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Autore: Stardust87    25/07/2017    6 recensioni
Dal testo:
"Era veramente bellissima con indosso un lungo maglione blu che le fungeva da vestito. L’avvolgeva in un manto morbido e discreto, ma questo non la rendeva, ai miei occhi, meno sensuale.
Come era potuto succedere che mi fossi innamorato di lei?
Della ragazza del mio migliore amico?
Già, perché questo ero. Innamorato. Innamorato perso di Kagome."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inuyasha, Kagome, Koga | Coppie: Inuyasha/Kagome
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Brace d’Inverno
 
 






“Era il bacio con il quale sarebbero
 stati confrontati tutti gli altri
 della sua vita per risultare
 puntualmente inferiori”

(Cuori in Atlantide, S. K.)
 
 
 





È l’amore quello che ci frega.

Lo diceva spesso mia madre, ogni volta che in casa, o più in generale nella sua vita, qualcosa non andava per il verso giusto. Era come una specie di triste ritornello, lo ripeteva come a voler sottolineare ad ogni costo che nella vita tutto è rilegato ad una sporca bugia.
L’amore era sempre, e comunque, il perfido colpevole.

Quando penso a lei e a quelle sue parole, un episodio in particolare mi sovviene subito alla mente…

Era seduta vicino al fuoco, su quella sgangherata poltrona di pelle scura che aveva sicuramente visto tempi migliori. Ricordo i suoi occhi leggermente umettati, la bocca piegata in un sorriso triste, la testa china sul lavoro a maglia che teneva debolmente tra le mani.
Alcune ciocche di capelli ingrigiti su quella massa corvina le erano sfuggite dalla crocchia e le incorniciavano dolcemente i tratti del viso. Stava confezionando un paio di babbucce di lana per me, mentre io giocavo con le mie macchinine sdraiato sul pavimento, proprio vicino a lei.

Il Natale si avvicinava e la casa era minuziosamente addobbata per il festoso evento. Io, che avevo solo sette anni, lo adoravo, era il periodo più bello dell’anno per un bambino. Lei, al contrario, non lo amava molto. Mio padre era morto tanti anni prima proprio durante il periodo natalizio e le aveva straziato il cuore. Mi disse che era stata la magia presente nell’aria a farli incontrare e a farli innamorare.
Poi il fato li aveva tragicamente e crudelmente divisi.

Fu il suo unico amore.

Io all’epoca avevo appena un anno e purtroppo non ne ho memoria, non ricordo neppure il suo volto. Lei era sempre stata una donna forte e determinata, mi aveva cresciuto da sola, senza l’aiuto di nessuno. Il fantasma di mio padre tuttavia era sempre stato tra noi. Quando si perdeva, però, in quei suoi lontani ricordi mi mostrava la sua reale debolezza ed io arrivavo anche a detestare, nella mia fanciullesca stupidità, quel tipo di amore tanto decantato.

<< Inuyasha >> mi disse ad un tratto con voce sofferta, cercando di ritrovare un po’ della sua solita compostezza.

Io alzai gli occhi su di lei, sgomento per quelle lacrime sempre in agguato e per l’espressione infelice che deturpava orribilmente il suo bellissimo volto.

Odiavo vederla in quel modo, non sopportavo l’idea che soffrisse in quella maniera. Semplicemente non era giusto.
Non sapendo cosa dirle, mi alzai in piedi e le presi una mano stringendola tra le mie, accarezzandole dolcemente il palmo, lì dove la linea della vita e quella del cuore si congiungevano in un minuscolo tratto per poi proseguire ognuna per la propria via.

<< Io non voglio che tu soffra >> le mormorai timidamente, avvertendo le gote andare in fiamme.

Le si illuminarono gli occhi e represse a stento un sorriso.

“È l’amore quello che ci frega”

 
 
Questa fu la prima cosa che mi venne in mente la prima volta che la vidi.

Ed era anche quello che rimbalzava ossessivamente nei miei pensieri in quel preciso istante.

Colei a cui mi riferisco, era svogliatamente sprofondata sulla sedia al mio fianco: china sul libro aperto, con i gomiti appoggiati sulla scrivania. Un mozzicone di matita stretto tra le dita, che saltuariamente portava alle labbra, mordicchiandone nervosamente l’estremità superiore. I lunghi capelli neri legati in una coda bassa e posati distrattamente su una spalla, lo sguardo vagamente corrucciato e concentrato sugli esercizi di algebra che aveva davanti.

Era veramente bellissima con indosso un lungo maglione blu che le fungeva da vestito. L’avvolgeva in un manto morbido e discreto, ma questo non la rendeva, ai miei occhi, meno sensuale.

Come era potuto succedere che mi fossi innamorato di lei?
Della ragazza del mio migliore amico?
Già, perché questo ero. Innamorato. Innamorato perso di Kagome.

Sapevo che era una cosa completamente folle, totalmente fuori dagli schemi.
Anzi no, ero io ad essere completamente fuori di testa!

Di tante ragazze proprio di lei dovevo innamorarmi?

Anche Koga ne era, giustamente, innamorato folle. Lei era sua, lui era arrivato per primo.

“Ma chi vuoi prendere in giro? Sei tu quello che l’ha vista per primo!” mi contraddisse una vocina bacchettona nella testa.

Solo che lei non lo sapeva. E non lo sapeva nemmeno Koga.
D’improvviso mi venne in mente il nostro primo incontro, se così si può chiamare.

