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Autore: Lady I H V E Byron    25/07/2017    1 recensioni
Giacomo Leopardi sta scrivendo "A Silvia", quando, improvvisamente, gli ritorna in mente Teresa Fattorini, immagine accompagnata da un forte senso di nostalgia e un forte rimpianto di un amore mai avvenuto, per colpa di timori dovuti all'ambiente in cui viveva.
Per questo si chiede: e se lui e Teresa fossero andati oltre gli sguardi e i saluti freddi e distaccati?
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Note dell'autrice: dopo questo capitolo, vi capirò se non volete più leggere la storia... Ah, ecco una cosa da tenere in conto, se non due: primo, nelle mie storie, anche se i primi capitoli risulteranno un po' noiosi, vi assicuro che la parte centrale sarà un pochino più interessante; dovete solo aspettare. Secondo, sul piano linguistico, soprattutto dialogico, avevo pensato di adeguarlo ai personaggi; vale a dire: i nobili, un linguaggio raffinato, quasi aulico; i popolani, un linguaggio quasi "scortese" e analfabeta, quindi non scandalizzatevi per gli errori di grammatica all'interno di alcuni punti dei dialoghi...

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Giacomo e Carlo avrebbero passato le giornate a giocare a fare gli schermitori. Paolina restava in disparte, tifando per entrambi, o per uno o per l’altro, dipendeva a che gioco giocavano.
Peccato che Monaldo non aveva permesso ai figli maschi di praticare l’arte della scherma, invece che indirizzarli allo studio fin da piccoli.
A Giacomo piaceva studiare, ma non gli sarebbe dispiaciuto, in fondo, fare qualcos’altro. Essere come un eroe epico, magari come Achille o Ulisse, alzare la sua spada al cielo per poi combattere contro i nemici.
Le tipiche fantasie di un bambino con la passione per la mitologia greca.
Se Carlo e Giacomo volevano giocare a tirare di scherma, prendevano un bastone di legno a testa e li incrociavano l’un l’altro.
A volte veniva anche Luigi, ma, sebbene affascinato dalle attività dei fratelli maggiori, non gli era permesso di giocare con loro, perché troppo piccolo; restava con Paolina ad osservarli, in braccio a lei.
Piccoli, ma pur sempre momenti di felicità per il piccolo Giacomo, di soli nove anni.
Quando non giocava, studiava, e per tutto il giorno. Fin da piccolo aveva dimostrato un grande talento per lo studio e un’intelligenza tale che Monaldo decise di renderlo un bambino prodigio, da esibire in pubblico, come Leopold Mozart fece con il figlio Wolfgang. Aveva una vasta biblioteca, che aveva messo a sua disposizione, per orientarlo verso gli studi classici. Giacomo si mostrò subito interessato al mondo classico, con i suoi eroi, miti, leggende, persino gli scrittori stessi, per questo si divertiva ad interpretarli, quando giocava con i fratelli.
Erano quasi sempre nel giardino sotto casa a giocare, dove potevano essere continuamente sorvegliati dagli occhi del padre e dalle orecchie della madre. Raramente potevano uscire dalla loro “prigione”.
Era in quei momenti che Giacomo riusciva a vederla: Teresa Fattorini, figlia di Raimondo, il cocchiere di casa Leopardi. Aveva un anno in più di lui, ma se paragonava il suo aspetto al proprio, sembrava lui quello più grande. Lei era graziosa, capelli castani dalle onde morbide, occhi verdi, profilo greco, mentre lui provava un grande disprezzo per il proprio aspetto, per il suo corpo fragile e all’inizio della sua deformazione ossea.
La vedeva sempre con il padre Raimondo, che la teneva per mano.
Il piccolo conte, con la coda dell’occhio, notò che lei si era voltata, forse per guardarlo.
-Suvvia, Teresa! E’ ora di tornare a casa!- le aveva esclamato il padre, strattonandola delicatamente.
 
Dalla finestra della biblioteca, mentre studiava, la osservava, nella sua stanza, mentre, con la madre e altre ragazze, imparava a cucire.
Una tipica, patetica, scena di persone comuni, agli occhi di qualsiasi nobile.
Ma a Giacomo piaceva.
Gli piaceva la loro semplicità; piccoli semplici gesti quotidiani che lo affascinavano.
