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Autore: EffyLou    28/07/2017    1 recensioni
ATTENZIONE: storia interrotta. La nuova versione, riscritta e corretta, si intitola Stella d'Oriente.
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Ha venti anni quando incontra per la prima volta quegli occhi, lo sguardo fiero del re di Macedonia, il condottiero che non perdona; ha venti anni quando lo sposa, simboleggiando un ponte di collegamento tra la cultura greca e quella persiana. Fin da subito non sembra uno splendente inizio, e con il tempo sarà sempre peggio: il suo destino è subire, assistere allo scorrere degli eventi senza alcun controllo sulla propria vita, e proseguire lungo lo sventurato cammino ombreggiato da violenza, prigionia e morte.
Una fanciulla appena adolescente, forgiata da guerre e complotti, dalla gelosia, dal rapporto turbolento e passionale col marito. Una vita drammatica e incredibile costantemente illuminata da una luce violenta, al fianco della figura più straordinaria che l'umanità abbia mai conosciuto.
Rossane, la moglie di Alessandro il Grande. Il fiore di Persia.
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo, Violenza | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Memorie Antiche'
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PARTE PRIMA 
Petali d'acciaio





۱ . Yek
 
 
Impero di Persia, provincia di Battria.
Rocca di Arimazes1, 327 a.C.


 
Quando partì da Ai Khanum non salutò nemmeno suo padre. Non le importava, quel traditore dell’impero non meritava alcun tipo di saluto. Gli era grata di averle messe al sicuro, ma non poteva che disprezzarlo.
Le sue sorelle quando avevano visto i piccoli tagli sullo zigomo e il segno rosso sulla pelle, si erano allarmate e le avevano chiesto cosa fosse successo. Rossane non poteva far crollare l’affetto che provavano per loro padre raccontando del suo tradimento, pertanto tacque riferendo che aveva sbattuto da qualche parte con il viso. Mizda non ci aveva creduto, ma non aveva fatto domande.

La Rocca di Arimazes si trovava su un promontorio roccioso, si poteva accedere da una stretta scalinata di pietra che si attorcigliava intorno alla collina come un serpente
Fu un viaggio lungo ed estenuante, durato due settimane. Era un luogo angusto, pietroso, umido, ma se non altro era tenuto pulito. I servitori di Ossiarte che dimoravano lì ci tenevano a renderlo un luogo piacevole e accogliente, fecero trovare i camini accesi nelle camere delle principesse, i letti con le lenzuola profumate, e qualcosa da sgranocchiare dopo quel lungo viaggio.
C’era un’enorme sala per i banchetti, un salotto con le pergamene per leggere, terrazze, giardini, bagni, cucine e ricche dispense. Sembrava di stare in un castello, un po’ diverso dal palazzo in cui abitavano ad Ai Khanum ma pur sempre un castello.
Quando Rossane arrivò, capì che quel posto era davvero sicuro. Era impossibile arrivarci con un esercito, troppo complicato. Inoltre il portone di legno del muro di cinta era enormemente spesso, le pareti mura inespugnabili, l’interno brulicava di soldati e anche le torri di guardia. La possibilità che il re di Macedonia riuscisse a fare breccia in quelle mura era lontana e non contemplata.
 
