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Autore: Lady Mnemosyne    30/07/2017    1 recensioni
Una galleria d'arte di poche pretese, con pochi quadri appesi alle pareti e assolutamente non paragonabili a quelli delle grandi collezioni dei musei, ma molto più importanti. Perché? Perché sono quelli che ho scelto per riempire le pareti della mia vita.
Una piccola allegoria del mio modo di guardare il mondo, nato dalla conversazione con un vecchio amico d'infanzia.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tutto è silenzio. Il placido respiro della Terra riempie l’aria della sua lenta cadenza, tutto riposa. I fiori si stringono nei petali delicati sui fragili steli, le lepri danno tregua alle zampe veloci nel tepore delle loro tane, tace il vento scherzoso della primavera, corso dietro il giorno ad accarezzare altri prati. Radi filamenti di nuvole vestono il cielo, simili a nastri di seta sotto il latteo candore della luna, che serena sorride scivolando sulla campagna addormentata. Un gregge di morbide pecore occupa la radura, vicino ad un melo sottile, ancora troppo giovane per dare frutto. Gli agnelli riposano appoggiati alle madri, che, con orecchio perennemente vigile e vibrante, ricambiano l’abbraccio con il capo; l’ariete, signore orgoglioso, come sdegnando la compagnia altrui, giace in disparte, appoggiando le corna ricurve sulla morbida erba. Ancora più lontano, separato dal gregge, un pastore, seduto a terra, guarda la luna. Ha appoggiato finalmente il bastone nodoso, compagno delle lunghe camminate che ora giace dimenticato al suo fianco, e abbracciate al petto le ginocchia si lascia accarezzare dalla luna e guarda ed è guardato. Quali saranno i suoi pensieri? Forse teme il giorno che, fuggito, presto ritornerà con i suoi raggi a rinnovare le fatiche; forse pensa al tempo trascorso, alla vita già spesa e si rallegra, o si rammarica, dei ricordi rimasti, resti preziosi di ciò che è già passato; forse progetta il futuro, costruisce strade e innalza castelli per i sogni che gli affollano la mente o forse, disilluso, strappa con le unghie ogni speranza e nel silenzio urla il suo lamento contro il cielo. Ma è necessario che pensi qualcosa? Che la sua mente sia percorsa e turbata da sciami di idee confuse e senza meta? Forse non pensa proprio nulla: guarda la luna, la sua luce tranquilla, il sorriso delicato e rasserenante e nel guardarla rilassa la schiena robusta e le forti braccia, si sdraia tra l’erba ed i trifogli e beve la bellezza dalle labbra della Luna.
Un po’ più in là si ode il crepitio leggero di acqua che cade. La foresta è verdissima, rigogliosa: altissimi fusti di faggi allungano le braccia verso il cielo, a sfiorare le nuvole, vestiti di morbide spirali di edera azzurrina; querce e acacie intrecciano i loro rami in stendardi aerei, prendendo per sé tutta la luce del giorno; al suolo intrepidi cespugli fanno a gara per conquistare ciò che resta del sole, ricoprendo la terra di un elaborato tappeto. Il crepitio si fa più vigoroso, si trasforma in un gagliardo borbottio, fino a coprire i canti leggiadri degli uccelli con un prepotente fragore. Gli alberi scompaiono per lasciare spazio inaspettato ad una cascata: l’acqua saltella di sasso in sasso, si tuffa a strapiombo, scivola veloce, si frange onda su onda. Finito il suo rumoroso rovinare, si raccoglie in un piccolo specchio d’acqua, circondato di rocce su una sponda, baciato dall’erba sull’altra. La luce, non più impedita dalle folte chiome degli alberi, piomba limpida nello spazio vuoto e, mischiata all’acqua, ricopre ogni cosa di sottilissima polvere di diamanti, così che tutto brilli. Un cervo si avvicina silenzioso alla riva erbosa, emergendo lentamente dalla foresta. Il suo passo maestoso non è svilito dalla paura del pericolo, perché, re nel suo regno, si sente al sicuro e confidente. Raggiunta la riva, lentamente piega il lungo collo fino al lago e si disseta, le magnifiche corna, motivo di vanto, lambiscono appena le acque, che scherzose paiono giocare con loro. All’improvviso si ritrae e velocissimo solleva la testa, le orecchie sono aperte e tese: ha sentito un rumore. Resta immobile, solo il respiro gli gonfia il petto, ancora sospeso tra il fuggire e il restare. Di scatto si volta ad un altro scricchiolio ed i suoi occhi si scontrano con i miei: mi ha vista.
