Libri > Harry Potter
Ricorda la storia  |       
Autore: DaisyCorbyn    29/07/2017    2 recensioni
[19 anni dopo] [Next generation]
Alwys ha passato i primi 11 anni della sua vita a nascondersi per la sua natura da lupo mannaro, fino a quando un giorno Ted Remus Lupin bussò alla sua porta per dirle di essere idonea per frequentare Hogwarts. Alwys così inizierà una nuova vita con i suoi amici Albus e Rose, nonostante una presenza oscura cercherà di impossessarsi del Mondo Magico.
Dal Capitolo 2:
«Mi chiamo Ted Remus Lupin, sono un professore della Scuola di magia e stregoneria di Hogwarts. Quando un bambino con poteri magici compie 11 anni, riceve una lettera dalla scuola per poter essere ammesso. Non sempre, però, il bambino ha i genitori anch’essi dei maghi e, quando ciò accade, viene inviato un professore per spiegare alla famiglia la situazione. Tu sei stata ritenuta idonea per frequentare Hogwarts e io sono il professore che risponderà a tutte le tue domande» finì con un sorriso e si sistemò l’impermeabile.
I genitori guardarono la figlia annuendo e sorrisero dolcemente come se stessero cercando di convincerla con lo sguardo.
«No» fu l’unica parola che Alwys disse dopo essersi ripresa dal quel fiume di informazioni.
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Albus Severus Potter, James Sirius Potter, Nuovo personaggio, Teddy Lupin
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

1
Perché essere una ragazza normale è così difficile?

 
 
Nel quartiere di Moon Street[1] andava tutto bene: la signora Turner cercava di tenere a bada il suo Yorkshire che abbaiava in continuazione, la famiglia Wilson stava per traslocare a causa della misteriosa scomparsa di tutti i loro canarini, e la famiglia Cleveland  ormai non cucinava più l’arrosto della domenica perché inspiegabilmente spariva; queste erano le uniche famiglie che ormai vivevano lì da più di undici anni perché ogni famiglia che decideva di trasferirsi lì finiva per fuggire qualche mese dopo, spaventati dagli strani avvenimenti. In quel trambusto di persone che andavano e venivano – per poi andarsene di nuovo – c’era la tranquilla famiglia Dewery, il cui capofamiglia, il signor Dewery, lavorava in un negozio d’animali aiutato dalla moglie.
La famiglia Dewery era riservata e silenziosa, l’ultima famiglia che i nuovi inquilini, di solito, conoscevano. Curavano il giardino e non arrecavano mai disturbo, tanto da renderli i vicini ideali e che qualsiasi persona avrebbe voluto avere accanto. Tranne che per un piccolo dettaglio: la loro figlia, Alwys Dewery. La ragazza era dolce e taciturna, una perfetta ascoltatrice, peccato che nessuno si avvicinasse a lei per via dei suoi occhi così bianchi da confondersi con la sclera e dei suoi capelli neri cosparsi da ciocche viola. Lei è speciale ripeteva la signora Dewery così tante volte da sembrare che si volesse autoconvincere. Nonostante i coniugi Dewery cercavano di spiegare ai vicini più curiosi che la bambina era affetta da una rara malattia che causava una carenza di pigmento nell’iride e una ipopigmentazione di alcune ciocche dei capelli che risultavano violastre, nessuno sembrava bere quella scusa che faceva acqua da tutte le parti. Solo Alwys sembrava accettare quella bizzarra spiegazione.
Non solo i vicini pensavano che fosse strana, anche i suoi compagni di classe le stavano alla larga e dovette cambiare più volte scuola a causa di alcune voci o comportamenti scorretti da parte di quest’ultimi. La signora Dewery aveva perso il conto di tutti gli astucci che aveva dovuto ricomprare alla bambina.
Ma… perché parlarvi di questa ragazzina apparentemente normale?
La nostra storia inizia un primaverile giorno di giugno, un anno dopo la nascita di Alwys, mentre la signora Dewery preparava allegramente la torta di compleanno per festeggiare quel giorno speciale. La piccola giocava col bavaglino appena regalatole dal padre che, mentre faceva facce buffe verso di lei, finiva di cucinare.
