi), e sono a mio agio, lui mi fa sentire a mio agio (non c'è alcun dubbio, sono ancora sotto l'effetto del mojito).
«The one I need, oh yes indeed», cantiamo in coro guardandoci con complicità.
Alla fine il pubblico ci riempie di applausi, non credevo di poterlo dire, ma abbiamo dato spettacolo. Sono accaldata e con le guance in fiamme, euforica. Norman mi sorride, anche lui entusiasta, e io ricambio il suo sorriso.
Appare il conduttore che ci elargisce lodi, scambiamo ancora qualche battuta e poi scendiamo dal palco per lasciare il posto al “cantante” successivo.
Norman viene attorniato dalle sue fans, accorse per complimentarsi con lui. Io mi defilo in un punto meno affollato e, ancora ebbra delle emozioni vissute poco fa, lo osservo mentre parla e scherza con loro. Scommetto che ognuna di quelle donne avrebbe dato qualsiasi cosa per essere su quel palco al posto mio, invece c'ero io e in fondo sono felice di esserci stata, nonostante i nostri precedenti. Quando lo racconterò a Francesca la farò morire d'invidia. Sorrido al pensiero. È tempo che io torni da lei, non voglio lasciarla da sola per tutta la sera. Vorrei fare un cenno di saluto a Norman, ma lui non sta guardando dalla mia parte, pazienza.
Mi dirigo verso l'ascensore, ma c'è viavai questa sera in albergo e devo attenderlo per più tempo del solito. Quando giunge finalmente al piano terra le porte si aprono e scendono una coppia e un gruppo di ragazzi, io salgo insieme a un uomo con un volpino e un'altra giovane coppia. Mentre le porte si stanno chiudendo, scorgo Norman che sopraggiunge a passo svelto nella hall e si guarda intorno, il suo sguardo si posa su di me appena prima che io scompaia alla sua vista. Mi saluta con la mano e io faccio lo stesso, poi le porte si chiudono.
Ci siamo persi per un soffio, peccato, avremmo potuto scambiare due parole e magari bere un cocktail guardando l'oceano... Beh, ovviamente l'avrei fatto per educazione, soltanto per educazione, dato che abbiamo cantato insieme. Questa serata non cancella il fatto che in spiaggia lui si sia divertito a prendersi gioco di me. Nossignore.
Quando entro nella stanza trovo Francesca sdraiata a letto su un fianco che guarda un vecchio episodio di “The big bang theory”. Mezz'ora dopo, tra un suo sospiro e l'altro, le sto raccontando per la quinta volta del mio numero al karaoke, da lei battezzato come sei-la-persona-più-schifosamente-fortunata-del-pianeta.
Più tardi mi metto a letto assonnata, e il mio ultimo pensiero prima di cadere tra le braccia di Morfeo è se l'indomani sarò ancora schifosamente fortunata.

La mattina dopo mi alzo di buonumore, mentre Francesca è ancora profondamente addormentata. È in posizione supina, quindi deduco che la sua schiena vada meglio, però deve averla tenuta sveglia per buona parte della notte. Scosto di poco la tenda per non far entrare troppa luce e ammiro la distesa di sabbia lambita dall'oceano, il cielo è terso, sarà un'altra bella giornata.
Indosso un abitino copricostume a fiori sopra il bikini e scendo per fare colazione, lasciando dormire la mia amica.
Una volta nella hall, con un cenno Victor richiama la mia attenzione. Mi avvicino al bancone della reception.
«Buongiorno Miss, ha riposato bene?».
«Più che bene, grazie Victor».
«L'ho chiamata perché ho qualcosa per lei da parte del signor Reedus», m'informa lui in tono professionale.
Qualcosa per me da parte di Norman? Sono curiosa.
«La prego di attendere un momento» mi chiede Victor prima di entrare in una stanza riservata al personale attraverso una porta alle sue spalle.
Fa ritorno poco dopo e mi consegna un cornetto Algida. «Questo è per lei, miss».
Non credo ai miei occhi. Scuoto lievemente la testa mentre le mie labbra si allargano in un sorriso: il ladro ha restituito la refurtiva.
Solo ora mi accorgo di una scritta sull'involucro: The last one. Norman.
Che cosa devo pensare se non che è un adorabile infame, che ha saputo sorprendermi e lasciarmi rapita, qui, con questo cornetto tra le mani. Mi sembra di essere la protagonista di una pubblicità dell'Algida.
Victor tossicchia per richiamare la mia attenzione. «Ehm... Credo le possa interessare... Il signor Reedus fa ritorno oggi a New York. Ha prenotato un taxi e...», dice sporgendosi poi oltre il bancone per guardare fuori dalla porta a vetri dell'albergo, «... credo vi stia salendo proprio in questo momento».
Volto la testa in tempo per vederlo chiudere la portiera del taxi che sosta davanti all'hotel.
No! Non può andare via adesso! Devo parlargli, ringraziarlo. Devo vederlo.
Mi catapulto fuori rischiando di travolgere un cameriere con un vassoio colmo di ciambelle, lanciandomi all'inseguimento dell'auto gialla. Per fortuna sta percorrendo il viale pedonale, accessibile solo ai taxi e ai mezzi dei fornitori, e procede quindi lentamente.
«Norman!», grido facendo voltare tutti i passanti.
Corro più veloce che posso con in mano il cornetto e ai piedi le infradito, calzature non molto adatte a questo frangente, che mi fanno rischiare di ruzzolare a terra in ogni momento davanti alla gente che cammina sul vialetto. Questa sì che sarebbe una figura di merda colossale, altro che il karaoke.
«Normaaan!!»
Continuo la mia corsa, poi finalmente il taxi si arresta e io, trafelata, mi fermo.
La portiera posteriore si apre e Norman mette fuori la testa. Mi vede e sul suo volto si dipinge un sorriso. Scende dal taxi. Non ha il cappellino e porta gli occhiali da sole, indossa gli stessi bermuda di ieri sera ma sopra ha una maglietta nera. È... un figo pazzesco (le circostanze sono cambiate).
Mi viene vicino levandosi gli occhiali da sole e mostrando il suo splendido sguardo.
«Grazie», gli dico accennando al cornetto, mentre il mio respiro si normalizza, «sei stato davvero molto carino».
«Allora... non sono così cafone...».
Dio, questo l'aveva capito.
«No... Not so much».
Norman ride e rido anch'io. Poi lui si china su di me e mi bacia sulla guancia vicino all'angolo della bocca, con una dolcezza che mi fa sciogliere il cuore.
«See you...».
«See you, Norman».
Ci vediamo. Probabilmente mai. Però... forse sì.
New York...
Norman torna sui suoi passi e, prima che lui salga sull'auto, restiamo a guardarci ancora una volta. Sento le farfalle non solo nello stomaco, ma in ogni fibra del mio essere.
Seguo con lo sguardo il taxi finché imbocca la strada principale scomparendo alla mia vista, poi mi volto e m'incammino verso l'albergo, schifosamente fortunata. Credo che inizierò a guardare “The walking dead", questo Daryl Dixon già mi sembra interessante.
Adesso però è meglio se mangio il mio cornetto prima che si sciolga. Lo scarto con cura stando attenta a non rompere l'involucro con il messaggio di Norman, che conserverò gelosamente, e dopo mordo la granella e il cioccolato, arrivando al soffice e dolce gelato bianco, è per questo che lo chiamano “cuore di panna”. Proprio come quello del mio ladro di gelati.

























 
  
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