Una brezza leggera, un respiro appena percepibile entra leggero dalla finestra aperta; una fanciulla vi si siede davanti. Arrampicata su una sedia, seduta sulle proprie gambe piegate, rivolge fuori il suo sguardo distratto e apparentemente vuoto. Il vento gioca con i suoi capelli, che le ondeggiano in morbidissime onde intorno al viso, neri come una notte senza luna e punteggiati delle medesime stelle. Si appoggia con un gomito al davanzale e la mano subito accoglie premurosa il mento, attorno al quale le dita si allargano eleganti come lunghi giunchi flessuosi. Il vento si compiace di accarezzare quella mano, di filtrare attraverso le sue dita pallide non di malattia ma del candore del nobile avorio, a increspare le sue lunghissime ciglia nere, degne cornici a due occhi verdi come le gemme che a primavera si fanno largo nell’arida corteccia dei rami. Ecco che la vezzosa brezza riesce finalmente a strappare una ciocca di capelli all’instabile acconciatura e un ricciolo ricade oltre il tenero contorno della mascella, lungo il collo lunghissimo e candido come quello di un cigno. Giace in grembo l’altra mano, abbandonata, incapace di tener dietro al fulmineo vagare della mente, arresa al suo ritmo inarrestabile in una placida calma.
Forse sta osservando la comitiva di amici qui accanto. Sotto un ampio pergolato da cui pendono ricchi grappoli di glicine, che riempiono l’aria luminosa con la loro dolcissima fragranza, una tavola spaziosa accoglie intorno a sé un’allegra e chiassosa compagnia. Proprio adesso il simposiarca si alza in piedi e, sollevando entusiasta il bicchiere colmo, invita gli amici a seguirlo sulla via dell’ebbrezza. Un caldo sole ormai carico d’estate si insinua tra fiori e foglie e a illuminare i convitati: qui un terzetto tiene lestamente dietro al conduttore e tra pacche sulle spalle e grandi sorrisi solleva con enfasi tre calici; lì un paio di birbanti, sotto il diversivo del brindisi, già comincia con occhiate furtive e gomitate di intesa a cospirare e architettare con sguardo furbo nuove burle, per ravvivare ulteriormente il pranzo che si inizia; poco più in là una fanciulla, pur sorridendo, si guarda attorno appena spaesata, come se non sapesse di preciso come comportarsi e cercasse negli altri un modello da imitare; da questa parte una coppia ignora bellamente ogni cosa: sebbene seduti al medesimo tavolo, sono da tutt’altra parte, in un’altra galassia a migliaia di anni luce, sprofondati l’uno negli occhi dell’altra, mentre le loro dita sfidano la timidezza per scambiarsi una fuggevole carezza. Sulla tavola la ricchezza non si profonde in alcun tipo di splendore, eppure una scoppiettante allegria frizza nell’aria e la spensieratezza, sorella della gioventù, aleggia leggera tra i grappoli di fiori, sorridente al pari dei gioviali commensali.
Non molto lontano sorge una chiesa, entriamo. All’interno regna una densa oscurità dopo la brillante luce del giorno. Man mano che la vista si abitua a questa morbida penombra, ogni cosa intorno prende forma: alte colonne composite compongono un’ordinata foresta di pietra , che fa da sostegno a volte dalle grandi costole bianche; sulla sinistra un pulpito si arrampica intorno ad una colonna, simile alla postazione di una sentinella, e svetta sulle panche di legno nero ordinatamente disposte. Lame nettissime di luce fendono in diagonale l’aria striandola dei mille colori delle vetrate policrome, così che alla volta di pietra si aggiunge una volta fatta di arcobaleni. In fondo, sull’abside, si stagliano alte finestre allungate, sormontate dalla corolla del rosone in un tripudio di colori talmente lucenti da sembrare liquidi. Una vecchina sta in piedi di fronte alla statua di una madonna che, bellissima nel lungo manto azzurro, reca in braccio il suo Bambino, come presentandolo a questa piccola nonna vestita di nero con il capo coperto, arrotolata su se stessa dalla crudele mano della vecchiaia. Ora, con un gesto tremante e sicuro ad un tempo per le tante volte che è stato ripetuto, accende una candela e la depone nel sostegno ai piedi della statua. Si fissano la Madonna e la vecchina, nel silenzio gravido della chiesa, tra le colonne e gli altari, e le parole non dette si sommano alle altre preghiere che riempiono l’aria colorata della chiesa.