Tutto era perfetto: mancavano solo gli invitati.
«Eccoli!» esclamò la signora Dewery appena sentì il trillare del campanello.
Si tolse in fretta il grembiule su cui prima si era pulita le mani, mise la torta in frigo e andò ad aprire la porta mentre si sistemava l’acconciatura per assicurarsi che non avesse dei ciuffi fuori posto.
«Buongiorno! Sono così felice che siate venuti in questo giorno speciale.»
«Buongiorno anche a te, mia cara!» rispose la signora Turner tirando fuori dalla borsa un pacchetto giallo con un vistoso fiocco rosso. «E in ogni giorno speciale che si rispetti non possono mancare i regali.»
La signora Turner era una dolce anziana che non si lasciava intimorire dai capelli bianchi o l’artrosi, infatti si truccava ogni giorno, usava sempre scarpe alte e i capelli, rigorosamente tinti di un biondo dorato, erano acconciati in un elegante chignon. Tutti i suoi figli e nipoti sfortunatamente vivevano molto lontano e non potevano venire a trovarla spesso, quindi, da quando Alwys era appena nata, aveva trattato la piccola come se fosse la sua nipotina, fregandosene del suo strano aspetto fisico.
«Ti ringrazio da parte di Alwys» rispose la signora Dewery prendendo in mano il pacchetto. «Tu devi essere il piccolo Thomas.»
Un ometto alto quanto una sedia era nascosto dietro la gonna dell’anziana.
«Piacere» disse senza muoversi da quella posizione.
«Non chiudere, stanno arrivando anche i Cleveland!» esclamò la signora Turner. «Almeno oggi non arriveranno con un’ora di ritardo come al mio settantesimo compleanno!»
La sala da pranzo era molto spaziosa e agghindata a festa: una tovaglia arancione rivestiva il tavolo posto al centro, un’enorme scritta “Tanti auguri” era appesa sull’arco che dava sulla cucina, e i bicchieri, i tovaglioli e i piatti avevano decorazioni floreali. La signora Turner andò vicino al camino spento dove erano poggiate alcune foto dei Dewery al loro matrimonio o di Alwys appena nata in braccio alla madre. I due sposini vivevano in quel posto solo da tre anni ma, nonostante ciò, la signora Turner provava un particolare affetto nei loro confronti, soprattutto dopo l’inaspettata comparsa della piccola Alwys: i Dewery erano una famiglia così riservata da aver tenuto nascosta anche la gravidanza!
«Eccoci!» esclamò il signor Cleveland sbucando da dietro la porta dell’ingresso. «Questa volta non siamo in ritardo.»
Il signor Cleveland era un uomo basso e grassoccio con qualche capello biondo sulla testa, invece la signora Cleveland aveva lunghi capelli castani sempre raccolti in una coda laterale. I loro tesori più preziosi erano le loro figlie, Andie e Mandie, due gemelle con lunghi capelli biondi e occhi azzurri, sempre pronte a scambiare il dentifricio con la crema al peperoncino.
Quando tutti presero posto nella tavola, il signor Dewery arrivò con la prima portata che portò con sé un delizioso odore che stuzzicò la fame dei presenti. Il pranzo sembrava procedere bene e tutti avevano già iniziato a sommergere di complimenti i coniugi Dewery –anche se preparare dell’arrosto con contorno di patate per il compleanno di una bambina che mangiava solo omogeneizzati era un po’ contraddittorio–.
«Come vanno gli affari?» chiese il signor Cleveland asciugando del sugo che era gocciolato fino al mento.
«Non mi lamento» rispose il signor Dewery facendo spallucce. «I clienti continuano a comprare un sacco di conigli, non capisco cosa ci trovino di così bello in quelle povere bestioline confinate in piccole gabbie.»
La moglie si schiarì la gola e diede un calcio da sotto il tavolo al marito.
«Come vi sembra il pranzo?»
«Noi abbiamo un coniglio» disse la signora Cleveland ignorando apposta il brusco cambiamento di argomento della donna.