Il mondo dei popolani, seppur reputato “inferiore” rispetto alla nobiltà, era come l’essere umano dovrebbe essere. Forse era giusto dire che i popolani fossero superiori ai nobili: i nobili non sapevano fare nulla senza l’ausilio dei servi. I poveri, invece, nella loro condizione, sapevano cavarsela da soli.
Sapevano essere eroi, nel loro piccolo.
Se solo nella sua vita non ci fosse stato solo lo studio…
E poi osservava Teresa, nella sua semplicità, nella sua radiosità. Quando sorrideva, il mondo si illuminava, diventando persino più graziosa di quanto non lo fosse già. Sembrava una ninfa. Una bellissima ninfa dei boschi.
Giacomo avrebbe tanto voluto parlarle, ma aveva paura; paura del giudizio dei genitori, paura di non trovare le parole giuste, paura di fare una brutta impressione.
 
Un giorno, i quattro fratelli Leopardi, sotto gli occhi del loro precettore, don Giuseppe (che nel frattempo si era come assopito), stavano giocando con il pallone, uno dei giochi a cui poteva anche partecipare Paolina, e uno dei giochi preferiti del piccolo Luigi. I suoi colpi erano persino più forti dei fratelli maggiori, soprattutto di Giacomo, che erano molto deboli, tali che la palla si fermava a mezzo metro di distanza da lui.
-Dai, Giacomo! Più forte!- lo incitava Carlo, prima di ogni colpo.
Alla fine, riuscì a dare un calcio forte. Forse anche troppo forte. Cadde sulle sue ginocchia, mettendosi a quattro zampe, dallo sforzo, facendo allarmare i fratelli.
Nel frattempo, la palla era già a diversi metri di distanza: qualcuno ebbe la sfortuna di passare per quella traiettoria. Ma, fortunatamente, non colpì la figura, solo quello che portava.
I quattro fratelli Leopardi si spaventarono di fronte a quella scena: infatti, corsero immediatamente a soccorrere la figura, che si era chinata per raccogliere quanto era caduto.
Paolina aveva preso in braccio il piccolo Luigi.
-Ti sei fatta male?- domandò, preoccupata.
Giacomo, prima aiutato da Carlo per rialzarsi, per poi essere sorretto da lui fino a quando non raggiunsero la sorella, ebbe un lieve momento di sincope, appena scoprì chi aveva colpito con la palla: Teresa.
Proprio lei.
-No, sto bene.- rassicurò lei, sorridendo lievemente –Mi sono solo spaventata, tutto qui.-
Per terra, in mezzo all’erba, erano sparsi dei panini, del formaggio, persino dei fiori.
Aiutarono tutti la piccola Fattorini. Luigi, invece, riprese subito il pallone.
Specialmente Giacomo.
-Scusa.- iniziò, arrossendo –E’ colpa mia. Ho calciato troppo forte e ho rischiato di farti male.-
Le porse i fiori, abbassando lo sguardo, imbarazzato. Le loro mani si sfiorarono, nel momento in cui lei stava per riceverli.
Si guardarono negli occhi; avevano entrambi provato una strana sensazione a quel tocco.
Com’erano profondi gli occhi di Teresa e quanta tenerezza esprimeva Giacomo…
-Non fa niente.- disse ella, guardando subito da un’altra parte. Il piccolo conte si fece subito triste.
Era ancora troppo piccolo per definire amore la sensazione provata poco prima. Ma la reazione di Teresa gli fece provare una forte malinconia.
-Non potevate sapere che passavo per di qui.- proseguì lei, tirando su con il naso; era ancora arrossita –Me ne vado subito via.-
Paolina, però, mordendosi entrambe le labbra, fece un passo avanti.
-Perché non giochi con noi?- propose.
Quella domanda colse di sorpresa i presenti, meno Luigi, che continuava a giocare a palla da solo e non stava ascoltando.
-Io… giocare con voi…?- balbettò Teresa, imbarazzata –Non posso. Io sono praticamente una serva e i servi non giocano con i padroni.-
-Non dire così!- insistette la contessina –Prima di tutto, siamo bambini e i bambini giocano. E più siamo meglio è, no?- mise le mani come in preghiera -Ti supplico, fammi contenta, Teresa. Mi sento molto sola in mezzo ai miei fratelli, quando giochiamo, perché sono tutti maschi e io sono l’unica figlia femmina della mia famiglia. Non ho mai giocato con le altre bambine.-
La bambina non poteva rifiutare tale invito, specie se chiesto in quel modo.