Ero sull’autobus di ritorno dalla scuola, seduto negli ultimi posti. La gente parlottava come sempre, c’era chi litigava al telefono e chi scriveva al computer. Alcune persone non avevano trovato posto ed erano rimaste in piedi nel corridoio centrale che divideva le due file di sedili di plastica gialli. Si tenevano con una mano ai vari anelli in fila che scendevano penzoloni, la cui estremità superiore era fissata alla cappotta del mezzo. Lei era una di quelli che sfortunatamente non aveva trovato posto.
Guardava fuori dal finestrino, gli occhi spenti, vagamente tristi, proiettati verso un punto indefinito. Indossava un trench chiaro legato in vita da una cinta, una sciarpa verde e un berretto di lana di una tonalità più scura. In mano teneva un libro.
Sembrava una ragazza come tante, eppure sapevo dentro di me che non lo era. Lo capii subito, in quel momento. Qualcosa di lei aveva attirato immediatamente la mia attenzione, non seppi stabilire cosa, forse semplicemente la sua bellezza o più probabilmente quei bellissimi occhi tristi che stonavano platealmente su quel viso dolce. Forse era proprio quello sguardo che aveva attirato la mia attenzione, che mi aveva ricordato quello di mia madre nel periodo di Natale.

Avevano spezzato anche il suo di cuore?

Avvertii subito la tentazione di andare a parlarle, di dirle qualsiasi cosa. Volevo cancellare quell’espressione infelice dal suo volto.
Ma naturalmente non lo feci.

Cosa poteva dirle uno sconosciuto?

La vidi scendere due fermate dopo e la seguii con lo sguardo mentre si infilava in uno dei migliori caffè del centro.
Pensai molto a lei, anche nei giorni seguenti. Speravo ardentemente di rivederla. Avevo promesso a me stesso che le sarei andato incontro e che mi sarei presentato con una banale e sciocca scusa.

Ma purtroppo non accadde. Non la vidi più per un lungo periodo.

Questo fino a poco tempo fa, fino a quando Koga, il mio migliore amico, mi aveva confidato di vedersi con una ragazza appena conosciuta e che ne era già completamente preso. Ricordo bene le sue gote andare in fiamme ogni volta che me ne parlava, la sua voce diventare più stridula ogni volta che ne pronunciava il nome. Quando finalmente, parecchio tempo dopo, decise di presentarmela ne fui davvero felice. Ero veramente curioso di conoscere la famosa ragazza che lo aveva fatto capitolare.

Fu uno shock quando mi ritrovai lei davanti.

Non potevo credere ai miei occhi. Era proprio la ragazza dell’autobus.

Quel giorno sorrideva sia con gli occhi che con la bocca. Non c’era più traccia di quella tristezza che la divorava quando la vidi la prima volta sull’autobus.
Koga la mangiava con lo sguardo e lei lo ricambiava adorante.
Si vedeva che stavano bene insieme.
Ed io ero contento per lui, per loro.

E allora cos’era quella sensazione di gelo che mi attanagliava ogni volta che li vedevo insieme?
Quel buco allo stomaco quando si prendevano scherzosamente in giro o si tenevano teneramente la mano?

Non ero geloso, questo no.

Ridacchiai sommessamente prendendomi per stupido.

“Come no!”  puntualizzò ancora quella vocina nella mia testa.

Kagome si girò di scatto verso di me, inarcando un sopracciglio.

 << Inuyasha… tutto bene? >>

Aveva ancora quel mozzicone di matita tra le labbra e ci giocava come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Deglutii a vuoto, sentendo la bocca completamente asciutta.
Dio, come era bella!

<< Sì, tutto bene. Continua pure con i tuoi esercizi >> la tranquillizzai, avvertendo la mia voce estranea, come se a parlare fosse stata un’altra persona.

Lei annuì e tornò a concentrarsi sul libro.

Il cuore aveva preso a palpitarmi come un forsennato.

Guardai l’orologio e constatai che mancavano solo cinque minuti alle sei. La nostra lezione era quasi finita. Mi sentii allo stesso tempo deluso e confortato.

Mi stavo sempre più rendendo conto che l’idea di Koga di dare ripetizioni di matematica alla sua ragazza non era stata poi una grande pensata. Lui non era mai stato una cima con i numeri e lei aveva bisogno di un urgente ripasso se voleva prendere almeno la sufficienza prima della fine del semestre. Avrebbe preso finalmente il diploma e si sarebbe iscritta al college, come me e Koga.

Ma adesso la situazione si stava complicando. Era da più di un mese che ci vedevamo tutti i pomeriggi per studiare. In questo lasso di tempo avevamo imparato a conoscerci, a scherzare, ad apprezzare i pregi e a sopportare i difetti dell’altro. Anche se devo ammettere che di difetti lei ne aveva ben pochi.
Eravamo diventati dei buoni confidenti, al punto di non provare più imbarazzo per quasi tutti gli argomenti.
Non avevo però messo in conto che un semplice interesse, una sciocca infatuazione si stava pian piano trasformando in qualcosa di più.
La voglia di baciarla si faceva sempre più impetuosa, lottavo contro me stesso per non scioglierle quella stupida coda e affondare le dita fra i suoi capelli setosi, tirarla verso di me e assaggiare finalmente quelle labbra dolci e invitanti.

Ma il pensiero di Koga mi bloccava, fortunatamente. Non potevo fargli una cosa del genere, eravamo cresciuti insieme, eravamo come fratelli e lui di certo non meritava una simile vigliaccata da parte mia.

Trassi un respiro profondo e mi avvicinai con la testa al libro per controllare se stesse svolgendo giustamente gli esercizi. In fondo era quello il mio compito.

Un dolce profumo di vaniglia invase le mie narici, inebriandomi.

“Concentrati Inuyasha” mi imposi risoluto.

<< Qui non è esatto. Vedi? Hai sbagliato ad applicare la formula. Devi stare più attenta >> le dissi con fermezza, battendo più volte il dito su quello che aveva scritto.

Feci per prendere la gomma per cancellare gli errori e casualmente le nostre dita si sfiorarono. Una scossa mi attraversò la mano. I nostri occhi si incrociarono. Dedussi che l’aveva avvertita anche lei. O almeno lo speravo.