 
Amu riempiva l’aria con la melodia malinconica del suo santur, talvolta accompagnata dal canto di Darya. Mizda tesseva, Fayruz pettinava spesso i capelli. Rossane si sedeva tra le arcate del porticato che davano al giardino interno e leggeva le avventure di Gilgamesh.
Conosceva a memoria quella storia, ma ne era perdutamente innamorata. Tanto che aveva lasciato ad Ai Khanum tutti i beni considerati effimeri, tranne le pergamene di Gilgamesh. Non avrebbe mai potuto privarsene.
Alla Rocca di Arimazes faceva più freddo e ogni tanto cadeva la neve, anche se non attecchiva. Le giornate scorrevano lente, tutte uguali.
Rossane non aveva più parlato con suo padre dopo quello schiaffo, ed erano ormai passati circa tre mesi da quando erano arrivate alla rocca.
Ossiarte continuò da lì la sua opera di sfida nei confronti del re di Macedonia. Lo provocava, lo sfidava a conquistare la rocca in cui dimoravano, forte delle sue convinzioni che non ci sarebbe mai riuscito. Pirsar sconsigliava al suo satrapo di fare atti avventati come quello, ma il persiano ormai sembrava fuori di sé. Presto, infatti, ricevette una missiva molto breve e concisa da parte del conquistatore straniero.
  • Starete a vedere, nobile Ossiarte.
 


 
 
 
Era arrivata la primavera tra i monti del Paropamiso. Il sole era un po’ più tiepido ed era piacevole passare i pomeriggi soleggiati fuori nel giardino interno. Rossane e Darya giocavano ad arrampicarsi sulle torri di guardia, afferrando i pezzi di massi che sporgevano dalla costruzione. La minore era brava ad arrampicarsi e veloce, tanto che la sorella non riusciva a starle molto dietro pur essendo una buona scalatrice anche lei.
Arrivate sulla cima, un paio di arcieri di guardia lanciarono loro un’occhiata allarmata.
«Siete di nuovo voi, principessa Darya. Oh, e ci siete anche voi!»
«Principessa Rossane, perché vi ostinate a sfidare vostra sorella?» ridacchiò l’altro.
La maggiore arricciò il naso. «In qualcosa dovrò pur essere la più brava, no?».

Lei non eccelleva in niente. Amu era la musa del santur, Darya del canto e dell’arrampicata. Rossane era brava a fare molte cose, ma non eccelleva in niente di esse e questo era frustrante.
Era considerata la più bella delle tre sorelle, la donna più bella di tutta l’Asia. Ma a lei non interessava, perché in fondo la bellezza a lungo andare si sciupava. E cosa rimaneva poi se non le proprie doti e virtù? Anche per questo Rossane era un’amante della cultura, assetata di conoscenze.
Mizda le diceva sempre che c’era una cosa nella quale eccelleva: far uscire dalla grazia di Ahura Mazda chiunque, per quella lingua tagliente e quell’atteggiamento da impunita. Erano caratteristiche di Rossane che aveva ereditato da sua madre, e Ossiarte le amava e odiava.
Aveva sempre reputato Rossane come la sua figlia prediletta per queste caratteristiche e per il polso che dimostrava in certe situazioni. Ma poi l’aveva fatto uscire di senno la notte in cui era tornato ad Ai Khanum e non aveva più voluto rivolgerle la parola. Non che a lei importasse discutere di qualcosa con un traditore del genere, l’assassino di un re.

«Rossane, nessuno riesce a far arrabbiare la gente come te!» rimarcò Darya, infatti.
«Beh, è una dote naturale che non può essere insegnata né appresa» le diede spago, gonfiando il petto in modo melodrammatico.
La luce del sole cominciava a svanire dietro le montagne, portando con sé un manto oscuro rischiarato da punti luminosi.
Le principesse si lavarono e prepararono per la cena. Mizda non fu d’accordo con la scelta di Rossane di non portare abiti più galanti, gioielli o cosmetici. Era pur sempre una principessa dell’impero persiano, d’altronde. Ma la vecchia balia sapeva che con quella ragazza non avrebbe cavato un ragno dal buco.
Si rassegnò a vederla vestita come una popolana, i capelli castani raccolti in una treccia laterale intrecciata a fili d’oro e gemme, gentilmente offerti da Fayruz per cercare di dare un tocco nobile alla principessa.
Da quand’erano alla Rocca di Arimazes cenavano alla sala dei banchetti insieme alla servitù, era rimasto poco delle vecchie usanze di Ai Khanum.
Tra le risate, la musica, il cibo, il mantello della notte calò sui monti del Paropamiso, il cielo rischiarato dalla luna piena.

