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Autore: milly92    31/07/2017    1 recensioni
“Io sono Alice, piacere. La mediatrice culturale”.
“La che?”.
Offesa, feci una smorfia: il mio era un mestiere come tanti, non di certo uno di quelli super fighi con il titolo tradotto in inglese giusto per sembrare ancora più irraggiungibili.
“La me-dia-tri-ce culturale” rispiegai pazientemente.
“Ah, mediatrice! A causa del viaggio sto così fuso che avevo capito meretrice, ecco perché ero confuso” ridacchiò, con un palese accento romano. “Salvatore, comunque. Piacere. Faccio questo mestiere da cinque anni e non ho mai sentito parlare di una mediatrice nel team!”.
“E’ un’eccezione, oltre agli inglesi ci sono gli spagnoli e l’azienda aveva bisogno di una traduttrice. Diciamo che è un esperimento... Scusami comunque, mi sono bloccata nel bel mezzo della strada perché ho appena ricordato di aver dimenticato l’adattore e il mio cellulare è appena morto”.
“Azzò, sei perspicace, Alice la Mediatrice. Spero non dimentichi le traduzioni delle parole così come dimentichi le cose essenziali”.
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Day 3: I litigi sotto la pioggia non sono come quelli dei film

Capitolo 3

Day 3: I litigi sotto la pioggia non sono come quelli dei film


“Sì, sabes que ya llevo rato mirándote, tengo que bailar contigo hoy...”.

“Vi que tu mirada ya estaba llamándome, muéstrame el camino que yo voyyyyy...” continuai automaticamente quando il telefono di Mario iniziò a squillare, il giorno dopo a colazione.

Accompagnai il tutto con uno sbadiglio e mi tuffai in quella tazza di liquido orrendo che per gli inglesi era caffè con un po’ di latte mentre gli altri membri dello staff guardavano male me e Mario, il quale si era allontanato per rispondere.

“La canti pure?!” domandò Nadia, che come sempre alle sette e cinquanta del mattino era in grado di esibire un trucco perfetto con tanto di eyeliner messo perfettamente in stile Adele e uno smoky eye da far paura.

“L’abbiamo cantata tutti nelle nostre teste, io ho solo avuto il coraggio di cantarla ad alta voce” la rimbeccai.

“Alì, così mi scadi” disse Salvatore prima di dare un morso al suo toast con burro e marmellata.

“Mi sa che ti sono scaduta nel primo istante in cui mi hai conosciuto” borbottai, cercando di non essere tragica.

“E pure c’hai ragione”.

“Chi è Alice? Lei è Giulietta!” s’intromise Clara, che dalla sera prima aveva accettato il nomignolo di Saffo con tanta energia.

Udendo ciò, quasi mi strozzai con un pezzo di croissant e non riuscii a non guardare in direzione di Luca, che però non diede alcun segno di cambiamento mentre spalmava la marmellata sul suo toast.

Avevo pensato al suo gesto carino, era stato palesemente lui, non c’era altra spiegazione!

Mi aveva fatto piacere perché mi ero sentita considerata parte integrante del gruppo e speravo che questo effetto non svanisse.

Il mio flusso di pensieri fu interrotto dall’arrivo di Saverio che portava tra le mani il vassoio con la colazione in maniera stanca, come se fosse qualcosa che faceva per inerzia.

Prese posto di fronte a me e disse un fiacco: “Buongiorno. Ho un mal di testa...”.

Un coro di “Buongiorno” fu sopraffatto da Giada che si offriva di dargli qualcosa per farlo stare meglio visto che ci toccava il primo giorno di escursione a Londra.

“Sì, mangio qualcosa e poi prendo un Oki. Ragazzi, vi sono chiari i punti discussi ieri in riunione?”.

I GL annuirono e così feci io.

“Alice, cosa fai? Stai con noi tutta la giornata o dopo l’escursione con gli spagnoli te ne vai?”.

“Sto con voi”.

“Ok, puoi fare un giro da sola nel pomeriggio senza di noi visto che faremo un walking tour della città con gli inglesi”.

Annuii, allietata da quella prospettiva perché del tempo da sola, magari a Trafalgar Square o a Piccadilly, era ciò che mi ci voleva.

Già sognavo un caffè da Costa, sola con i miei pensieri e con il tempo per fare qualche chiamata e inviare qualche messaggio alle mie amiche che ormai mi davano per dispersa.

“Poi ceneremo insieme da qualche parte, daremo un budget ai ragazzi per cenare da soli e torneremo qui per le nove”.

Ci fu un generale mormorio di assenso e ognuno tornò alla propria colazione.

Si vedeva che iniziavamo ad essere stanchi, la riunione in cui Saverio ci spiegava come si sarebbe svolta l’escursione e spiegava ai GL cose di base come far attraversare la strada ai ragazzi in una città come Londra era finita all’una passate, dopo la serata “C’è Posta per Te”, quindi ognuno aveva dormito poco più di cinque ore.