Ma ecco che qui, sui gradini del sagrato, siede un bambino. I suoi vestiti si tengono insieme per miracolo, così logori da apparire ormai trasparenti: chissà da quanto tempo su gomiti e ginocchia la stoffa non cresce più! Seduto sulla scalinata, sta piegato in avanti, tutto preso da qualcosa. Un minuscolo gattino gli scivola tra i piedi scalzi e gioca a sfuggire le mani scherzose che lo incalzano. Con la piccola coda ritta e le orecchie spalancate, vortica le corte zampette da una parte e poi subito dall’altra, cambiando sempre ritmo, e così sguscia tra le caviglie del bambino, che solletica con il pelo morbido. Il bambino ride divertito, lasciando credere al gattino di essere più furbo e più veloce, quando invece è lui stesso a dirigere il gioco come più gli piace. Infine lo prende tra le mani e se lo porta al petto, al che il gattino lancia un miagolio indispettito: gli appoggia la manina sulla testa e lo accarezza piano tra le orecchie, che lentamente si abbassano in una momentanea tregua. Un dolce sorriso illumina il volto del bimbo mentre il gattino comincia a fare timidamente le fusa, salvo poi mordergli la mano in uno scatto di sete di gioco; ma i piccoli denti non fanno ancora così male e il bambino continua a ridere, mentre solleva il gattino per la collottola fino all’altezza del viso: i due cuccioli si fissano dritti negli occhi per qualche secondo, finché il gattino non protesta con un acuto miagolio.
Si sente una musica provenire da lontano… si tratta di musica da ballo. Infatti è proprio una festa la fonte della musica. In un cortile circondato da gracili alberi, dai rami sottili dei quali pendono tenui lanterne di carta, si balla e si canta in un tripudio di risate. Dei bambini si rincorrono saettando tra le panche e le gonne voluminose, per una volta senza essere redarguiti dalle voci imperiose delle madri, intente a chiacchierare o a ballare sulla pista; gli uomini siedono con le gambe larghe e il vino a portata di mano, lieti di potersi riprendere dal duro lavoro del giorno ascoltando un po’ di musica; a intervalli arrivano persino a prendere la moglie per mano e a fare quattro salti a tempo. Giovani e fanciulle sono stanziati ai lati opposti dello spiazzo: le une, simili a teneri boccioli nei vestiti della festa, si scambiano sorrisi eccitati e sguardi complici mentre aspettano di essere invitate a ballare dai ragazzi, cui lanciano occhiate furtive; gli altri, seduti a cavallo di una staccionata, studiano le prede da lontano per cercare la più bella o la più facile, scambiandosi gomitate e battute superbe per mascherare il nervosismo e la paura del fare il primo passo. Da una parte un piccolo gruppo suona allegre melodie, senza pretendere di essere i migliori concertisti della città, ma preoccupandosi soltanto di regalare un po’ di felicità. Mischiati alle altre coppie, due giovani stanno ballando al centro della pista: trasportati dalla musica stessa, volteggiano leggeri nella polvere dell’aia, stretti nell’abbraccio elegante della danza. Parlano, scambiandosi battute in una battaglia all’ultima parola, cui si intervalla qualche sonora risata. Ad un tratto lui la stringe a sé, avvolgendole la vita con il braccio, così che si ritrovano ad un respiro di distanza, quasi si sfiorano col naso. Lei lo guarda con aria scettica e di sfida, cui lui ribatte senza esitare con brevi parole: la sufficienza si trasforma in incredibile contentezza quando lei scioglie le mani dalla presa e gli si getta al collo, mentre anche lui la stringe sorridendo.