Poi fu il suono dei tamburi d’allarme. Il loro rimbombare frenetico che si espandeva tra tutte le torri di guardia. Fu il grido strozzato di una serva, il vino rovesciato di Ossiarte, gli occhi pieni di terrore di Mizda.
Furono le urla provenienti da fuori, dei soldati di guardia, il rumore lontano e metallico di spade che cozzavano.
Fu il generale fidato del satrapo a ordinare di far sigillare le porte della rocca. Fu Mizda che tornò in sé e mandò le principesse dentro le proprie stanze, ordinando loro di barricarsi dentro.
Rossane non se lo fece ripetere. Il cuore che palpitava frenetico poteva sentirlo nelle orecchie, sentiva solo quel suono. La vista che si annebbiava per l’adrenalina. La gonna stretta nelle dita durante la corsa scomposta e mentre saliva le scale veloce come una lepre.
Si chiuse dentro la sua stanza, fece girare la chiave nella serratura tre volte. Spostò il comò di fronte alla porta, puntandosi con i piedi e spingendolo con la schiena. La stessa sorte toccò al comodino e al baule con i vestiti dentro.
Spese tutte le candele, ne accese solo una vicino al letto. Spostò lievemente una tenda dalla grande finestra della sua stanza, guardò giù. Da lì poteva vedere ciò che accadeva nel giardino interno e fuori dal muro di cinta.
Dentro le mura erano penetrati alcuni uomini macedoni ma non erano molti e combattevano contro le guardie della rocca. C’erano cadaveri a terra, qualcuno era ferito. Fuori le mura c’era l’esercito macedone che premeva sulle porte. Gli arcieri nelle torri di guardia erano stati uccisi, i loro corpi riversi sul muro basso della torretta.
Rossane aveva il cuore in gola. Il suo più grande terrore, quello di fare la fine del topo, stava per divenire realtà.
 

 
Non dormì quella notte. I pensieri annullati.
I suoi occhi d’ambra erano fissi sulla battaglia che infuriava di sotto, che non sembrava prendere una piega decisiva per nessuna delle due fazioni. Le guardie della rocca combattevano, instancabili, tenevano occupati i macedoni penetrati nelle mura e non permettevano loro di raggiungere uno dei due portoni. L’esercito continuava a premere alle porte, ma non sembrava ottenere grandi risultati.
Rossane era incapace di distogliere lo sguardo da quelle scene di morte, era incapace di prendere sonno e dormire almeno un po’.
Alle prime luci dell’alba, decise di bere un sorso d’acqua. In quel momento pensò che non aveva valutato l’idea di portarsi qualcosa da mangiare in camera e non sapeva quanto tempo sarebbe rimasta chiusa lì.
Ma poi pensò che, se tanto doveva morire, preferiva farlo per mano propria negandosi cibo ed acqua, piuttosto che farsi ammazzare dai macedoni e dare loro questa soddisfazione.
Tre giorni. Solo tre giorni e sarebbe morta per l’assenza d’acqua.

Seduta sul letto, gli occhi sul tappeto, ripensò a suo padre e al tradimento di re Dario.
Era un vile. Avrebbe appoggiato i macedoni solo per permettere al loro re di tagliare la testa a quel vile traditore sangue del suo sangue. Non si sarebbero trovati in quella spiacevole situazione se Ossiarte non avesse congiurato contro Dario. Rossane non perdonava, non dimenticava. Era inflessibile quando si trattava di certe cose.

La battaglia infuriò per il resto della mattina. Il sole era alto e tiepido nel cielo. Rossane disegnò dodici linee con un carboncino sul pavimento di legno della sua stanza, poi vi poggiò al centro una molletta allungata. Per determinare l’ora dall’ombra che proiettava.
Era mezzogiorno, e la battaglia era ancora statica.
Si gettò sul letto, annoiata, e restò a fissare il soffitto per un lasso di tempo indeterminato.
Poi le palpebre si chiusero da sole.
 