Mi sorrise dolcemente. Un sorriso in grado di far sciogliere anche il più duro dei cuori. Figurarsi il mio. Con me giocava facile.

<< Hai ragione! La matematica non fa proprio per me! >> esclamò tirando fuori la lingua, come se tutto fosse una burla.
Per lei era una cosa normale, normalissima.

<< Già, non ci capisci proprio un tubo >> le risposi in un modo che nella mia testa voleva essere scherzoso, ma che risultò invece piuttosto seccato e scontroso.

A quelle parole Kagome spalancò gli occhi e intravidi un guizzo di delusione nel suo sguardo.

<< Scusa se non la capisco! Non tutti sono bravi in tutto! >> ribatté piccata, arricciando le labbra.

Io alzai le spalle noncurante. Non intendevo risponderle con quel tono ma la situazione mi stava diventando sempre più insostenibile. Non era colpa sua, certo, ma nemmeno la mia. Non avevo scelto io di innamorarmi di lei.

“È l’amore quello che ci frega”

Parole semplici, dure, terribilmente reali.

Ora capivo bene cosa intendesse mia madre. E aveva perfettamente ragione.

Lei tornò a concentrarsi sui suoi esercizi, ma il suo atteggiamento era cambiato, sembrava nervosa e irrequieta.
Il rintocco del pendolo, posto sul muro di fronte a noi, ci avvisò che erano le sei in punto e che la lezione era terminata.
Visibilmente sollevata, Kagome si alzò trascinando la sedia all’indietro. Io mi alzai in automatico, scattando come una molla. Lei non sembrò farci molto caso. Prese la sua cartella, sistemò con cura i libri al suo interno e chiuse bene la fibbia. Poi alzò lo sguardo su di me e mi fissò con i suoi occhi scuri come una mattina d’inverno, tralasciando trasparire una sorta di esitazione. Le tremava leggermente il labbro inferiore e l’ombra scura di poco prima sembrava ancora permeare sul suo bel viso.

<< Allora io vado >> mormorò con voce incerta, stringendo convulsamente i manici della cartella fino a far sbiancare le nocche.

Volevo scusarmi per i miei modi bruschi, volevo disperatamente dirle qualcosa, qualsiasi cosa, ma avvertivo di nuovo la bocca secca e impastata per cui mi limitai ad annuire.

Kagome si avviò verso la porta, con passi lenti e indecisi, e posò una mano sulla maniglia senza però decidersi ad aprirla.

<< Inuyasha >>  sussurrò ad un tratto, lasciandomi perplesso.

<< Sì? >>  riuscii a risponderle io, stentando a credere che avessi ancora la facoltà di parlare.

<< Ti è mai capitato di fare una qualche follia? O anche solo pensare di volerla fare? >> mi chiese con voce tentennante, voltandosi di scatto.

Fui un lampo.

Le mie gambe si mossero da sole, come se attendessero da un’infinità di tempo che lei desse loro il permesso.
Che mi desse il permesso.

L’afferrai con impeto per le spalle e la mia bocca trovò subito la sua. La mia mente era completamente annebbiata, del tutto irrazionale.

Volevo solo lei.

Era una verità terribile, scomoda ma la pura e semplice verità. L’unica possibile.

Godetti pazzamente di quel contatto, le sue labbra erano morbide, calde e dolci. Ne ero completamente ammaliato.
Ci staccammo dopo un tempo che mi parve allo stesso tempo infinito e troppo corto.
Avevamo entrambi il respiro ansante, gli occhi lucidi e le gote arrossate.

Poi, ad un tratto, la consapevolezza del nostro gesto ci colpì violenta come uno schiaffo.

Avevamo tradito Koga. Ci eravamo macchiati di una colpa orribile.

Lessi la paura, l’ansia, il dolore negli occhi di Kagome. Tremante, si portò una mano alle labbra, sfiorandole appena con la punta delle dita, come se scottassero.

Io la guardavo inerme, sentivo il cuore battere impazzito.

<< Kagome, io… >> iniziai titubante, non sapendo bene cosa dire.

Ma lei non mi lasciò continuare.

Scuoteva la testa da una parte all’altra, la bocca semi dischiusa, le lacrime che le bagnavano copiosamente le guance.
Era il suo sguardo confuso e smarrito però che mi stava lentamente uccidendo.

Uscì dalla mia camera così velocemente che quasi non me ne accorsi.
Un vento gelato sembrò trapassarmi con violenza il cuore.

Avevo forse frainteso le sue parole? Non si riferiva a quello? Non lo voleva anche lei?

Dei dubbi, subdoli e malevoli si insinuarono nella mia testa, martellandomi la mente.
Avevo rovinato tutto. Avevo perso lei e avrei perso il mio migliore amico.
Mi sentivo un vile, un perfetto stronzo.
Chiusi gli occhi sentendoli bruciare dietro le palpebre.

Ero stato un vero idiota.
 
 


***
                                                                                                                         
 


“Mi toglierei dal cuore
questo peso che mi soffoca,
se ora, io mi mettessi
a gridare che l’amo”
(Cuori in Atlantide, S. K.)
 
 





Il locale era piuttosto affollato, una cosa insolita per essere solo giovedì sera. Non che la cosa mi importasse. Non ero lì per conoscere gente. Ero seduto al bancone e continuavo a fissare il liquido giallognolo nel bicchiere davanti a me, senza vederlo realmente. Lo afferrai con due dita, facendolo oscillare da una parte all’altra, giocherellando con i cubetti di ghiaccio al suo interno che producevano un rassicurante tintinnio.