«Oh…» l’uomo era davvero mortificato. «Non lo ricordavo.»
«Ce lo hanno regalato i miei genitori» spiegò la bionda mentre suo marito si metteva in bocca una quantità esorbitante di patate al forno.
«Che pensiero carino…» disse la signora Dewery accennando un sorriso tirato.
Fortunatamente il resto della conversazione scemò in argomenti più leggeri, il cibo finì subito e tutti rinnovarono i complimenti al signor Dewery per la sua bravura.
«Potete portare la piccola all’asilo nido dove ho portato i miei due gioielli» disse la signora Cleveland sorridendo dolcemente verso le sue figlie.
«Non credo ci sia bisogno, mio marito riesce a cavarsela al negozio anche senza di me… e comunque preferisco passare tutto il tempo possibile con Alwys prima che si faccia grande!» rispose accennando una risata che l’altra donna ricambiò.
«La capisco benissimo…»
«E poi ci sono io!» si intromise la signora Turner giocherellando con la bimba che balbettava contenta.
«Certo, a me non hai mai dato una mano però» rispose la bionda spostando teatralmente una ciocca che le era ricaduta sul viso.
«Con quei due piccoli demoni?» rispose l’anziana sporgendosi in avanti. «Mai!»
Le due bambine si scambiarono un’occhiata come se potessero capire a pieno ciò che la donna aveva appena detto, invece Alwys si limitò a corrucciare la fronte per l’improvviso cambio di tono.
«Piuttosto…» prese parola il signor Dewery per venire in soccorso alla moglie. «Manca la torta.»
Quando i genitori misero la torta davanti alla piccola, Alwys storse in naso e guardò confusa i genitori che, invece, la stavano guardando sorridendo. Dopo aver spento le candeline, che in verità avevano spento tutti insieme, arrivò il momento che la signora Turner aspettava dall’inizio.
«Ora i regali!» esclamò l’anziana.
La signora Dewery, con Alwys in braccio, prese il pacchetto giallo e lo aprì: dentro vi era un grazioso pigiama rosa con disegnati tanti orsacchiotti.
«Che carino!»
«Puoi provarlo adesso, in caso lo riporto in negozio per cambiarlo» propose gentilmente la signora Turner guardando la bambina come se potesse capirla.
«Vado a cambiarla nella sua cameretta» disse la signora Dewery prima di sparire dietro la porta del salotto.
La piccola emise dei versetti d’approvazione mentre la madre le toglieva quel vestitino scomodo per i troppi merletti per farle provare il pigiamino. Per renderla più adorabile, la madre si ricordò di un fermaglio rosa che teneva nel suo portagioie.
«Mi allontano per un secondo, fai la brava» disse per poi lasciare la stanza.
Erano passati uno o due minuti, ma quando tornò si trovò davanti ad uno spettacolo impossibile! Le uniche cose che si sentirono furono il suono del fermaglio cadere per terra e la piccola dire “Cane!”. Peccato che non ci fosse nessun cane nella stanza ad eccezione fatta per Alwys, che aveva le orecchie tese verso l’alto per captare qualsiasi rumore, il corpo tutto peloso e una lunga coda marrone[2].
La signora Dewery soffocò un grido premendosi la mano contro la bocca: come poteva essere possibile? Si appiattì contro il muro sotto lo sguardo interrogativo della piccola, come se si trovasse davanti ad un pericoloso predatore (il che per metà era vero) e poi furtivamente sgattaiolò fuori dalla stanza.
«Tesoro, puoi venire un momento?» chiese la signora Dewery sbucando dalla porta del salotto con la voce che le tremava e gli occhi spalancati.
«Cosa succede?» chiese allarmato il signor Dewery fra gli sguardi interrogativi degli invitati.
«Nulla» tagliò corto per poi trascinarlo via. 
Appena entrarono nella stanza la piccola era per terra che si divertiva a fare a brandelli con i suoi artigli quello che doveva essere il fermaglio. Sì, aveva anche gli artigli.
«Ma che diavolo?!»