Solo a pochi passi si sta consumando una tragedia. Una luce intensissima, violenta accende la notte, ma non si tratta di lampioni o di fari: un edificio appena fuori dalla città sta andando a fuoco. Quello che fino a pochi minuti fa era un ricco palazzo signorile è ora ridotto ad uno scheletro annerito, con le eleganti figure che ne adornano la facciata che sembrano gridare aiuto da dentro le fiamme. I vetri esplosi sono sparsi a terra e raddoppiano il terribile splendore riflettendo l’incendio, le cui fiamme si sbracciano fuori dalle finestre come sirene impazzite. Un fumo denso e nero più della notte pizzica gli occhi e si alza minaccioso verso il cielo, coprendo le stelle e annebbiando la luna, che sembra partecipare addolorata al funesto spettacolo. Snelle lingue di fuoco violentano il cielo con il loro bagliore incandescente, diffondendo una luce accecante e tremenda sullo sparuto gruppo di persone che è fortunosamente sfuggito al rogo e ora fissa impotente la spietata danza delle fiamme. Una bimba, che tiene salda per un braccio una bambola spettinata, si stringe alla gonna della madre, ma non piange, ancora incredula e come incantata da un simile spettacolo. La donna, sollecita, si piega ad accogliere in braccio la bambina e la stringe forte al petto, in lacrime.
Adesso tornerebbe proprio utile il temporale che si prepara qui accanto. Un’aria ferma e densa pesa sulla campagna, tanto che sembra quasi che muoversi costi fatica. Un silenzio surreale occupa ogni cosa, dopo aver svuotato dei suoni ogni angolo: tacciono gli uccelli, rincantucciati nei fragili nidi, con i piccoli al sicuro sotto le ali; tacciono le greggi, ben ammassate al riparo nei rifugi o all’ingresso di ampie grotte; tacciono i contadini, che non rallegrano l’aria con i loro semplici canti, con cui sono soliti cercare di alleggerire il duro lavoro. Basta alzare gli occhi al cielo per capire il perché di tutto questo. Se non sapessi che esiste un sole, adesso non sapresti indovinarne la presenza, perché l’intera estensione del cielo è occupata da spesse nubi: minacciose, gravide di tuoni e di fulmini, si spandono pesanti sopra tutto, incombendo con le loro immense masse. Simili a ventri di gigantesche balene volanti, tingono con il loro livore tutto il cielo, erodendo la luce del giorno in un cupo e tetro grigiore, che conferisce alla campagna un aspetto surreale e fantastico. Tutto è pronto per la tempesta, non resta che aspettare: l’aria sembra vibrare nella tensione ricca di aspettative dell’attesa.
Tuttavia c’è qualcuno che non sembra affatto preoccuparsi di tutto questo. La camera è molto buia, è impossibile distinguere cosa contenga, ad eccezione della specchiera ai piedi del letto. Due piccole lampade appoggiano di fianco allo specchio, una da un lato e una dall’altro, diffondendo un tenue bagliore rosato attraverso la stoffa leggera del paralume. Una ragazza siede davanti allo specchio: una impalpabile vestaglia di seta con stampe di fiori e di foglie le avvolge le spalle, scivolandole lungo la schiena e sulle braccia in ampie maniche. La sua pelle già pallida appare bianca come antico marmo greco sotto questa luce delicata, che sembra quasi accarezzarla con il suo soffuso nitore. I capelli rosso rame le ricadono sulle spalle in morbide onde iridescenti di riflessi, nascondendo parzialmente il viso. Sulla pelle candida spiccano dolorosamente i petali rosso sangue delle labbra, ben disegnate e piene come ciliegie succose. Ai lati del naso dritto e aggraziato brillano gli occhi, due gocce di acquamarina trasparente, che virano incessantemente dal verde all’azzurro, come un liquido specchio d’acqua. Ecco che raccoglie i capelli con le mai affusolate per acconciarli, guardando il proprio riflesso nello specchio, e così scopre il candido collo da colomba, slanciato e sottile. La dolce bocca si incupisce in un broncio e la fanciulla sbuffa, incapace di trovare una soluzione soddisfacente; lascia andare i capelli, che si sciolgono frusciando sulle sue spalle. Si piega leggermente in avanti per appoggiare il gomito sul piano e la sua schiena disegna un dolce arco, mentre le dita lunghissime si aprono intorno al mento sottile. All’improvviso si volta, seguendo il cigolio della maniglia, e i capelli e la vestaglia leggera volano intorno al suo viso e alle membra snelle come se non avessero peso mentre lei si alza dalla specchiera e si allontana quasi danzando, sparendo alla vista.

