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Autore: loutommosofia    26/07/2017    0 recensioni
Andrea e Daniel sono due ragazzi adolescenti. Entrambi vengono da situazioni amorose molto difficili. Il primo, dichiaratamente gay, ha vissuto una relazione in cui il suo ragazzo lo maltrattava, il secondo sará il protagonista di una disgrazia che causerá in lui un blocco da un punto di vista sentimentale, come se la precedente relazione potesse influenzare la prossima arrivando a impedirla per parecchio tempo. Alla fine i due, conosciutisi per caso e diventati subito amici, saranno protagonisti di un'intensa storia d'amore, nonostante Andrea avesse mentito a Daniel sulla propria identitá. Alla fine, una volta scoperta la verità, sará l'attrazione e la stima che ciascuno di loro due proverá per l'altro a vincere sulle menzogne.
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Dopo tre quarti d'ora passati sotto la pioggia fresca e il temporale caratterizzato da tuoni rombanti, e lampi luminosi tanto da essere notati con le palpebre socchiuse, vidi l'auto dei miei, una Volkswagen color grigio fumo parcheggiare in garage, il quale era situato di fronte a me. Sospirai. Non li raggiunsi. Preferii aspettare fossero loro, a venire verso di me. Tanto, per entrare in casa, sarebbero stati obbligati a passarvici. Vidi mia madre uscire dall'auto, chiudere la portiera e mio padre fare lo stesso pochi secondi dopo. Entrambi ridevano spudoratamente, mentre cercavano con fatica di pronunciare qualche parola che peró venica soffocata dalla loro ridarola, la quale pareva essere visibilmente incontenibile. Quanto mi faceva soffrire vedere loro perennemente sorridenti, felici e sereni mentre io, per colpa loro, ero l'esatto contrario. Dopo aver concluso il momento di ilarità, chiusero il garage e si diressero verso di me. Il tutto con la massima tranquillità, incuranti delle condizioni metereologiche e pee di più sotto un grande ombrellone. Finalmente potei parlare loro. "Ciao tesoro" aprí bocca mia madre. "Ciao amore, cosa ci fai qua? Sta piovendo" domandò suo marito. Da tempo non avevo avuto a che fare con una domanda tanto ipocrita come quella che mi era appena stata posta. "Oh, volevo farmi una doccia all'aria aperta e la Natura ha voluto esaudire il mio desiderio, accontentandomi. Ti sembro abbastanza pulita?" sentenziai. "Non scherzare" mi rimproveró lui. "Secondi voi cosa ci posso fare qua?". " Sonia, cerca di essere seria e matura". "Io seria? Io matura? Voi dovreste esserlo, siete i miei genitori o sbaglio?". "Tesoro, datti una calmata!" urlò mio padre, cercando di impaurirmi. "Non mi calmo. È una cosa assurda, quella che è successa oggi. Ma non solo oggi. Vi sembra normale che ve ne andiate per conto vostro senza avvisarmi, nè dirmi nulla, mentre io sono obbligata a stare fuori con pioggia,vento e temporale perché non ho le chiavi per entrare in casa? Questo non è rispetto". I miei genitori erano così. Questa era una cosa banalissima, in confronto a tutto ciò che mi avevano fatto passare negli anni precedenti. Non era stata un po' d'acqua a farmi impazzire. Ma era stata, nel verso senso della parola, l'ultima goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Ormai ero stanca, di ciò. Loro per me non c'erano quasi mai, se ne infischiavano dei miei bisogni e delle mie necessità, sia scolastiche, che sportive, che sentimentali. Purtroppo, però, loro non lo capivano. Non ci riuscivano, nonostante io avessi più volte provato a dir loro che stavo male, nel vivere quella situazione. Io volevo avere una vita diversa. Ma ogni volta che ne parlavamo, iniziando in modo civile, finivamo sempre alla stessa