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Autore: Lila May    25/07/2017    0 recensioni
Due squadre, Unicorno e Tripla C.
Mark Kruger e Esther Greenland. Una coppia alquanto strana, tuttavia efficace.
5 maschi e 5 femmine completamente opposti, se non quasi. E quindi guerra totale.
Tantissimi punti di vista diversi.
Molti, troppi problemi.
Poi condite il tutto con un po' di amori, cotte, risate, segreti, gelosie e verità scottanti.
Semplicemente un disastro.
---
Storia terminata.
Genere: Comico, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Altri, Dylan Keith, Eric/Kazuya, Mark Kruger, Suzette/Rika
Note: OOC | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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WHERE ARE YOU, MARK?
 
Mark fece esattamente come sua madre gli aveva imposto. Il giorno dopo non si presentò agli allenamenti, e nemmeno quello successivo, concentrando tutte le sue energie nei preparativi per il trasloco. Volente o nolente che fosse, purtroppo, doveva farlo. A cosa serviva fare il moccioso ribelle, oltre ad alterare il carattere già irritato del padre?
Una nuova vita era alle porte. Si sarebbe adattato passivamente, ecco tutto.
Dylan aveva provato a chiamarlo diverse volte, in quei due giorni di assenza, ma il biondo non aveva osato rispondere.
Anzi, gli aveva persino riattaccato. Il ragazzo inizialmente aveva pensato che l’amico volesse rimanere in pace, visto gli ultimi eventi che lo avevano coinvolto, eppure non ne era del tutto convinto.
C’era qualcosa, nell’aria, che gli puzzava.
Qualcosa di storto.
Ma ancora non se la sentiva di dar retta al suo sesto senso, e alla squadra disse semplicemente quello che sembrava a tutti la risposta più ovvia: Mark era di malumore, e voleva del tempo per riflettere.
Parvero crederci tutti.
Tutti, tranne Esther.
La sera del secondo giorno gli venne incontro, alla ricerca di spiegazioni. Era preoccupata tanto quanto lui, se non di più, glielo poteva leggere nello sguardo. - Ho provato anche io a chiamarlo. -
- Ti risponde? -
- Affatto. -
Dylan si portò una mano sotto il mento. E se Mark stesse dando buca agli allenamenti per motivi… familiari? Forse centrava qualcosa il trasloco. Forse i genitori non volevano che il figlio frequentasse la squadra, per abituarlo ad un distacco meno doloroso. L’ipotesi valeva esattamente come quella del malumore.
Solo che sembrava molto più ovvia, almeno ai suoi occhi. Insomma, perché Mark avrebbe dovuto evitare così i suoi compagni? Con quale pretesto? Era abbastanza maturo da saper fronteggiare una ex, un’ amicizia rovinata e la perdita di Erik senza dare in escandescenza, come aveva sempre fatto.
Ecco perché, secondo lui, c’era qualcosa di molto più grosso dietro.
Ma non poteva dirlo a Esther; lei non ne sapeva nulla del trasloco, e nemmeno le serviva venirne a conoscenza: del resto, se tutto andava secondo i piani stabiliti dalla famiglia di Mark, sarebbe avvenuto dopo la partenza della Tripla C. Cosa le poteva cambiare? 
- Forse non vuole rotture. -
- Lo so, ma normalmente risponde… - Esther decise di scrivergli un messaggio sul momento, e l’idea piacque anche a Dylan. Magari si vergognava di parlare a voce, o semplicemente non poteva rispondere, tutto qui.
Cominciò a digitare, e i numerosi errori di battitura fecero capire a Keith che la ragazza era tesa e agitata come una corda di chitarra.
 
 
Mark!
Si può sapere dove sei finito? Ti abbiamo chiamato un sacco di volte, perché non rispondi? Scrivimi, siamo tutti in pensiero per te.
Non farti pregare, o ti vengo a prendere per un orecchio.
Anche se non so dove abiti.
 
Esth.

 
Mark lesse il messaggio la sera successiva, dopo un’intera giornata passata a smontare mobili e riempire scatoloni. Bloccò la schermata e gettò il cellulare sul letto ancora sfatto. Non aveva intenzione di rispondere. Voleva essere lasciato in pace, dimenticato e poi cestinato, come un file inutilizzato da tempo immemore.
Del resto, anche lui stava cercando di condannare i suoi compagni a quel triste processo.