Un sole brillante e tiepido, ormai del tutto primaverile, fa scivolare i suoi raggi oltre i tetti di vetro della galleria, attraverso i quali il cielo limpido e azzurro si stende placido in tutta la sua serenità. Le pareti alte e candide, quasi accecanti sotto questa luce, sono scandite da snelle paraste ioniche, che si innalzano verso il tetto da un pavimento coperto da un soffice tappeto rosso. Un silenzio irreale aleggia lungo l’ampio corridoio, appena scalfito dal passo lento e leggero dell’unica visitatrice. Senza alcuna fretta percorre avanti e indietro la galleria, soffermandosi per svariati minuti di fronte a ciascun quadro, di cui ammira ogni particolare, ogni singola pennellata, giungendo ad avvicinarsi tanto da sfiorare quasi le tele con la punta del naso. Quando si sente finalmente soddisfatta della lunga osservazione, ripercorre per intero il corridoio, accarezzando nel passare le cornici dei dipinti, fino ad uscire da una delle estremità dell’edificio in un ampio balcone semicircolare, che affaccia su una verdissima campagna ancora libera dall’intervento umano, in cui si succedono indisturbati prati, boschi e arbusti di ogni pianta. Si sofferma ad ammirare tutto quel verde, pettinato da un vento non del tutto primaverile e ancora fresco, appoggiata alla balaustra candida; poi, facendo forza sulle braccia, si mette e sedere sulla balaustra stessa e lascia che uno dei grandi vasi che la decorano le faccia da schienale mentre dondola una gamba nel vuoto, baldanzosa nella sua voluminosa e piratesca camicia dalle maniche a sbuffo. Resta lì ad occhi chiusi, lasciandosi accarezzare dal sole e cullare dal vento, beandosi della melodia delle fronde e delle conversazioni degli uccelli. Quando riapre gli occhi, nota qualcosa sotto la grande quercia proprio di fronte al balcone, o meglio qualcuno. All’ombra dei forti rami, sedeva un giovane con in mano un minuscolo libro ingiallito, da cui a tratti alzava la testa, come se leggesse a intervalli. Si ravviava spesso i capelli, che puntualmente finivano davanti alle lenti degli occhiali, scostandoli con le lunghe mani. La ragazza lo guardò perplessa, al riparo dietro il velo dei suoi capelli, e gradualmente la perplessità si trasformò in curiosità, che si cambiò infine in ammirazione, mentre continuava ad osservare quei gesti aggraziati e gentili chiedendosi cosa ci facesse quello sconosciuto nel suo giardino. Ad un tratto, chissà, forse sentendosi osservato, il giovane alzò gli occhi proprio nella direzione della ragazza e dritti in quelli di lei, che fu talmente presa alla sprovvista da voltarsi esattamente dall’altro lato, anche se ormai era chiaro che era stata platealmente scoperta. Quando tornò a sbirciare con la coda dell’occhio sotto la quercia, il giovane era sparito, al che un immediato sospiro di sollievo le gonfiò i polmoni, convinta com’era di aver risolto il problema, se anche in un modo un po’ brusco, almeno definitivo. Ma di lì a poco udì chiaramente dei passi salire la scalinata che dal giardino portava al balcone e, nel tempo che lei impiegò a scendere dalla balaustra, si ritrovò di fronte il giovane proprio davanti alla porta della galleria, a chiuderle, non saprei se consapevolmente o meno, ogni via di fuga.
Stava in piedi di fronte a lei, con il piccolo libro che quasi spariva nella sua mano, e sorrideva, ma non con le labbra: con gli occhi, rischiarando intorno con una luce molto più potente di quella del sole. Lentamente fece un passo avanti e, continuando a sorridere:
− Ciao −
Quella parola suonò impossibile in mezzo a tutto quel silenzio.

   
 
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