Io, che avevo dovuto rendermi presentabile e fare anche lo shampoo, avevo dormito quattro ore e mezzo.

In più, come se non bastasse, iniziavo ad avere la sensazione di conoscere quelle persone da troppo tempo, mi sembrava assurdo che quello fosse il terzo giorno di permanenza nel college.

Evidentemente, alla fine delle due settimane, mi sarebbe sembrato di conoscere tutti da una vita.

 

Mi ritrovai in pullman seduta vicino ad una ragazzina silenziosa, con Nadia e Luca seduti davanti a me e Saverio alla mia destra.

Giada, Clara e Mario erano sull’altro pullman con i rimanenti quaranta ragazzi.

Ne approfittai per provare a schiacciare un pisolino e notai quanto potesse essere comodo un pullman quando si hanno molte ore di sonno arretrato.

Chiusi gli occhi, beandomi dell’improvvisa mancanza di luce intorno a me, mi sentii subito rilassata...

Io, Alice Sebastiani, quella che aveva problemi a dormire in hotel o in una casa nuova, trovavo il pullman comodo!

Cosa stava succedendo?

Mi stavo abituando ad uno stile di vita precario, privo di comfort, cosa che non credevo possibile visto che ero pur sempre la ragazza che a casa dormiva con ben due cuscini posizionati in un modo strategico e che odiava tutte le lenzuola che non erano di cotone in estate e flanella in inverno.

“Alice, scusami. Alice, scusami, puoi svegliarti?”.

La voce di Saverio mi raggiunse da lontano, quando ero ormai partita per il mondo dei sogni.

Quanto era passato? Un’ora? Dieci minuti?

Aprii gli occhi di scatto e vidi Saverio che mi scuoteva con un braccio mentre Clara e Luca si erano voltati e ci guardavano interessati, come se fossimo i protagonisti di un film.

“Sì?” biascicai, ancora più addormentata che sveglia.

“Ho Javier in linea, mi ha chiamato per dirmi una cosa, puoi parlarci tu? Non capisco!”.

Mi passò il telefono con forza e quasi me lo attaccò vicino all’orecchio.

Sperai di essere sveglia e ricettiva e di non fare figuracce.

“Hola Javier, soy Alice. Dime todo y lo voy a decir a Saverio”.

“Hola Alice. Sì, claro. Tenemos un problema, el conductor dice que es mejor si aparca cerca de Westminster y no cerca de Piccadilly Circus como dice el programa. Podrías decirselo también al vuestro conductor, por favor? Así que nos encontramos en el mismo lugar”.

La voce di Javier era sensuale e coinvolgente come sempre ma, ovviamente, da perfetto abitante dell’Andalucia parlava senza fermarsi un secondo, ignorava le s e accorciava le parole... Un incubo per una che era reduce da un pisolino come me.

“Sì, vale, se lo voy a decir ahora. Hay otro que tengo que comunicar?”.

“No, esto es. Gracias, nos vemos dentro de diez minutos”.

“Vale, gracias. Hasta pronto”.

Staccai la telefonata e notai che tutti mi guardavano come se fossi un’aliena, specialmente i due GL che mi vedevano nel vivo dell’azione per la prima volta.

“Che figa la nostra interprete!” esclamò Clara, con un tono quasi di ammirazione.

“Da sveglia rendo meglio” mormorai, imbarazzata.

“Dopo voglio vederti dal vivo mentre interagisci con loro, hai un ottimo accento!” aggiunse Luca, sorridendomi.

“E voi ora ve ne siete resi conto, sono tre giorni che questa poverina si sgola per spiegarmi tutto. Dai, che ha detto Javier?” domandò Saverio, impaziente.

“Il loro autista ha consigliato di farli scendere a Westminster e non più a Piccadilly, dobbiamo avvisare anche il nostro autista”.

Lui subitò scattò per comunicare con il conducente ed io sospirai, sforzandomi di rimanere lucida. “Javier ha anche detto che ci vedremo tra dieci minuti, è vero? Siamo già arrivati?”.

“Sì, dopotutto abitiamo giusto un po’ fuori Londra, ci vuole poco... Quando dormi poi il tempo vola” mi fece notare Clara, sarcastica come sempre.

“Eh lo so. Sono crollata...”.

“Dovresti sforzarti un po’ di più per abituarti a questi ritmi, come abbiamo fatto noi” osservò Luca, prima di voltarsi e sedersi normalmente.

“Scusami se non ho il tuo stesso orologio biologico, ma forse sono stanca perché ieri ho reso di più e come qualcuno mi ha fatto notare gli ho parato il culo ben due volte”.

Nel momento in cui finii di parlare me ne pentii, mi sarei morsa la lingua se avessi potuto.

Era una cosa da dire? Attaccarsi così di fronte ad una costatazione?

Era vero, dovevo abituarmi ai ritmi, tutti già ci erano riusciti tranne me ed io mi offendevo se me lo facevano notare.

Aspettavo un’eventuale replica che però non venne: Luca non disse altro e tornò ad ascoltare la musica con le cuffiette nell’orecchio, come se io non esistessi.