Dovevano smetterla di farsi vivi, o insistere nel cercarlo.
Non avrebbero ottenuto niente così.
 
 
 
Esther aveva atteso in una sacrosanta risposta per due giorni interi, tormentandosi i capelli ogni volta che sentiva una vibrazione, o lo squillo di un cellulare. Era preoccupata, e non solo lei. Anche Dylan si sforzava di capire, perso nei suoi pensieri.
Ma a differenza del ragazzo, lei era innamorata di Kruger. Molto. E quindi la situazione le pareva il triplo più tragica.
Fu così che una mattina decise di raggiungere la casa di Mark.
Non le importava se lui avrebbe reagito male nel trovarla sulla soglia, non le importava di niente. Doveva sapere cosa stava succedendo, sapere almeno il motivo di quell’assenza così lunga ed insopportabile.
E poi, dovevano ancora risolvere.
Per quanto ancora Kruger voleva starsene a poltrire sul letto?
Si fece dare la via da Bobby, la impostò sul telefono e questo le evidenziò il tragitto da fare, una linea gialla in mezzo a tanti, forse troppi quadrati grigiastri.
Non sembrava abitare poi così lontano, poteva farcela.
Si lasciò pilotare dalla striscia fluorescente per tutto il tempo, attenta a non perdersi o smarrire il senso dell’orientamento, e quando trovò l’abitazione rimase a fissarla sbalordita. Era immensa. Una vera e propria villa, con tanto di piscina (che, osservò meglio, era vuota). Non sapeva cosa dire, ne come spiegare tanta solennità tutta in una volta; al confronto il suo misero appartamento dai muri scrostati era uno scherzo dell’architettura. Uno sputo tra i tanti sputi abitati della periferia.
Era indecisa se entrare dalla porta o escogitare un modo furtivo per intrufolarsi direttamente in camera del ragazzo senza dover per forza passare dall’ingresso. Scavalcò il cancello (per fortuna non vi erano allarmi) e atterrò sull’erba fresca con la “delicatezza” di un elefante in una cristalleria. Cominciò a perlustrare la zona, e per sua fortuna - o sfortuna? - trovò una scala appoggiata al muro. Faceva proprio al caso suo. Prima di prenderla cercò di individuare la stanza di Mark dal basso, ma quando non la trovò si arrese all’evidenza. Sarebbe entrata dall’unica finestra aperta… poi, una volta in casa, avrebbe cercato di non farsi sgamare, e si sarebbe messa alla ricerca del biondino. Si arrampicò per la scala con agilità, e sbucò in quello che sembrava essere un… un bagno.
E che bagno, cavoli.
Era vuoto ed immenso, così freddo e bello da far invidia persino a quelli d’esposizione che si trovavano all’IKEA, sempre splendenti e tirati a lucido.
Camminò piano sulle piastrelle di marmo, poi si affacciò al corridoio esterno. Era magnifico. Il pavimento sembrava una nuvola soffice, reso tale dalla moquette bianca che si stendeva lungo tutto il suo perimetro, e una scala elegante portava al piano inferiore; aveva il manico dorato e i gradini di vetro, e sembrava così fragile, ma al contempo imponente.
“Cavoli, che lusso.” pensò, sbalordita. Lei nemmeno lo aveva un secondo piano. Sulla parete opposta alle scale si affacciavano tre stanze, due aperte ed una chiusa. Assicuratasi che nessuno fosse nei paraggi corse piano verso le camere. Per fortuna la moquette attutiva i suoi passi, facendoli appena percepire persino a se stessa. La prima mostrava un gigantesco letto matrimoniale, a baldacchino, davvero elegante. Arrossì. Era lì che i genitori di Mark lo avevano procreato?
L’altra si mostrava puramente femminile. Evidentemente doveva essere della sorella.
Dunque si fiondò su quella chiusa, e spalancò la porta con violenza.
Trovò Mark sul letto, in jeans.
E basta. Arrossì ancora di più, dilatando le narici. Non ricordava tanta bellezza.
Mark d’altro canto era scioccato, sembrava che un ladro fosse appena entrato in camera sua, con tanto di pistola puntata.
Si abbracciò come a coprirsi. Che cavolo ci faceva Esther… in casa sua?
Come aveva fatto ad entrare?