 

Colpi alla porta svegliarono malamente Rossane dal torpore del sonno.
Mugugnò di disapprovazione. Non era qualcuno che bussava. Era qualcuno che stava cercando di entrare con la forza.
Quanto aveva dormito? Troppo, erano scese le tenebre e l’aria si era fatta fredda. Scattò verso la finestra per guardare la situazione: le porte del muro di cinta spalancate, cadaveri di soldati persiani e macedoni ammassati tutti da una parte. Persino con il buio, persino a quell’altezza, riusciva a vedere la scia di sangue sull’erba del giardino interno, che avevano lasciato i cadaveri quando erano stati trascinati.
E qualcuno stava cercando di sfondare la porta della sua camera, come i macedoni avevano tentato di fare dalla sera prima. Erano già riusciti a fare breccia? Ma non era una fortezza inespugnabile, quella? Eccola, la fine del topo. Che modo terribile per morire. Ma forse non aveva molto da perdere. Solo Amu e Darya le sarebbero mancate. 
Una lacrime le rigò la guancia, lei chiuse gli occhi lasciando che facesse il suo corso. I colpi che continuavano insistenti alla porta, finché non esplose: i mobili si riversarono in avanti, la porta scardinata scostata da un lato. Trovarono la principessa seduta sul davanzale della finestra, lo sguardo rivolto verso il cielo e una guancia rigata da lacrime amare. I due che avevano fatto irruzione erano macedoni, non parlavano persiano. Uno di loro le afferrò malamente un braccio e la costrinsero ad alzarsi. Rossane non fece resistenza.
Sarebbe andata incontro al proprio destino senza fiatare. Non avrebbe avuto senso ribellarsi, erano uomini armati, soldati addestrati, e ce n’erano centinaia. Scampava a loro, ma al piano di sotto avrebbe trovato l’intero esercito e non avrebbe potuto aggirarlo per fuggire dalla rocca.
Perciò si lasciò trascinare, come una vela si lasciava trasportare dal vento. Come una conchiglia veniva guidata dalle correnti del mare e finiva sulle spiagge.
Rossane sapeva che le famiglie degli altri satrapi traditori erano state linciate, trucidate. L’esercito macedone che compiva terribili crimini di guerra e si macchiava di sangue innocente.
Ma così era la guerra. Quella stessa sorte stava per toccare a lei, alle sue sorelle, alla vecchia balia, alla concubina intelligente, e a tutta la servitù.
Eppure, quando arrivarono al salone dei banchetti, scoprì che non era morto nessuno di quelli che si erano nascosti nel castello. Persino suo padre era vivo. Legato e imbavagliato, abbandonato in un angolo buio del salone, ma vivo. Se non altro. La vecchia Mizda sedeva ad un tavolo semi nascosto insieme alle donne. Amu e Darya l’abbracciarono.

«Sono entrati due ore fa. Hanno cercato tutti i nascosti della rocca e poi hanno ammassato i cadaveri. Ci hanno permesso di mangiare senza disturbarci, perché anche loro erano stanchi e affamati» le spiegò Amu, a bassa voce. Tremava come una foglia.
Il salone dei banchetti pullulava di guerrieri macedoni, l’intero esercito che affollava quella sala. Ridevano, mangiavano, bevevano. Sporchi di sangue rappreso e feriti non gravemente.
Qualcuna delle serve più belle, quando passava a portare le nuove portate, veniva palpeggiata senza pudore. Greci e macedoni avevano l’abitudine di definire “barbari” tutti i popoli che non appartenevano al loro territorio. Se non altro, tra i persiani non si permettevano di toccare in quel modo vergognoso una donna.
«Almeno ci hanno lasciato in pace» mormorò ancora Amu.
«Stanno solo prendendo tempo, non ti illudere» borbottò Rossane.
Nessuna delle tre sorelle aveva dormito durante la notte. Nessuna era cambiata d’abito. Erano rimaste pettinate e vestite come la sera in cui avevano suonato i tamburi. Rossane aveva la faccia un po’ più assonnata, per via del brutto risveglio. Appoggiò il mento al palmo della mano, adocchiando distrattamente il piatto con un pezzo di carne di cervo fumante. Aveva fame, ma lo stomaco le si era chiuso per via di quei bruti.
Una principessa di Persia, abituata allo sfarzo e vissuta dentro una campana di vetro, che si ritrovava nel bel mezzo di un assedio e ora banchettava col nemico.