Il signor Dewery si portò le mani ai capelli visibilmente sconvolto e poi si girò verso la moglie che lo guardava come se gli stesse chiedendo «E ora?».
«Non è possibile…»
Si grattò la testa in cerca di qualche spiegazione logica, ma in quel momento la sua mente era annebbiata e ferma sull’immagine della figlia con le sembianze di un lupo.
«Dobbiamo chiamare aiuto! Un canile, non lo so!» strillò la signora Dewery strattonando la camicia del marito. 
«No!» ribatté guardando la moglie negli occhi.
 Si abbassò per prendere in braccio la piccola che protestava con versetti simili a grugniti tenendola a debita distanza dalla faccia.
«La prossima volta che adottiamo una bambina dalla strada dobbiamo controllare che non abbia le pulci.»
«Non è il momento di scherzare! Cosa facciamo?» chiese allarmata la signora Dewery che da un momento all’altro sarebbe scoppiata in lacrime.
«È lo stesso la nostra piccola Alwys, non è cambiato nulla. Anzi, dobbiamo proteggerla da chiunque si dovesse interessare a lei» rispose il signor Dewery stringendo la piccola che cercava di attirare la sua attenzione muovendo le zampine.
«Ma sei pazzo? Non avvicinarti a quella cosa!» disse la signora allontanandosi dal marito che cullava il piccolo lupacchiotto.
«Tu sei pazza! Non puoi chiamare nostra figlia cosa, anche io sono sconvolto, ma possiamo farcela insieme.»
L’uomo si avvicinò alla moglie, le prese una mano e la portò sulla testa della piccolina che si strusciò chiudendo gli occhietti.
«La mia Alwys…» disse la madre accarezzandola con il pollice per poi scoppiare in lacrime. «Secondo te rimarrà per sempre così?»
Il marito non rispose, serrò la mascella e si lasciò andare ad un sospiro profondo mentre guardava gli occhietti della piccola che lentamente stava sprofondando nel sonno.
Da quel giorno, dopo che i Dewery cacciarono via tutti gli invitati senza spiegazioni, incominciarono a girare strane voci sul loro conto, e il loro nome divenne solo un freddo sussurro del vento primaverile.
 
Alwys si era sempre chiesta da dove venisse lo strano comportamento dei vicini, ma, ogni volta che chiedeva spiegazioni ai suoi genitori, loro rispondevano vagamente, tanto che lei ormai aveva perso le speranze. A volte si guardava allo specchio e si chiedeva se fosse colpa sua perché era diversa dagli altri bambini, non poteva immaginare cosa fosse successo al suo primo compleanno perché ovviamente era troppo piccola per ricordarlo. I suoi genitori le avevano raccontato che la prima volta che si era trasformata erano soli a casa, quindi nessuno poteva sapere di lei. Ciò che la turbava erano i commenti di Andie e Mandie, le sue vicine di casa, e il fatto che passavano tutto il tempo a renderle la vita un inferno dandole spintoni e calci, urlandole «Strana come i suoi genitori!». Lei proprio non capiva quella frase perché ai suoi occhi i suoi genitori erano le persone più normali del mondo, tranne per il fatto che ogni giorno quando usciva per prendere il pulmino sua madre urlava dal balcone: «Il cappello!» attirando l’attenzione di tutto il vicinato.
Sì, il cappello: usava questo buffo ed enorme cappello, sotto cui raccoglieva i capelli per nasconderli e per coprire leggermente gli occhi, che le aveva comprato la madre per non attirare l’attenzione delle persone quando facevano delle passeggiate. Per fortuna i professori non le facevano problemi perché erano stati supplicati dai genitori.
Non capiva perché i suoi occhi e i suoi capelli fossero così, su internet non c’era nulla che riconducesse ai licantropi e i genitori non erano molto esaustivi perché ne sapevano davvero poco. Già, a peggiorare tutta la situazione c’era il fatto che era un licantropo. I suoi genitori le avevano detto che aveva ereditato quella “caratteristica” (come la chiamava il padre) da suo nonno paterno, per questo né suo padre né sua madre presentavano questa condizione. Aveva letto un sacco di cose su internet per capirci di più, ma tutte le informazioni che riferiva ai suoi genitori loro le bocciavano dicendo che internet non era affidabile.