maniera: io alzavo il tono per cercare di avere voce in capitolo, ma finivo continuamente per essere considerata un' immatura e irresponsabile da parte loro. Venivo sempre punita perché tutte le cose che volevo fare ero obbligata a farle di nascosto. Per loro, la musica, era una specie di tabù. Odiavano avere a che farci. Così come accadeva per il canto, altra mia grande passione, assieme al pianoforte, o ancora gli animali. E io, man mano che il tempo passava, ero sempre più costretta a nasconderle e negli anni avevo imparato a non mostrarle a nessuno, se non a due sole persone: Daniel, il mio ragazzo, e Vanesa, la mia migliore amica. Era per tale motivo che loro, per me, erano tanto speciali: erano gli unici a conoscermi davvero e a cui mi mostravo per come fossi realmente. Con i miei genitori, ciò non accadeva. Loro ritenevano le mie passioni, un'infantile pensiero di una quasi tredicenne ancora poco cresciuta e che pensasse solo a divertirsi. "Spiegami cosa c'è di maturo in un pianoforte. Penso che tu sia abbastanza cresciuta per giocare" diceva mia madre. "A cosa serve prendere lezioni di canto se cantare non produce niente?" si aggiungeva mio padre. L'unica cosa a cui potevo dedicare le mie ore era lo studio. Su quello, non avevano nulla da ribadire. A quello mi dedicavo con molto impegno. In particolar modo, sui voti non avevano mai osato lamentarsi. La mia pagella era straordinaria, non avevo mai avuto un otto, solo nove e dieci. Almeno per quel momento. "Sonia, non ti arrabbiare per così poco. Ora siamo qua, puoi entrare". Dopo aver detto ciò, mio padre mi passó le chiavi del portone di casa con spudorata tranquillità, quasi infastidito dall'insistenza con cui gli avevo chiesto di farmi entrare. Spalancai la porta e mi precipitai nella mia camera, posando le chiavi per terra, malamente. Gettai poi la mia borsetta sul tappeto beige della mia stanza e mi sdraiai sul letto, affondando la faccia nel cuscino e tirando dei pugni su di esso. Dopo cinque minuti, priva di energia nelle braccia, mi misi seduta e alzai lo sguardo verso l'orologio. Erano le cinque. Sbuffai. Era presto. Desideravo solo che quella giornata finisse al più presto. Anche se, in fondo, le successive sarebbero certamente state uguali a quella. Mi stesi nuovamente, girandomi su un lato. Finii per addormentarmi in poco tempo. "Sonia, vieni un attimo. Io e tuo padre dobbiamo parlarti" pronunciò una voce, interrompendo il mio sonno. Sentii la porta della mia camera aprirsi. Mi girai verso di essa e guardai mia madre, comparsa sull'uscio, con ancora gli occhi socchiusi. "Che ore sono?" domandai. "Le cinque e dieci". "Ho sonnecchiato per dieci minuti e mi è parso di dormire per tre ore? Quanto passa in fretta, il tempo, quando si dorme" pensai. "No, sto dormendo " bofonchai rimanendo sdraiata sul letto. Le diedi le spalle. "Ormai non più. Su, alzati. Ti aspetto, tra due minuti massimo, di là". "Di là dove?" chiesi cercando il pelo nell'uovo. "In salotto". "Ecco, parla bene" dissi a bassa voce. "Arrivo" conclusi. Sentii la porta chiudersi. Sospirai. Un centinaio di secondi dopo mi ritrovai seduta sul divano, con mia madre sul alla mia destra e mio padre nella poltrona di fronte a me. Un senso di ansia e malessere percosse il mio animo. "Eccoci tutti" disse mio padre. Accavallai le gambe e incrociai le braccio osservando, seria, un punto fisso davanti a me, mantenendo un'aria scocciata. "Ora possiamo parlarti" aggiunse poi. "Prima di aprire bocca, una cosa: dove siete stati, oggi?" chiesi. I miei si guardarono. Poi mio padre annui. Mia madre si schiarì la voce e inizio a parlare.
   
 
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