Posò il cestino su cui c’erano gli oggetti appena raccolti.
-Se la mettete così…- disse –Allora va bene.-
Persino don Giuseppe non ebbe nulla da ridire sulla decisione di Paolina.
-Perché no?- fu la sua risposta –Non ci vedo niente di male a vedere la figlia del cocchiere giocare con i contini.-
Il quartetto divenne un quintetto.
-Devi fare così.- spiegò Carlo a Teresa, mostrando come calciare una palla.
La palla rotolò fino ai suoi piedi.
-Ho capito.- disse.
-Piano, mi raccomando.-
La Fattorini fece quanto detto dal piccolo conte.
Colpì la palla molto piano. Rotolò fino a Giacomo, che arrossì di nuovo a vedere la bambina.
Ripresero a giocare e il tempo passò.
Le due bambine si stancarono subito, infatti, si separarono dal gruppo per cogliere dei fiori.
Anche Giacomo si allontanò dai fratelli, ma si sedette vicino a don Giuseppe, che stava leggendo il Vangelo.
Carlo rimase da solo a giocare con Luigi.
-Vedete, contessina, si fa così…-
Giacomo si voltò verso le bambine: Teresa stava insegnando a Paolina come fare una corona di fiori, di margherite.
Osservò prima l’una, poi l’altra: Paolina era esattamente come lui, pallida, oscura, priva di ogni luce; Teresa splendeva di una luce propria.
Una chiara dimostrazione dei segni delle proprie vite.
Un po’ di luce, però, sembrò far splendere l’aspetto della contessina, quando la Fattorini le mise la corona di margherite che aveva appena intrecciato.
-Ecco a voi.-
-Oh, ti ringrazio.-
Maledisse di non aver portato uno specchio per rimirarsi. Giacomo, però, la reputò più carina di prima.
-Senti, Teresa…- riprese lei –Tu, per caso, ce le hai le bambole? Così, se i miei fratelli giocano a fare gli spadaccini, noi due potremo giocare con le bambole...-
Teresa si fece rossa in volto.
-Mi spiace, contessina, ma non abbiamo soldi per comprare bambole…- si scusò, temendo di fare un torto alla contessina.
Ma lei sorrise.
-Non fa niente. Ti presto volentieri una delle mie.-
Infatti, appena tornarono a casa, Paolina prese Teresa per mano e la condusse in camera sua.
I mobili avevano una forma molto elegante, c’era persino un tavolo con uno specchio davanti (dove Paolina poté rimirarsi con i fiori sui capelli) e gli scaffali erano colmi di bambole in porcellana.
La contessina ne prese una con un abito blu e un cappello con i fiocchi che coprivano i morbidi boccoli castani.
-E’ una delle più belle che possiedo, nonché una delle mie preferite.- disse, porgendola a lei –E’ tua, adesso.-
Teresa indietreggiò, scuotendo la testa.
-No, contessina, non posso.- disse, in realtà grata di quel piccolo gesto di generosità –Se vostra madre o vostro padre lo vengono a sapere, possono punirvi, o rimproverare mio padre. Non devo nemmeno essere qui… Devo andare prima che i vostri genitori mi vedono.-
-Aspetta, Teresa!- la fermò Paolina, ancora con la bambola in mano –D’accordo, come vuoi. Allora facciamo un patto. Ogni volta che i miei fratelli ed io usciremo di casa, io porterò due bambole con me, una per me e una per te.-
La piccola Fattorini era lieta di quelle parole. Paolina non si sarebbe più sentita isolata, ogni volta che vedeva i fratelli giocare, e Teresa avrebbe avuto qualcuno con cui giocare.
Uscì da casa Leopardi, cercando di fare meno rumore possibile, per poi rientrare a casa sua, con il cesto sottobraccio. Salutò Paolina, che si era affacciata dalla finestra della biblioteca che dava sulla casa della servitù.
Giacomo, nel frattempo, si era nascosto dietro la porta della stanza della sorella, ascoltando il loro discorso.
Il suo cuore si riempì di gioia, quando venne a conoscenza del patto.
Avrebbero continuato a vedersi.
Ringraziò Dio per aver permesso la nascita della sua Pilla.
   
 
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