«Ma il nonno non ha lasciato nemmeno una lettera?»
Quando i dubbi assalivano Alwys, lei iniziava sempre con questa domanda e il tutto finiva con sua madre furiosa che la mandava in camera.
Lei voleva solo capire chi fosse veramente perché non poteva continuare a vivere così: ad essere chiusa dai suoi genitori in soffitta durante la luna piena e ad essere derisa dai suoi compagni di scuola; sarebbe arrivato il giorno in cui sarebbe dovuta andare via di casa… ma come avrebbe fatto? Sarebbe riuscita a vivere senza i suoi genitori che la controllavano? Questi dubbi la assalivano quasi ogni notte e si mescolavano agli incubi che ogni giorno si facevano sempre più reali. Fortunatamente a tirarle su il morale c’era la signora Turner con cui passava la maggior parte del tempo: le aveva insegnato a fare a maglia, a cucire e a mettere un bottone. Le piaceva molto passare i pomeriggi con lei quando aveva pochi compiti, perché la quiete della sua casetta e il piccolo uccellino blu di nome Arturo allietava quelle ore dolcemente.
«Non pensarci» le diceva mentre le faceva una lunga treccia per tenere tutti quei capelli.
«A cosa?»
«A tutto!»
Sospirò ripensando a quei momenti e fece appannare leggermente il finestrino del pulmino pieno di bambini che ridevano e scherzavano. Alwys, come ogni giorno, era seduta da sola e con lo sguardo perso fra le aiuole che sfrecciavano davanti ai suoi occhi che riflettevano ogni cosa. Mai nessuno si era seduto accanto a lei, piuttosto si sedevano in tre in un posto.
«Cosa guardi, sfigata?»
Andie si posizionò accanto a lei e in un attimo l’intero pulmino cadde nel silenzio.
«Forse sta guardando il suo amico immaginario» la canzonò Mandie spuntando da dietro la sorella.
«Lasciatemi in pace» rispose Alwys continuando a guardare fuori dal finestrino non curandosi minimamente della loro presenza.
«Che c’è? Hai paura del lupo cattivo?»
Andie con la mano le afferrò la spalla e la voltò verso di lei.
«Ti ho detto di lasciarmi in pace!» urlò corrugando la fronte e spostando bruscamente la mano della ragazza.
«Sennò che fai?»
Mandie si avvicinò e le diede un colpetto sul petto guardandola con aria di sfida e mostrando i denti gialli.
Alwys si alzò e in un attimo fu faccia a faccia con le due gemelle che la guardarono confuse perché di solito non reagiva in quel modo, piuttosto subiva in silenzio. Ma quello non era un giorno qualunque: era il suo undicesimo compleanno e niente lo avrebbe rovinato.
«Stiamo aspettando» disse Andie molto interessata alla situazione che si stava creando.
Alwys strinse i pugni lungo i fianchi. Ad un tratto tutti gli zaini che erano conservati sopra i sedili caddero addosso alle due gemelle facendole imprecare per il dolore. Alwys rimase ferma visibilmente scossa dall’accaduto: Cosa è successo? Perché gli zaini sono caduti? Non c’è stata nessuna curva brusca.
Entrambe le bambine si massaggiarono la testa, come se fossero una il riflesso dell’altra, e poi guardarono con uno sguardo furioso Alwys. Il pulmino si fermò di colpo e l’autista, attirato dal rumore, si alzò dal sedile per raggiungere le ragazze con passo alquanto scocciato.
«Cosa state combinando?»
«È stata Alwys!» dissero piagnucolando in coro e si strofinarono gli occhi che erano sul punto di essere sommersi dalle lacrime.
«Non è vero! Io-» Alwys fu interrotta dallo sguardo inceneritore dell’autista.
«Scendi immediatamente! Non tollero questo comportamento, tanto è poca la strada per arrivare a casa tua» e con il pollice le indicò l’uscita.