Ero teso come una corda di violino. Koga mi aveva telefonato nel pomeriggio chiedendomi di vederci. Avevo il sospetto che Kagome gli avesse spifferato tutto. La sua voce al telefono mi era sembrata normale, era stato sbrigativo come sempre, Koga non era di certo il tipo da perdere tempo al telefono. Era anche vero però che Kagome non era più venuta a casa mia per le ripetizioni. Ed erano passati già tre giorni…

<< Eccoti qui, vecchio orso! >> mi apostrofò improvvisamente il mio migliore amico sopraggiungendo alle mie spalle, dandomi una sonora pacca dietro al collo.

<< Koga… >> borbottai con un vago timore nella voce, portando il bicchiere alle labbra. L’amaro e bruciante sapore dell’alcool mi confortò un pochino.

<< Cos’è quella faccia smunta? Pene d’amore? >>

Quasi mi strozzai con il brandy che stavo bevendo.

Sapevo che non avevo un bell’aspetto. Profonde occhiaie solcavano il mio viso, facendomi apparire stanco e snervato. Erano il risultato delle parecchie notti insonni trascorse.

<< È l’ultimo dei miei pensieri >> risposi bruscamente, mal celando il nervosismo che mi stava divorando il fegato.

<< Non sai cosa ti perdi! >> esclamò scoppiando a ridere.

<< Come mai hai voluto vedermi? >> gli chiesi con voce piatta.

Tolto il dente, tolto il dolore.

<< Kagome mi ha detto che avete finito con le ripetizioni e volevo ringraziarti per averle dedicato il tuo tempo. Mi ha detto che sei stato un insegnante davvero bravo e paziente >> mi disse con voce allegra, quasi emozionata << Sei stato davvero gentile ad aiutarla, senza di te non avrebbe avuto nessuna possibilità di passare l’esame, sei un vero amico >>

Già, un vero amico.

Infilò una mano nella tasca dei jeans e allungò una banconota sul bancone.

<< Questi sono per il tuo drink >>

<< No, Koga. Davvero non serve! >> esclamai agitato, cercando di restituirgli i soldi.

Ma lui scosse veementemente la testa.

<< Insisto. E mi raccomando, ora che non dovrai più sprecare i tuoi pomeriggi dietro a Kagome datti da fare! >> mi disse strizzandomi l’occhio.

Eccolo, il colpo di grazia.

Senza le ripetizioni non avrei avuto più un motivo per incontrarla, per passare dei momenti da solo con lei. L’avrei vista sporadicamente e sempre in compagnia di Koga.

<< Già, meglio così >> mi sentii rispondere.

Era davvero una bella notizia.

<< Bene, volevo solo ringraziarti come si deve. Ora vado da lei, mi aspetta >> affermò gongolante, sferrandomi un’altra pacca sulla spalla.
Certo, lui andava da lei. Lui aveva il permesso.

Lo guardai uscire avvertendo un nodo stringermi la gola.

Dovevo vederla.

***

L’aspettai seduto su una panchina nel parco, ad un isolato da casa sua. Sapevo che sarebbe passata di lì a momenti. Aveva lezione di danza il venerdì pomeriggio, conoscevo bene i suoi orari e sapevo che avrebbe attraversato il parco, era la strada più corta per arrivare a casa sua.

Una fina e lieve pioggerellina era iniziata a cadere dal cielo, rendendo quel pomeriggio di fine Novembre ancora più cupo e freddo. Rabbrividii nel mio giaccone nero e alzai il bavero del colletto tentando un qualche riparo da quell’aria rigida. Della pioggia che bagnava i miei lunghi capelli d’argento, invece, non mi importava nulla.

Mi sentivo teso e accaldato in viso come se fossi febbricitante.

Cosa ci facevo lì? Non sapevo bene nemmeno cosa le avrei detto.
Sapevo solo che dovevo vederla.

Un rumore di passi e un vociare confuso mi riscosse dai miei pensieri. Vidi passarmi davanti due ragazze molto carine, con i capelli lunghi leggermente ondulati, che rimasero a fissarmi incuriosite con i loro colorati ombrelli in mano. Sapevo di sembrare folle ai loro occhi seduto su quella panchina quasi completamente scrostata, sotto la pioggia che si andava via via infittendo.
I miei occhi si posarono indifferenti su di loro e velocemente le oltrepassarono, come se non esistessero nemmeno. Erano soltanto due volti fra tanti.

Sbuffai sonoramente notando che si stava alzando anche la nebbia. Essa si muoveva silenziosa e bianca, avvolgendo lentamente i pini e le panchine del parco come dita affusolate di una mano. Rendeva la mia visuale offuscata, magica, irreale.
Anche i rumori sembravano ovattati, quasi confusi. Captai nuovamente un leggero scalpiccio e una figura femminile squarciò quel velo candido e impalpabile palesandosi di fronte a me.

E finalmente il mio sguardo carezzò il suo. I miei occhi si posarono sull’unico volto che meritava di essere rimirato.
Era bellissima nei suoi leggings neri e nel piumino bordeaux. Teneva la consunta borsa da palestra in una mano e un ombrello giallo nell’altra.

Mi alzai goffamente, avvertendo le gambe di piombo e le andai incontro. Lei era ferma a pochi passi da me, si era bloccata a guardarmi come inebetita. Dal suo sguardo sorpreso compresi che non si aspettava minimamente di vedermi e ciò mi provocò un sordo dolore al petto.

<< Ciao Kagome >> le dissi solamente, sentendomi scemo.

<< Che ci fai qui? >> mi rispose lei nervosamente.

La mano che stringeva il manico dell’ombrello vi si era serrata ancora più forte.

Non mi lasciai scoraggiare << Io… ho bisogno di parlarti >>

<< Non credo che ci sia molto da dire. Non è stato niente >> puntualizzò avvampando vistosamente.

Abbassai lo sguardo e presi ad osservarmi le scarpe da tennis. Mi stavo irritando.

<< Come puoi dire che non è stato niente? >>  sbottai feroce.