- Esther?! C-come diavolo… -
La ragazza però non rispose; stava già guardando gli scatoloni sparsi ovunque nella camera di Mark, confusa. Deglutì, notando che in uno rimasto aperto vi erano i suoi effetti più cari, insieme a libri ed altre cianfrusaglie. Un brutto presentimento la prese alla gola, seccandogliela.
Ma non voleva crederci. Non poteva essere così.
- Q-questi scatoloni? - si chiuse la porta alle spalle, come a tutelare la conversazione che presto sarebbe sbocciata tra loro. - Cambi casa? -
Mark si rimise la camicia a quadri verdi, nervoso. Non voleva dare spiegazioni. Non voleva parlare, non voleva rivelare niente. A lei, poi.
La guardò, infuriato. - Come. Diamine. Hai. Fatto. Ad. Entrare. -
- Ho usato le scale che stanno di fuori! -
Non riusciva a non smettere di fissarla, incredulo. Solo lei poteva fare certe pazzie per vederlo. - e da dove sei entrata scusa? -
- La finestra del bagno era aperta… -
- … non dovresti essere qui. - si limitò a dire, nascondendo però una certa gratitudine per quel gesto forse folle, ma tanto ammirevole. Lui? L’avrebbe mai potuta fare una cosa del genere, lui?
- Mark…! Non rispondevi alle chiamate, ai messaggi… che cosa dovevo fare? -
Al ragazzo quasi non venne da ridere. - Quindi perché non ti rispondevo ti è preso il matto e ti sei intrufolata in casa mia? Così? -
Esther sbuffò. - Vengo a nome di tutti. Siamo in pensiero per te, Mark. -
- Non mi interessa, vattene da casa mia. -
- Mi spieghi tutti questi scatoloni? -
- Sto facendo ordine in camera mia. -
- Quando menti guardi in basso. -
Mark la fissò. Era una delle poche persone che si era accorta immediatamente di quel suo difetto. Gli altri facevano fatica a capire quando raccontava balle, forse perché persino loro puntavano lo sguardo a terra, più bugiardi e peccatori di lui.
- Mark… - Esther prese posto sul letto. Le gambe le si erano fatte pesanti, ed una strana angoscia si era impossessata del suo stomaco, storcendole le interiora. Doveva sedersi. - Che succede? -
- Esther ti prego… esci da casa mia… non puoi stare qui… -
- Mi spieghi che succede? -
Il ragazzo prese ad abbottonarsi la camicia per reprimere il nervoso, e sbagliò persino due volte nell’inserire i bottoni. Non voleva affezionarsi ancora di più a lei… non voleva averla lì, nella sua camera, nella sua casa… desiderò affondare nel più profondo degli oceani, di modo che nessuno sarebbe più venuto a cercarlo.
Eppure adesso lei era lì. Sì, sul suo letto. In un modo o nell’altro era riuscita a trovarlo, a coglierlo in quel momento tanto delicato quanto doloroso.
Meritava delle spiegazioni. Prese posto vicino a lei, sospirando.
Non sapeva come guardarla.
- Trasloco. - si buttò, sentendo che non c’erano altre soluzioni per sviare l’argomento. - Nel senso che… nel senso che cambio città. Definitivamente. -
Esther non mosse labbro, ma Mark la percepì ugualmente irrigidirsi.
- Sarei dovuto partire per metà settembre… insomma, dopo la vostra partenza. -
- Perché non mi hai mai parlato del trasloco, Mark? -
- Non lo ritenevo importante… e poi… faceva troppo male anche solo pensarci, figurati… però è successo che… - Mark fissò gli scatoloni, contenenti la sua roba. Foto, libri, utensili inutili ma comunque indispensabili, in qualche modo… che avevano caratterizzato la sua stanza ed il suo mondo.
Avrebbe voluto gettarli fuori dalla finestra uno ad uno, con rabbia, e scappare via. Lontano. Con i suoi amici. Con Esther, frantumando il gelido rapporto che si era formato tra loro due.
E anche con Suzette, magari riprovarci, convincerla ad amarlo alla stessa maniera con qui lei smattava dietro ad Erik.
Dimenticare tutti quei problemi, vivere sulle ali della libertà.
Ma non poteva. New York lo chiamava, e con lei una vita del tutto nuova. Un tuffo verso l’ignoto, che lo spaventava e confondeva al contempo.
Ed irritava. Tanto.
- … è successo che il trasloco è stato anticipato di… molto, ecco… -
- Di quanto? -
- Ti prego… -
- Di quanto? -
- Tra due giorni. -
Esther ricevette quella risposta con la stessa furia di uno schiaffo sul viso, violento ed impetuoso. Come tra due giorni.