Alwys senza dire nulla prese il suo zaino e, sotto lo sguardo di tutti, uscì dal pulmino con dentro un misto di sollievo e tristezza. Lì tutti la odiavano, pure l’autista che una volta aveva chiuso la porta troppo presto facendole incastrare lo zaino, quindi fare quell’ultimo tratto di strada a piedi fu un sollievo per lei. Fortunatamente per arrivare a destinazione le sarebbe bastato attraversare un enorme parcheggio e poi percorrere l’intera Moon Street. Durante il tragitto pensò a cosa era successo sul pulmino e rabbrividì: la sua vita era un enorme mistero che non vedeva l’ora di risolvere, ma mancavano gli indizi e, se c’erano, erano molto confusi.
Il parcheggio stranamente era vuoto, la cosa la inquietò un po’ perché si rese conto di essere completamente sola visto che non c’erano né macchine né case. Affrettò il passo e si coprì di più il volto col berretto come se si volesse proteggere da una strana sensazione.
Poi alla sua sinistra lo vide: un uomo totalmente vestito di nero e con un enorme cappotto così lungo da sembrare un mantello che lo avvolgeva del tutto, lasciando scoperto solo il collo e il volto segnato da un ghigno ammiccante. Alwys si fermò a guardarlo come se si volesse assicurare che fosse veramente reale. Subito dopo, però, realizzò che l’uomo si stava dirigendo verso di lei. Alwys incominciò a camminare più velocemente verso l’altro lato della strada, ma in pochi istanti arrivò a pochi metri di distanza. Era reale.
«Se ti fermi ti dico cosa voglio da te.»
La sua voce era intrisa di sarcasmo e con un pizzico di malizia che fece venire un brivido lungo la schiena di Alwys.
«Non lo voglio sapere» urlò lei mentre cercava di raggiungere Moon Street con passo svelto.
«E se ti dicessi che anche io sono un lupo mannaro?»
Il cuore di Alwys sembrò congelarsi. Le sue gambe smisero di muoversi e le mani lungo i suoi fianchi presero a tremare. Si impose di respirare profondamente per calmare il suo animo, come suo padre le aveva insegnato per superare i momenti in cui sentiva il mondo stringersi attorno a lei per soffocarla. Si girò verso di lui incontrando i suoi magnetici occhi blu.
«Non esistono i lupi mannari» rispose lei per metterlo alla prova
Lui avanzò di qualche passo: da vicino non sembrava poi così inquietante. Era giovane, anche se la sua età sfuggiva alla mente di Alwys per la sua barba incolta che gli invecchiava il viso. I suoi occhi riflettevano la tranquillità di un giovane, invece il ghigno che tagliava il suo volto apparteneva ad un uomo dal losco passato.  
«Ma noi due sappiamo che non è vero» disse, la sua voce era così calma da suscitare in Alwys un sentimento di inquietudine misto a rassicurazione.
«Come fai ad esserne certo?» chiese con una sicurezza non sua, ma scaturita dalla voglia di saperne di più.
Doveva fuggire o chiedere aiuto, questo i suoi genitori le avevano sempre raccomandato in quelle situazioni, ma non appena le sue orecchie avevano sentito quelle due parole qualcosa in lei aveva scacciato ogni timore.
Un lupo mannaro… rimbombava nella sua mente. Lui è come me.
«Ti osservo da un po’, Alwys Dewery, e so riconoscere un mio simile quando ne vedo uno. Non sei come i babbani, tu hai qualcosa di diverso.»
«Babbani? Qualcosa di diverso?»
«I babbani sono coloro nati senza poteri magici, ma non è questo il momento di imparare queste sottigliezze, avrai modo di conoscere questi termini più tardi.»
Arrivò così vicino ad Alwys che lei poté scrutare le sfumature più chiare nei suoi occhi. Un colore così sereno e limpido non poteva appartenere ad un uomo con un animo malvagio. Alwys non indietreggiò spaventata, piuttosto lo guardò incuriosita: sentiva di avere le risposte alle sue domande davanti a lei.
«Pensi che vedere i tuoi genitori chiuderti ogni luna piena in soffitta non sia strano?»