Lei spalancò gli occhi guardandomi stupita << Io sono fidanzata Inuyasha! Con il tuo migliore amico >>

<< Credi che non lo sappia?! Non c’è  bisogno di ricordarmelo! >> risposi seccato << Eppure anche se so che è sbagliato io… io… >>
Strinsi i pugni sentendomi impotente.

<< Avevo tanta voglia di vederti, di parlarti >> continuai con voce sofferta << Hai interrotto le lezioni senza dirmi nulla >>

<< Non sapevo cosa dirti e non potevo continuarle, non mi sembrava giusto >>  replicò lei a voce bassa.

Sapevo che aveva ragione eppure una parte di me non riusciva ad accettarlo.

<< Kagome, io… io… >>

<< Ti stai bagnando tutto… >> mormorò con voce impastata, quasi premurosa.

“Diglielo!” mi imposi “Dille quello che provi”

La nebbia, intanto, ci circondava come un freddo abbraccio e ci celava a occhi indiscreti. O almeno era quello che credevo io.

<< Devo andare >> esclamò d’un tratto turbata, cercando di oltrepassarmi.

<< No! Aspetta! >> affermai quasi urlando.

Non poteva andarsene, non così.

La afferrai per un braccio e la tirai verso di me. Le cinsi la vita con l’altra mano e chinai la testa per baciarla. Nonostante i miei sforzi riuscii a sfiorarle a malapena le labbra. Con mio grande stupore mi premette di getto le mani sul petto e mi spinse via, lontano da lei.
I suoi occhi tradivano una paura folle.

Aveva paura di me o di se stessa?

Si voltò per filarsela, ma io le afferrai una mano per impedirglielo.
Non potevo lasciarla andare, non le avevo ancora detto cosa provavo.

<< Ascoltami, io ti… >>

Non riuscii a terminare.

Un violento sganascione mi arrivò in pieno volto, facendomi barcollare. Il dolore acuto e saettante mi impedì per un attimo di vedere e pensare lucidamente. Mi portai una mano sullo zigomo colpito e premetti forte, cercando di calmare il dolore. Avevo il respiro corto e un senso di vertigine mi colse, facendomi vacillare.

Riacquistando un minimo di lucidità, alzai gli occhi su colui che mi aveva colpito così forte, a tradimento.

<< Koga?! >> biascicai ancora interdetto.

Era l’ultima persona che avrei pensato di incontrare in quel posto, in un pomeriggio come quello. La nebbia si stava infittendo, permetteva di scorgere le persone a pochi metri di distanza ma non di metterle a fuoco perfettamente. Io, distratto com’ero da Kagome, non mi ero minimamente accorto della sua presenza, mentre lui doveva aver riconosciuto subito le nostre voci e si era avvicinato a noi furtivamente.
Lo fissai allibito.
Aveva fatto cadere l’ombrello aperto, nonostante continuasse a piovere, e mi fissava con odio stringendo i pugni. Tremava visibilmente e aveva il respiro ansante.

<< Che ci fai qui? >> gli chiese Kagome con voce stridula.

I suoi occhi erano inorriditi, si capiva che neanche lei si aspettava di vederlo.

<< Ero venuto a portarti l’ombrello pensando che il temporale ti avesse sorpreso all’uscita della palestra. Volevo soltanto essere un fidanzato premuroso, non potevo di certo sapere che c’era qualcun altro che ti stava coccolando più di me >> affermò rabbioso guardandomi con astio.

<< Koga, io… >> provai a intercedere, ma immediatamente mi zittì.

<< Taci, bastardo! >> urlò furioso mentre la pioggia inzuppava anche lui.

<< Guarda che hai frainteso >> cercai di difendermi.

Una difesa debole, stupida, la frase peggiore che si potesse dire in una situazione del genere. Ma fu anche l’unica che mi venne in mente.

<< Cosa avrei frainteso?! Non stavi forse cercando di baciare la mia ragazza? >>

Spalancai la bocca e meccanicamente la richiusi. Aveva ragione, era inutile negarlo.

<< E tu invece? Che hai da dire? >> sibilò glaciale rivolto a Kagome.

Lei ci fissava intimorita, facendo passare ripetutamente lo sguardo da uno all’altro.

<< Mi dispiace >> sussurrò fra le lacrime, lasciando cadere a sua volta l’ombrello e filando via.

<< Aspetta! >> le urlò Koga correndole tempestivamente dietro.

Si allontanarono nella pioggia e la nebbia, che continuava ad addensarsi, coprì le loro figure.
Ero rimasto solo, solo sotto quella pioggia battente a fissare i due ombrelli abbandonati lì, vicino a me.
Solo con le mie colpe, le mie pene e i miei rimorsi.

***

Tornai a casa completamente zuppo. Mi sentivo la fronte accaldata, forse avevo veramente la febbre ma non era quello che mi faceva stare male.
Era il cuore a dolermi. Era ridotto in mille pezzi.
Koga ci aveva visti e mi aveva colpito in pieno viso… e la cosa che mi devastava era che sapevo che aveva fatto bene.
Avevo infranto la tacita regola che governa un’amicizia: girare alla larga dalle fidanzate degli amici.
Mi sentivo un mostro anche perché Koga non era un semplice amico, era il mio migliore amico, quasi un fratello.

Mi spogliai degli indumenti fradici e mi infilai sotto la doccia. Ruotai la manopola del rubinetto e poggiai i palmi delle mani sulle candide maioliche, lasciando che il getto di acqua calda mi colpisse sulle spalle. Speravo che quel calore mi confortasse e che mi sciogliesse il gelo che sentivo dentro.
Sentivo bruciare gli occhi ma sapevo che non avrei pianto. Gli uomini non piangono e io non ricordavo di averlo mai fatto.
Forse era successo qualche volta da bambino, dopo essere caduto dalla bici ed essermi sbucciato un ginocchio. Ma ero solo un ragazzino e quei ricordi erano ormai sbiaditi.
No, non avrei pianto.
Strinsi forte le palpebre e alzai il viso verso il soffione della doccia. L’acqua prese a scorrere veloce sul mio viso, portandosi via ogni traccia di un mio possibile cedimento.