Fu allora che se ne accorse. La pelle che sembrava bruciare.
Era la sensazione netta e decisa che si ha quando ci si sente osservati. Ma non guardati con uno sguardo qualsiasi: lo sguardo attento che si rivolge ad una persona quando si ha l’intenzione di studiarne ogni angolo del viso, del corpo, dell’anima. Uno sguardo che spogliava, che studiava, che bramava da lontano.
Rossane sentì le orecchie andare a fuoco, alzò gli occhi per cercare il proprietario di tale occhiata. Fu il primo paio di occhi che incontrò, come se fosse inevitabile. Dall’altro lato del salone, alla sua destra.
Un uomo a capotavola, l’armatura da condottiero e un mantello che scendeva morbido dietro la schiena. Possente, probabilmente piuttosto alto. I capelli biondi spettinati e sporchi di fango e sangue sulle punte, piccole ferite di guerra sul viso. La guardava come un leone guardava una gazzella. Gli occhi di chi sa spogliare con uno sguardo per leggere il corpo e l’anima. Il pollice che carezzava il labbro inferiore, attento.
I loro sguardi si erano fatalmente incrociati. Niente sarebbe stato più come prima.

Rossane si sentì arrossire, distolse lo sguardo. Si accorse che Amu stava parlando con lei e si sentì in colpa per non averla minimamente ascoltata.
«… non vogliono ucciderci»
«Scusa, come?»
«Ho detto che pare che non vogliono ucciderci. Non noi, almeno»
«Sono soldati macedoni, Amu» le ricordò Rossane. «Hanno trucidato tutti»
«Io non voglio morire. Devo sposare Kassìm».
Rossane non aveva niente a cui aggrapparsi e le sembrava triste trovare un motivo valido per restare in vita nell’epopea di Gilgamesh o nella semplice paura dell’ignoto. Ma non aveva mai fatto niente di sbagliato né di cattivo o ingiusto, e anzi si era sempre battuta per la giustizia e la sincerità, nel suo piccolo. Magari Ahura Mazda sarebbe stato misericordioso con lei.
Senza volerlo tornò a guardare nella direzione dell’uomo che la stava fissando poco prima. Non c’era più. E non c’era più neanche suo padre.
 