Mi ha spiata? Quella domanda che apparve nella sua mente, però, la scottò come una lama bollente. Come faceva a sapere della soffitta se i suoi genitori serravano tutte le finestre prima di richiuderla lì?
«Io ho un branco in cui ci sono persone come me e come te» continuò lui dopo quel breve attimo di silenzio. «Siamo come una famiglia e credo proprio che sia ciò di cui tu hai bisogno.»
Alwys si sentì ferita da quelle parole.
«Io ho una famiglia» rispose prontamente, nonostante il suo cuore le stesse battendo rumorosamente dentro il petto.
«Una famiglia che ti tratta come se fossi un mostro? Con noi potrai essere te stessa e ti potremmo aiutare.»
Sugli occhi di Alwys erano specchiate le emozioni che quelle parole le avevano provocato: una vita senza doversi nascondere per lei era come le favole che aveva letto nei libri. Impossibile.
«Non posso lasciare i miei genitori» spostò lo sguardo verso Moon Street che si specchiava su un cupo cielo non molto primaverile. «E io non ti conosco.»
«Mi conosci, facciamo parte della stessa specie» ribatté lui. «Devi scegliere: vuoi passare la tua vita a nasconderti o vuoi finalmente essere ciò che sei veramente?»
Ma come poteva essere qualcuno se neanche lei non sapeva chi fosse veramente? Lasciò cadere lo sguardo verso l’asfalto su cui stavano spuntando delle piccole macchie scure. All’idea che, andando con lui, avrebbe provocato meno problemi ai suoi genitori e avrebbe potuto trovare un rimedio alla sua condizione, le si riempirono gli occhi di lacrime. Avrebbe fatto un sacrificio come quello per loro, dopo tutto quello che avevano fatto per lei, ma qualcosa dentro di sé le disse che quello non era il modo giusto. Tornò a guardare Moon Street, la sua casa dove era nata e dove credeva di vivere fino alla fine della sua vita.
«Sta per piovere, devo tornare a casa…»
Si girò senza degnarlo di un ultimo sguardo, mentre piccole goccioline di pioggia incominciarono a stuzzicarle il viso.
«Vieni via con me.»
Le agguantò il braccio e lo strinse con una tale forza da mozzarle il fiato. Era stato così veloce da coglierla alla sprovvista e così forte da rendere vano ogni suo tentativo di sottrarsi. Rimase paralizzata appena realizzò di non avere via di fuga.
«Lasciami! Ho detto che voglio tornare a casa!»
Cercò di liberarsi ma lui la strattonò serrando la presa e la trascinò verso i fitti alberi che si estendevano oltre il parcheggio. Alwys Sentì un brivido attraversarle la schiena quando vide che gli occhi di lui si erano tinti di un rosso vivo[3].
«Non hai scelta!»
Degli artigli si conficcarono nella pelle di Alwys, falciando la richiesta di aiuto che voleva uscire dalla sua bocca per quel dolore lancinante. Sentì il sangue caldo bagnarle la felpa e le lacrime rigarle le guance contratte per il dolore. Stava accadendo tutto così in fretta. Era una bambola di pezza incapace di ribellarsi che lui stava trascinando verso i meandri di un bosco.
Cosa succederà adesso? Mi ucciderà?
Chiuse gli occhi e li coprì con il braccio libero.
Non voglio morire.
Ad un tratto una luce la investì e sentì il suo braccio libero dalla morsa degli artigli. Alwys aprì gli occhi e vide davanti a sé una figura di spalle con stravaganti capelli azzurri e un lungo impermeabile giallo. Il ragazzo che l’aveva afferrata era stato scaraventato lontano da lei.
«Stai dietro di me!»
Dalla voce Alwys capì che si trattava di un ragazzo e, non facendoselo ripetere due volte, si riparò dietro la sua schiena. C’era qualcosa nella sua voce che le infuse sicurezza.
«Il piccolo Teddy… mi sei mancato!» disse il ragazzo dagli occhi rossi e si alzò con un po’ di fatica.
«Tu, invece, no» rispose Teddy.