Cosa significava “tra due giorni”.
Sentì di aver sprecato un sacco di tempo dietro a delle cazzate, tempo che magari avrebbe potuto usare diversamente; per stargli accanto, essere l’amica perfetta che lui avesse mai potuto desiderare.
Curvò la schiena.
Le ore si erano come trasformate in sabbia, che il vento stava allontanando verso l’oceano.
Senza che ci fosse modo di fermarle in qualche modo, senza preavviso. Le prendeva e le soffiava via, gettandole con noncuranza verso il nulla.
Non poteva catturarle, ne bloccarle.
- E dove andresti? -
- New York. -
- … n-on voglio che vai… -
- Non è una scelta mia. - Mark parlava con distacco, perso a fissare il vuoto, forse perché “vuoto” era come si sentiva in quel momento, “vuoto” era la sua casa ora, e “vuota” sarebbe stata la sua vita appena avrebbe messo piede su New York.
Rimasero entrambi in silenzio, seduti su quel letto all’improvviso fattosi enorme.
- Quindi non verrai più al campo? -
- No, ormai siamo agli sgoccioli, devo aiutare la mia famiglia. Affiderò la fascia a Bobby, sono sicuro che sarà un ottimo capitano. - sorrise mesto, fissando la fascia celestina abbandonata sulla scrivania. - anche migliore di me. -
- Cosa dici… -
Di nuovo silenzio.
Esther lo guardò oltre la fitta coltre di ricci che le ricadeva soffice sugli occhi. Poi, col cuore pulsante in gola, si protese verso di lui e lo fece.
Lo baciò sulle labbra.
Senza pensare, senza avvisare nessuno.
E basta, sentendo che quella era la migliore cosa da fare, in un momento tanto fragile.
Mark si lasciò andare a quel bacio inaspettato con disperazione, avventandosi sulle labbra di lei. Chiuse gli occhi e le cinse il volto con le mani, per non farla scappare.
La bocca di Esther era così calda, e morbida… più forte di un abbraccio contro il freddo, più buona della bontà stessa, così perfetta, arricciata verso l’alto…
ma durò troppo poco perché potesse trasformarsi in qualcosa di più che un semplice scambio di saliva.
Si staccarono con nervosismo, e Mark ebbe lo strano coraggio di guardarla, rosso in volto fino ai capelli. Ansimava, e non capiva perché.
Era emozionato, e non capiva perché.
Ma del resto, non capiva il perché di tantissime cose.
- Scusa… - mormorò lei, facendosi piccola sotto i suoi occhi turchini.
Annuì, segno che andava tutto bene, ma dentro di lui le cose erano precipitate. Sentiva una voglia strana… la voglia di baciarla ancora, stringerla.
Tenerla con se per tutta la vita, e oltre. Accarezzarla, stenderla su quel letto e… scosse il capo. Fu come rendersi conto che la persona di cui era sempre stato innamorato in realtà era Esther, e non Suzette.
Triste come la vita a volte ti fa vivere nella menzogna.
Fu come sbattere il muso contro la realtà.
Ora lasciarla andare sarebbe stato ancora più doloroso.
- Vado, si è fatto tardi… - la ragazza si sollevò dal letto, e Mark percepì un freddo glaciale investirlo all’improvviso. Il profumo di Chanel lo abbandonò, e così il calore di quel corpo forse pieno di difetti, ma che si rese conto di trovare perfetto.
Si sentì perduto. Avrebbe voluto fermarla, tirarla per un braccio e riportarla sul letto.
E farne di quelle labbra umide e carnose il suo rifugio più intimo.
Come avrebbe fatto a dimenticare quel momento? Il cuore ancora gli batteva veloce contro il petto. Faceva quasi male, ma era così piacevole…
- Esther… -
- Sì? -
Mark si alzò, afferrò la fascia da Capitano e gliela porse. Doveva dimenticare. - Consegnala a Bobby, mi raccomando. -
- Certo… -
La accompagnò fino all’uscio della porta, assicurandosi di essere solo.