***

Passai l’intera mattinata seguente steso sul letto rimirando il soffitto. Non avevo dormito granché e la stanchezza si faceva sentire. Non so quante volte presi il telefono e composi il numero di Koga, per poi riagganciare tempestivamente.

Volevo parlargli, ma per dirgli cosa?

Ogni mia parola sarebbe sembrata una bugia alle sue orecchie. E avrebbe avuto ragione.

Amavo disperatamente la sua ragazza. Amavo Kagome. Il vistoso livido sotto l’occhio sinistro ne era la testimonianza.

Non riuscivo a prendere in giro me stesso, figuriamoci lui. Mi trovavo in un vicolo cieco, non vedevo una via d’uscita. Ero solo con la mia angoscia. Mi coprii gli occhi con un braccio perdendomi nei miei pensieri.

Il tintinnio improvviso di un messaggio al cellulare mi fece sobbalzare.
Il mio cuore mancò un battito quando, a fatica, riuscii a mettere a fuoco il nome del mittente.

Era di Kagome.

Il messaggio era semplice, asciutto, informale. Oserei dire freddo.

-Vediamoci domani sera alla festa di Miroku. Dobbiamo parlare.-

Non sapevo bene come interpretarlo, sapevo solo che l’avrei rivista e che potevo in qualche modo chiarirmi.
E il mio cuore finalmente si allietò.
 
 
***
 
 
 
“Brace d’inverno,
i capelli tuoi
dove il mio cuore brucia”
 (Haiku*-S. K.)
 
 
 


Ero agitato. No, agitatissimo, forse anche qualcosa in più.

Se non fosse stato per il messaggio di Kagome non sarei andato alla festa fingendomi malato. Miroku ci sarebbe sicuramente rimasto male, era il suo compleanno e sapevo quanto ci tenesse. Non avevo avuto il coraggio né la possibilità di spiegargli cosa era successo e sarei stato costretto a mentirgli.

Ma là avrei trovato Koga e Kagome e non sapevo come affrontarli. Il messaggio di lei però mi aveva ridato fiducia.

Parcheggiai fuori dalla villetta in stile inglese appartenente alla famiglia di Miroku da molte generazioni e attraversai a piedi il lungo viale brecciato, mentre il vento gelido mi scompigliava i lunghi capelli. La temperatura si aggirava appena intorno ai cinque gradi e si andava gradualmente abbassando man mano che la notte avanzava. In cielo erano sorte due stelle e la luna faceva capolino da dietro la montagna che si intravedeva alle spalle dell’abitazione. La musica assordante mi investì pienamente non appena salii i pochi gradini dell’atrio e oltrepassai il pianerottolo. La porta d’ingresso era dischiusa nonostante il freddo che si infiltrava dall’esterno. Era una cosa logica constatai, nessuno avrebbe sentito il suonare del campanello con tutto quel chiasso.

Entrai facendomi largo tra la gente e un dolce tepore mi investì il viso completamente intorpidito e gelato. Conoscevo la maggior parte di quei ragazzi che mi ballonzolavano intorno, frequentavamo tutti lo stesso college. Vidi Miroku ballare teneramente abbracciato a Sango, la sua ragazza. Gli feci un cenno di saluto con la mano e lui mi rispose con un sardonico sorriso. Mi guardò per un breve istante alzando un sopracciglio. Sicuramente aveva notato il mio zigomo tumefatto. Gli sorrisi alzando le spalle. Avremmo avuto tempo per parlare.
Mi decisi a cercare Kagome pensando che sarebbe stata quasi un’impresa titanica scorgerla tra tutta quella gente.

Poi finalmente la vidi.

Indossava un vestito corto, completamente nero, che la fasciava come un guanto e calze coprenti dello stesso colore. Era una visione. Era semplicemente impossibile che passasse inosservata. Le sorrisi d’istinto, quasi sollevato dal fatto di non vedere Koga con lei. Forse avevano litigato o forse si erano lasciati. A quel pensiero un’immensa felicità mi invase.
Era egoistico da parte mia, ne ero consapevole, però…

Però, invece, lui c’era. Era dietro di lei che mi fissava torvo, la bocca stretta in una sottile fessura.

Kagome mi lanciò uno sguardo supplicante e la vidi bisbigliargli qualcosa all’orecchio. Lui fece un cenno di assenso senza mai distogliere gli occhi dai miei e lo vidi chinarsi e schioccarle un lungo bacio sulla guancia.

Il mio cuore ebbe un sussulto. Lei aveva scelto lui e lui la stava marchiando davanti a me.
Mi voltai per andarmene.

Camminavo come in trance, senza rendermene conto. Mi sentivo infelice, come mai lo ero stato nella mia vita.
Constatai di nuovo con rabbia come mia madre avesse ragione.

L’amore ci frega. Sempre.

Cercai di farmi largo tra la gente, trovando insopportabile quell’insulso ammucchiamento, quando sentii una mano calda artigliare il mio polso freddo.

Mi girai infastidito e stanco, pronto a inveire contro chi aveva osato disturbarmi. Con mia somma sorpresa incrociai gli occhi malinconici della mia amata.

Non disse niente ma mi trascinò lungo un corridoio, senza mai girarsi verso di me. Mi sentivo incredulo e vagamente confuso. A che gioco stava giocando?