Alzò la mano di fronte a sé e Alwys vide che stava tenendo qualcosa con le dita: era un lungo bastoncino scuro che sembrava assomigliare ad una… bacchetta! Da essa uscì un lampo che si scagliò contro l’altro ragazzo che, però, con un gesto rapido tirò fuori una bacchetta per deviare il fascio di luce.
«Non devi intrometterti» disse il ragazzo i cui occhi erano tornati blu.
«Tu non devi intrometterti!» sbottò Teddy puntandolo con la bacchetta. «Questa è mia giurisdizione.»
«Il Ministero ha detto che è mio compito contattarla» disse e il volto di Teddy si contrasse come se quella frase fosse una chiave che apriva tutte le porte.
«Non in questo modo!»
«Mi stavi seguendo?»
«Cavolo, Damien, lei è troppo importante e tu con i tuoi metodi la stai spaventato» sbottò il ragazzo dai capelli azzurri indicando con la bacchetta la ragazzina che istintivamente si coprì il volto per paura che un altro fascio di luce uscisse da essa.
Damien fletté le gambe e tenne la bacchetta ferma davanti a sé come se si stesse preparando a sferrare un attacco. Per un breve attimo Teddy indugiò, ma subito dopo copiò i suoi movimenti e i suoi capelli sfumarono fino a diventare blu scuro. Alwys strofinò gli occhi incredula: cosa stava succedendo?
«Sei tu che la stai spaventando intromettendoti» controbatté Damien. «Lei deve entrare a far parte del mio branco, che tu lo voglia o no.»
«Non accadrà.»
«E invece sì.»
Lo spettacolo di luci riprese: i due incominciarono a lanciarsi queste saette colorate che esplodevano al contatto col terreno o con qualsiasi altra cosa. Ogni tanto Alwys sentiva delle strane parole uscire dalle loro bocche, ma era troppo stordita mentre ammirava quello spettacolo incredibile per capire appieno cosa stessero dicendo. 
«Ma cosa…?» esalò stupefatta.
Credeva di essersi ormai abituata alle stranezze: era un lupo mannaro, cosa poteva essere più strano di questo? Ma ciò che i suoi occhi le stavano mostrando batteva tutte le strampalate teorie che aveva formulato in quegli anni per giustificare la sua natura. Doveva scappare, in quel momento o mai più, e raggiungere i suoi genitori che avrebbero trovato una soluzione. Approfittò di un colpo che fece sbattere Damien contro il terreno per incominciare a correre verso la sua casa.
Un improvviso calore, però, le bruciò una gamba facendola cadere a terra. Batté con forza la testa sull’asfalto e per qualche secondo la sua vista divenne sfocata.
«Attenta!»
Una voce alle sue spalle venne coperta da un terribile boato. Si girò, ancora per terra, e vide le bacchette dei due ragazzi esibirsi in uno spettacolo di luci: lampi colorati uscivano da esse per poi svanire appena uno alzava la bacchetta per difendersi da quella lucina apparentemente innocua. Era uno spettacolo assurdo.
Alwys cercò di alzarsi, ma la gamba che poco prima era stata colpita non rispondeva ai suoi comandi. Preda del panico, riprese a piangere e diede dei pugni alla gamba urlando «Muoviti! Ti prego!». Il cuore le batteva a mille, voleva andare via ma non poteva, sarebbe morta lì, lo sapeva… ma perché?
L’ultima cosa che vide fu il corpo di Damien volare via e Teddy correre verso di lei. Poi il buio si appropriò della sua vista.

 

 
Note:
[1] Quartiere inventato da me situato in Gran Bretagna
[2] La Rowling non è stata molto esaustiva per quanto riguarda la vita di un licantropo che ha ereditato la condizione dai genitori: ho chiesto a molte pagine di HP, ma tutte mi hanno risposto che non ne sapevano molto, quindi ho preferito inventare io!
[3] Visto che la mia storia ha come protagonista un licantropo, mi sono dovuta “creare” vari aspetti per rendere più interessante e completa questa specie: dagli occhi che cambiano colore, al fatto che, con molto allenamento, è possibile uscire artigli e canini a comando.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: DaisyCorbyn