 
In una delle sale del castello, il re di Macedonia tolse la benda della bocca di Ossiarte.
Il satrapo aveva la bocca asciutta, la saliva prosciugata dal panno e la gola secca. I polsi legati in corde troppo strette che avevano lasciato profondi solchi sulla pelle e ferite.
«Vi darò tutto ciò che desiderate, mio re, ma vi prego di lasciarmi in vita. Mi scuso, sono profondamente mortificato per avervi sfidato e altrettanto dispiaciuto per aver complottato alle spalle di re Dario. Risparmiatemi, potente re, ve ne prego», le parole uscirono dalle sue labbra come un fiume in piena.
In quel momento era solo un vile sacco di carne che si dimenava per il perdono e per restare attaccato alla propria vita. Ecco come appariva agli occhi di Alessandro III di Macedonia.
«Satrapo Ossiarte, immagino che non vi dispiacerà dunque se in cambio della vostra vita prenderò quella delle vostre tre figlie».
Ossiarte sfarfallò le ciglia, come risvegliato da un sonno profondo. Si ricordò in quel momento di loro, del loro essere in pericolo nella sala del banchetto e prive di ogni protezione da parte delle guardie ormai tutte perite sotto le spade dei macedoni. Quei soldati potevano disporre di loro, dei loro corpi, come volevano. Ebbe un fremito. «Non le toccate, ve ne prego. Sono tutto ciò che possiedo di reale valore»
Alessandro si carezzò il viso glabro. «Ossiarte, io ho un grande disegno» si chinò su di lui. «Voglio creare un unico grande impero. Fondere tradizioni. Il mondo sotto un unico sovrano»
«È davvero un bel progetto, mio re» balbettò.
Si chiese se lo pensasse davvero. Era davvero disposto ad appoggiare un simile progetto? Le culture persiane e greche erano molto diverse, non seppe come inquadrare il conquistatore straniero. Era molto ambizioso, un visionario, e il suo progetto molto grande. Ai limiti dell’impossibile, del folle.
«Tuttavia guerre e conquiste non sono l’unico mezzo per un’unificazione. Mi seguite, Ossiarte? È necessario un matrimonio» continuò il macedone.
Voleva una delle sue figlie.
Anzi, voleva quella figlia in particolare. L’aveva adocchiata subito. I capelli castani, lucenti e mossi, intrecciati a gemme e fili d’oro; il naso all’insù, gli occhi particolarmente grandi e quasi felini; il viso a cuore, le labbra delicate. Se n’era invaghito perdutamente solo guardandola. Aveva capito che lei era tutto ciò che desiderava in una donna. E quello sguardo... non era difficile capire che una fanciulla con uno sguardo del genere possedesse il fuoco dentro.
«Prendete una delle mie figlie! Quella che volete! Amu ha ventuno anni, è promessa in sposa al figlio di un satrapo persiano ma per voi, mio re, posso far annullare tutto. È molto bella, con i suoi capelli neri, gli occhi neri… Sa suonare il santur divinamente! Sarebbe un ottimo partito».
Capelli e occhi neri? No, non era lei.
Non rispondendo al satrapo, Ossiarte continuò. «Darya ha quattordici anni. È molto giovane e il suo corpo è ancora acerbo, vi potrebbe aggradare? Canta come un usignolo, è divertente e…»
«La terza?» domandò, chiaramente non poteva chiamarsi Darya la ragazza che aveva visto. Non aveva quattordici anni.
«Mio re, permettetemi di oppormi: Roshanak ha una dote straordinaria di farvi uscire dalle grazie del vostro dio. È considerata la donna più bella dell’Asia, ma non la darei come moglie nemmeno al mio peggior nemico!».

Roxane2.
Dunque era così che si chiamava. Aveva sentito parlare della donna più bella dell’Asia, della Persia in particolare, ed era proprio Rossane. Per una volta, le voci sembravano essere vere.
Alessandro aveva conosciuto diverse donne, ma perlopiù concubine. Si era già innamorato di donne in passato: Barsine, Campaspe…
Stavolta gli sembrò diverso. Gli sembrò d’aver trovato in Rossane l’incarnazione della donna che preferiva, quella che sognava, il suo ideale femminile.
«Roxane» carezzò quel nome con la lingua e con la voce, gustandoselo. «Prenderò la vita di Roxane, satrapo. In cambio verrete lasciati in vita e tu verrai riconfermato satrapo di Battria».


 

1 - La rocca di Arimazes si trova a sud rispetto Ai Khanum. È chiamata anche fortezza dell'Avarana.

2 - Il nome Roshanak è di origine battriana (usato ancora in Afghanistan) e significa "piccola stella". La lingua greco-macedone antica tuttavia non riconosceva il suono "sh" di questo nome, dunque veniva pronunciato e scritto Roxane.
   
 
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