Esther fece per uscire, ma poi si voltò a guardarlo. Era così carino vestito così, nella sua bellezza fresca e semplice, che mai stanca. - Domani passa al campo… almeno datti la decenza di venire a salutare i tuoi compagni. -
- Addio, Esther. -
- A-addio?! Non puoi fingere che i tuoi amici non esistano, Mark! Solamente perhé cambi città, non significa che devi dimenticare le persone a cui vuoi bene! Non significa che devi dimenticare Dylan, Bobby, Erik, Michael… o me… ricordare non significa soffrire, non sempre. Vieni, doman… -
Mark la chiuse fuori, prima che potesse vederlo alterarsi. Poi si passò una mano sulla frangia, facendola ricadere nuovamente sulla fronte.
No, non si sarebbe fatto vivo domani.
Per cosa? Per soffrire di più?
Sarebbe stato l’ultimo giorno lì a Los Angeles, e aveva intenzione di goderselo nella sua stanza, solo.
Sforzandosi di non pensare a nient’altro che alla sua nuova vita a New York.
O il trasloco sarebbe stato traumatico.
 
 
 
- Hellen, qual è il problema? -
- Che mi blocco… mi blocco quando lo vedo, e… lui ci prova, costantemente, non so come comportarmi… sono timida, vorrei stare al gioco ma mi metto pressione da sola… -
- Dovresti buttarti. -
Hellen scrutò Daisy, timorosa. Buttarsi. Lei. Suonava tanto di cazzata. - Tu ti sei buttata, ma non è andata bene. -
- E’ andata bene… Dylan non è pronto per me, tutto qui... -
- Sicura? Non vi parlate nemmeno più… -
La castana lasciò il cucchiaino del gelato pendere dalle labbra, pensierosa. In effetti, era dal giorno in cui si era dichiarata che avevano smesso di interagire.
Ma era ovvio che vi era dell’imbarazzo tra i due. Dylan, in particolar modo, sembrava non sapere più come comportarsi. Era come se si fosse liberato di un peso, ammettendo di essere ancora troppo acerbo per qualsiasi tipo di ragazza. Ma allo stesso tempo aveva perso la sua forza, il suo carisma.
Cercava forse di non piacerle? Di creare del distacco, così da farle passare la cotta?
Si ritrovò a stringere la coppa di gelato con ansia.
Eppure, forse era meglio così.
Forse lui non meritava lei, e lei non meritava lui. Del resto, era un amore a senso unico, per quanto le costasse ammetterlo…
Certo. Avrebbe dato per piacergli almeno un po’, per essere diversa, perché sapeva che in cuor suo il corpo in sovrappeso e la faccia da mocciosa faceva il suo bello schifo. Ma non poteva costringerlo ad innamorarsi di lei. Ne costringere se stessa a cambiare per piacergli, assolutamente. In quello stava la sua prova di maturità: se Dylan voleva riavvicinarsi, lo avrebbe fatto.
Per ora meglio che l’imbarazzo tra loro scemasse. Era fastidioso, e lo aveva creato lei, a comportarsi da ingenua.
Si sentiva quasi in colpa, e sfogò il suo improvviso malessere nel gelato, mentre cercava di capire perché Hellen, bella, graziosa e piena di possibilità, non si buttasse come aveva fatto lei.
Del resto, l’atterraggio sarebbe stato morbido, tra le braccia di Bobby.
Lei non aveva avuto nessuno a prenderla.
Solo il rifiuto di Keith.
- Mark parte… -
A rompere la conversazione tra le due ragazze ci fu Esther, che si accasciò accanto a loro come un corpo morente. Era distrutta. - parte tra due giorni, e non tornerà qui. - sospirò.
- Come sarebbe a dire che parte…? -
- Non tornerà. Non ce la posso fare… non sto capendo più niente… non posso lasciarlo andare via così… -
Le braccia di Hellen e Daisy la strinsero vigorosamente, tentando di aggiustarle il cuore. Esther fu loro grata per quel gesto di affetto. Ne aveva avuto bisogno. Prese posto accanto a loro, e poco dopo le raggiunse anche Dell.
Suzette non osò nemmeno avvicinarsi, e rimase col resto del gruppo a confabulare. Sembrava quasi un estranea agli occhi delle quattro calciatrici, il loro rapporto si era completamente rovinato. Era evidente a tutte che, una volta tornare ad Osaka, avrebbero mollato la squadra.
La blu pareva aver chiuso tutti i battenti con loro, tant’è che le evitava e non le cercava mai durante le partite. Faceva tutto da sola, oppure si faceva aiutare dalle altre, con cui faceva gruppo unito. Oche. Di certo non spettava alle quattro di chiedere scusa se in soli tre mesi la Heartland si era rivelata una ragazza stupida, egoista e menefreghista.