Entrammo nell’ultima stanza in fondo. Era piena di vecchi libri sugli scaffali. Il fuoco scoppiettava allegro nel camino e fuori dalla finestra il vento ululava sinistro. Kagome chiuse la porta lasciando fuori il chiasso della gente e della musica.
Non accese nemmeno la luce, non ce n’era bisogno. Il riverbero delle fiamme permetteva di vedere il minimo indispensabile.

Si piazzò davanti a me, spostando in continuazione il peso da un piede all’altro, torturandosi ossessivamente le mani.

<< Qui possiamo parlare indisturbati >> mormorò sviando continuamente i suoi occhi dai miei.

<< E Koga cosa ne pensa di tutto questo? >> le domandai bruscamente ficcandomi le mani in tasca.

Lei mi guardò colpevole << Gli ho detto che avevo bisogno di parlarti e di fidarsi di me. Non ci disturberà >>

La scrutai sentendo la rabbia montarmi dentro.

Si stava divertendo a prendermi in giro? Non poteva dirmelo per messaggio che aveva scelto lui? Che io per lei non contavo nulla?
Li avevo visti, non c’era bisogno di nessuna spiegazione.

Stavo per alzare i tacchi e andarmene quando vidi le lacrime brillare ai lati dei suoi occhi. Capii all’improvviso di essere stato un perfetto idiota. Compresi la sofferenza che stava provando, anche e soprattutto per causa mia, e la fatica che quell’incontro le doveva essere costato. L’avevo messa io in quella situazione.
Lei non aveva colpa

Però se aveva scelto Koga perché ora era sul punto di piangere?
Non sapendo cosa fare e che cosa dire, mi soffermai a rimirarla.

La luce del fuoco che crepitava nel camino veniva riflessa sui suoi capelli, dai contorni fino alle lunghe ciocche, colorando quel nero corvino in un gioco di sfumature rossastre. Sembravano ardere come tizzoni roventi.
Era semplicemente meravigliosa.

Sapevo che lei non era destinata a me, in qualche modo lo avevo intuito fin dall’inizio, eppure avvertivo la necessità di dirglielo, di aprirle il mio cuore e togliermi finalmente quel peso dal petto pur sapendo che non avrei comunque smesso di soffrire.

Allungai una mano verso il suo viso e le adagiai il palmo su una guancia, racchiudendola completamente.

Ora sapevo cosa dirle.

<< Kagome… io ti amo >> le sussurrai con voce roca, sentendomi finalmente libero.

Quelle semplici, e in apparenza insignificanti, parole avevano il potere in realtà di creare o distruggere tutto. Sarebbero state il mio futuro o la mia rovina.

Delle calde lacrime bagnarono all’improvviso le mie dita. Quelle lacrime, da lei a lungo represse, trovarono finalmente uno sbocco.

<< Anche io Inuyasha… non so come sia successo però è così >> rispose in un soffio.

Il mio cuore sembrò librarsi verso il cielo, leggero come ali di farfalle.

<< … ma amo anche Koga >> continuò con voce rotta dal pianto << E non posso fargli una cosa del genere, non dopo tutto quello che lui ha fatto per me >>

Scosse la testa, come a cercare di autoconvincersi.

Mi aveva raccontato il suo triste passato in uno dei tanti pomeriggi di studio. Sapevo del divorzio dei suoi genitori e della profonda depressione che ne era conseguita. Koga era arrivato in un momento molto buio per lei e l’aveva aiutata ad uscirne.

<< Non posso farlo, non se lo merita >>

Ritrassi la mano come scottato.

Mi amava… ma amava anche lui.

Un buco, grande come un abisso, mi squarciò il petto.

<< È possibile amare due persone così diverse contemporaneamente? >> chiese, più a se stessa che a me << Sono così confusa, così confusa… >> sbottò scoppiando rumorosamente in lacrime.

Si nascose il viso tra le mani e si lasciò andare in preda a violenti singhiozzi.

Odiavo vederla piangere.

<< Kagome, tu credi nella magia? >> le domandai improvvisamente.

Lei si asciugò gli occhi con il dorso della mano e mi fissò interrogativa.

<< Alla magia? >>

Feci un cenno di assenso con la testa.

<< La magia che aleggia nell’aria, che permea l’intera esistenza, che fa incontrare le persone per caso, le fa conoscere e poi innamorare. Ci credi? >>

I suoi occhi erano ancora sbigottiti.

<< Beh… non saprei. Forse, qualche volta… >>

<< Tra di noi esiste, ne sono sicuro >>

Il suo cuore batteva veloce, potevo udirlo distintamente. Anche il mio galoppava impazzito mentre il suo dolce profumo mi inebriava i sensi.
Mi sporsi verso di lei dandole il tempo necessario per ritrarsi, ma non lo fece.

Le catturai le labbra in un bacio che di dolce non aveva nulla. Era rovente, profondo, passionale.
Era un bacio che non avrei mai dimenticato.

Era il preludio di un addio.

***

Lasciai la stanza e, senza curarmi della gente che mi passava accanto già visibilmente brilla, mi diressi verso l’uscita.
L’aria si era fatta più rigida e penetrava velocemente nelle ossa. Mi ficcai le mani nelle tasche del cappotto e mi incamminai lungo il viale scarsamente illuminato da piccole lampade da giardino. Il brecciolino, reso scivoloso dall’umidità presente nell’aria, scricchiolava sotto le mie scarpe. Il mio respiro caldo si condensava davanti a me in una nuvola di vapore.

Arrivato in prossimità del cancello scorsi una figura appoggiata lungo una delle inferriate. Avevo già capito la sua identità prima di arrivargli vicino.

<< Koga… >>

Lui avanzò verso di me con fare minaccioso.

<< Io ho bisogno di lei >> affermò con impeto, scaraventandosi addosso a me.

Mi afferrò il bavero del cappotto e avvicinò il viso al mio. Il suo fiato caldo investì la pelle fredda delle mie guance.

<< Io la amo >> sussurrò con voce spezzata.

Una confessione che gli veniva dal cuore ma che non aveva bisogno di farmi.

I suoi occhi erano umidi e tratteneva a stento le lacrime. Era orgoglioso il mio amico, non avrebbe pianto davanti a me.
Con un profondo sospiro lo tirai via.

<< È tutta tua. Ha scelto te >>

Koga mi guardò confuso, alla soffusa luce dei lampioni, come se non avesse compreso le mie parole.

<< Kagome ti ama. È una ragazza meravigliosa, prenditi cura di lei >>

Mi allontanai da lui, puntando alla mia macchina. Avevo bisogno di sedermi, avevo paura che le mie gambe cedessero da un momento all’altro.

<< Grazie, Inuyasha >> lo sentii dire dolcemente, a voce estremamente bassa.

Ma non mi girai. Non volevo che vedesse che ero anch’io, purtroppo, sul punto di piangere.

Ma gli uomini non piangono.

***

Presi le mie cose e mi trasferii a studiare in un’altra città, più precisamente ad Osaka. Volevo assolutamente cambiare aria, mettere tra di noi la maggiore distanza possibile. Avevo ritenuto fosse meglio non vederla per parecchio tempo, con la speranza che il tempo e la lontananza curassero le mie ferite. Mi costò tanto, tantissimo. Mi mancava lei e mi mancava il mio amico, anche se non potevo più definirlo tale, ma sapevo che era la cosa giusta da fare.

Una volta terminati gli studi decisi però di ritornare nella mia città d’origine. Mi mancava casa mia, la mia mamma, i miei amici e ormai niente più mi legava ad Osaka. Avevo avuto qualche ragazza, anche una storia abbastanza seria con una mia compagna di corso di nome Kikyo, terminata dopo qualche mese di tira e molla. Niente però era così importante per me da farmi restare lì.

Non avevo avvertito nessuno del mio ritorno, volevo che fosse una sorpresa per cui presi un taxi appena fuori dall’aeroporto.
Ero così emozionato una volta raggiunto il mio quartiere che decisi di entrare in un bar e prendere un caffè, prolungando così il piacere dell’attesa nel rivedere le persone a me tanto care e godermi le loro facce felici e stupite.

Mi avvicinai al bancone e notai una ragazza dalla parte opposta che rovistava freneticamente nella borsetta con la testa china. Dopo qualche trascurabile imprecazione, tirò fuori un fazzoletto di stoffa e alzò di scatto il capo, incrociando casualmente i miei occhi.

Era lei. Ne ero sicuro.

Erano passati cinque anni dall’ultima volta che ci eravamo visti ed era cresciuta, sbocciata. Era diventata una giovane donna eppure allo stesso tempo non era cambiata di una virgola. Indossava un tailleur nero e vertiginosi tacchi a spillo.
Anche lei mi guardò con i suoi bellissimi occhi dal colore quasi indefinito, scrutandomi attentamente come a volersi accertare della mia identità.

Poi mi sorrise ed io mi sentii sciogliere.

Presi quel sorriso come un invito e prontamente mi avvicinai a lei, avvertendo il cuore martellarmi furiosamente nel petto.

<< Ciao >> le dissi semplicemente, pur sapendo di risultare banale.

<< Ciao >> rispose lei divertita, sfoderando il suo sorriso più bello.

Non sapevo se fosse ancora fidanzata con Koga, se si fossero sposati, se stesse addirittura con qualcun altro o se fosse felicemente single.
Non mi importava.

La invitai a prendere un caffè seduti comodamente ad un tavolo e lei accettò con gioia. La osservai lungamente mentre il cameriere ci serviva due tazze fumanti. Volevo appurare ogni suo più piccolo cambiamento e imprimerlo bene nella mia mente.
Afferrò il bricco dosatore dello zucchero e ne versò una bella quantità nella tazzina, lasciando cadere qualche granello sul tavolo. Sembrava nervosa e stranamente impacciata. Sogghignai a quel gesto e lei mi puntò addosso i suoi occhioni stupiti. Poi ridacchiò sommessamente, portandosi una mano davanti alla bocca, e come per incanto tutto mi sembrò perfetto.

Scossi la testa rendendomi conto che quello che provavo per lei, nonostante i miei sforzi e la forzata lontananza, non si era per nulla sbiadito.

<< Kagome, tu ci credi ancora nella magia? >> le chiesi improvvisamente, rompendo quello strano e assurdo silenzio tra di noi.
Vecchi ricordi ripresero dolcemente vita nella mia mente.

Lei mi guardò perplessa per un istante, poi afferrò il manico della tazzina e portandola alla bocca sorrise.

La sua voce risultò limpida, dolce e sincera.

<< Sì, Inuyasha. Qualche volta ancora ci credo >>



 
 
 


FINE
 
 










*Haiku- è un componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo. Generalmente è composto da tre versi per complessive diciassette more secondo lo schema 5/7/5. La sua metrica è fissa ma breve, e racconta solo in superficie quello che si vuole esprimere. Il resto è lasciato soprattutto all’interpretazione del lettore.
 
 
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Angolo Autrice
 
Vi confesso che avevo intenzione di prendermi una pausa dallo scrivere, ma poi, non so come, mi è venuta in mente questa os e ho deciso di scriverla e pubblicarla. Naturalmente ho intenzione di finire tutte le storie in corso (quindi se le seguite non vi preoccupate perché gli aggiornamenti ci saranno, i nuovi capitoli sono in fase di scrittura), pian piano la voglia di tornare attivamente nel fandom sta tornando. Spero che questa storia vi sia piaciuta, in un certo senso c’è molto di me in queste righe e sinceramente ci tengo davvero. Se vorrete farmi sapere cosa ne pensate ne sarei estremamente felice.
Un bacio, Monica.


 
  
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