Boh, tutto un gran casino. Forse erano cresciute, o forse no.
Chissà.
- Mark parte tra due giorni. E non vuole venire a trovarci, perché è un… coglione. -
- Ho saputo, Dylan ne stava parlando poco fa a tutti. - Dell le passò un braccio intorno alle spalle. Esther si accorse che portava addosso l’odore di Michael. Ovunque. - Pare che Mark abbia avvertito anche lui. -
Non sapeva cosa ribattere. Allora era definitivo… se lo aveva detto a Keith, stava a significare solo una cosa: non si sarebbe fatto vivo. Nemmeno per scherzo.
Nemmeno per renderla felice, niente.
Preferì non parlarne più, altrimenti si sarebbe innervosita e sarebbe andata in escandescenza. Piuttosto, si concentrò su Dell. La guardò maliziosa, dandole una gomitata. - Odori di massssschio. -
- C-che?! M-ma vah… -
- Un giorno ci dirai cosa c’è tra te e Michael? -
- Stiamo insieme. -
- E? -
- E… r-ragazze, s-stiamo insieme! Cosa devo dire…? -
- E…? -
Le tre le si avvicinarono, curiose come bambine di fronte ad un planisfero tutto da capire. Sorrise. Erano davvero fantastiche, si preoccupavano per lei più di quanto lo facesse se stessa. - eee niente, facciamo le cose che fanno i fidanzati. -
- Allora perché odori di lui? Sembri quasi Michael travestito da te. -
Dell arrossì vistosamente, ripensando agli istanti vissuti prima. Le mani di Michael sul suo corpo, a toccarle il collo e le spalle timide, dolci e inesperte. E lei sul suo letto, sognante. Ad assorbire ogni tocco, ogni sussurro, ogni bacio. - P-perché… - abbassò la voce, lasciandosi cullare da quei momenti di vita pura. - perché tutto prima stavo nella sua stanza, e… un bacio tira l’altro e… -
- Lo avete fatto!? - chiese Hellen, ingenuamente.
- N- no, però… mi accarezzava, e… niente, sono stata davvero bene. -
Le tre le si fiondarono addosso, e cominciarono ad imitare le possibili “carezze” di Michael, toccandola ovunque. - E come faceva? Faceva così? -
- Ti ha tolto i vestiti? -
- Ti ha toccato le tette? –
Eccolo, il domandone.
- Q-quasi… ci ha appoggiato sopra le mani, ma le ha tolte subito. Era imbarazzato… e boh, è così carino quando arrossisce, ragazze, non potete capire… vorrei che questa estate non finisse mai… -
- E come è stato? - domandò Esther, scioccata da tale rivelazione.
- N-non me le ha toccate come pensate voi, su… -
- O-ommioddio! MICHAEL E’ PROPRIO UN BIRBONE! – urlò Daisy.
Hellen semplicemente si portò le mani davanti alla bocca, sconvolta.
- Quel ragazzo mi ripugna ed inorridisce. Viscido. –
- Maddai, Esther! -
Scoppiarono tutte e quattro a ridere, abbracciandosi. Era davvero bello il legame che si era formato tra loro, fatto di complicità, segreti non detti e aiuto reciproco.
Un legame dapprima debole, che era aumentato sempre più col passare dei giorni, e che ora era saldo come una catena di ferro.
Rimasero insieme a raccontarsi le vicende che avevano caratterizzato tutto luglio e quei primi di agosto, tiepidi e malinconici come loro, due tiepide, le altre due malinconiche.
Ma tutte e quattro bellissime.
Suzette intanto le guardava, da lontano.
E quella visione le spezzò il cuore. Stava perdendo le sue amiche. Doveva buttarsi, almeno chiedere scusa.
Ma non ci riusciva, l’orgoglio la bloccava.
E non ci sarebbe riuscita, non subito.
Diede di spalle alle quattro, rodendosi il fegato dall’invidia.
Alla fine, senza chiedere niente a nessuno, si erano guadagnate la stima di tutti.
Dell si era persino fidanzata.
Lei invece non era riuscita a combinare niente in quei tre mesi, solo litigare con due ragazzi e chiudere i ponti con le sue amiche più care.
“Bella mossa, Suzette. Sei davvero una cretina.”
   
 
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