Arrabbiata, offesa, mi voltai istintivamente verso il direttore che disse semplicemente: “Tranquilla, devi fregartene solo del mio giudizio e stai andando bene”.

Annuii e poi mi misi a sedere meglio, con la schiena dritta e la testa piena di insulti per me stessa e per il signorino che mi stava di fronte.

 

Alle dieci eravamo davanti Buckingham Palace e Javier chiese cortesemente ai ragazzi di riunirsi attorno a lui.

Fui costretta ad aiutarlo perché solo una decina di ragazzi conoscevano le basi dello spagnolo, gli altri conoscevano solo l’inglese e al massimo un po’ di francese.

Javier era un mio coetaneo, da quel che sapevo studiava alla Complutense di Madrid per un Master ma era originario di Cordoba.

Era il tipico ragazzo del sud della Spagna scuro di pelle e di capelli ma aveva degli occhi di un verde intenso che avevano già un fan club tutto loro tra le ragazzine.

Si faceva chiamare Javi e il suo nome rimbombava dal giorno precedente in tutte le aree del campus, da quando le ragazzine avevano avuto modo di vederlo prima del test.

Diceva in continuazione “maravilloso” e ormai tutti se ne erano resi conto, così qualche ragazzino lo prendeva in giro mentre le sue fan ribadivano che di “maravilloso” nel campus c’era solo lui.

“Javi, yo voy a traducir lo que tu dices, vale?” domandai, dicendogli che avrei tradotto ciò che lui diceva sull’edificio.

“Vale”. Richiamò l’attenzione dei ragazzi e poi iniziò a parlare. “Buckingham Palace es la dimora oficial del Rey o del la Reina de Inglaterra, a partir de 1837, cuando empezó el reino de la Reina Victoria”.

“Buckingham Palace è la dimora ufficiale dei sovrani d’Inghilterra a partire dal 1837, quando iniziò il regno della regina Victoria...”.

Me ne stavo così, alla destra di Javi, lui ogni tanto mi sorrideva ed io mi sentivo finalmente in pace.

Tradurre, sia testi che discorsi, mi ha sempre rilassato.

Adoro farlo, mi piace impegnarmi per rendere una traduzione nel miglior modo possibile e in quel momento ne avevo davvero bisogno come calmante.

Alla fine della presentazione, quando Javi disse che potevamo fare qualche foto  per poi andare verso la National Gallery, addirittura scappò un piccolo applauso da parte dei ragazzi ed io mi sentii lusingata.

“Aspettate, una foto per il sito!” disse Mario, venendoci incontro quando io e Javi ci stavamo per separare.

“Foto?” domandò lo spagnolo.

Sorridemmo verso il cellulare dell’activity leader, Javi appoggiò una mano sulla mia spalla e si separò quando Mario ci diede l’ok.

Dopo qualche minuto in cui tutti si fecero delle foto davanti al Palazzo, in particolar modo nello stesso raggio d’azione delle guardie, tutti e ottanta i ragazzi furono ridivisi per squadre e formarono una lunga coda di adolescenti con un group leader davanti, uno dietro e due ai lati, pronti a vigilarli durante il percorso verso la National Gallery e Trafalgar Square.

Io me ne stavo dietro a tutto vicino Clara, la quale non perse tempo per avvicinarsi.

“Mi è dispiaciuto sentire ciò che ti ha detto Luca” bisbigliò, guardandosi attorno per evitare che qualcuno sentisse. “Io non lo penso, poi tu hai iniziato a lavorare prima di noi e mi rendo conto che tradurre email e discorsi è diverso dall’avere a che fare con i ragazzi...”.

“Clara, è tutto ok” la fermai, decisa a non creare rumors e disagi nell’ambiente di lavoro. “Mi sono difesa, basta”.

“Certo, certo, hai fatto benissimo. Giulia, in fila per due, non scappare davanti!” aggiunse, avvicinandosi ad una ragazza, così io ne approfittai per andarmene un po’ più avanti e starmene per conto mio.

 

Alle due del pomeriggio ero, finalmente, sola.

Avrei potuto camminare fino al Big Ben e fare qualche foto ma ero così desiderosa di pace che entrai nel Costa Coffee di Piccadily e ordinai un espresso.

Chiamai mia madre per raccontarle qualcosa del lavoro, mandai dei messaggi vocali ad Anna e Maria, le mie migliori amiche, per aggiornarle un po’ la situazione, poi provai a capire cosa mi stava succedendo.

Ero in un nuovo ambiente, ce la stavo mettendo tutta per lavorare bene, Saverio mi faceva sentire sicura e tutelata perché era chiaro, comprensivo ma schietto.

Amavo il mio lavoro, solo che dormivo poco e, sì, dovevo ammetterlo, mi sentivo inadeguata perché vedevo i GL pieni di energie a tutte le ore.

Mi sentivo un po’ inferiore, li invidiavo, volevo rendere come loro.

Anche Giada, tuttavia, sembrava sulla mia lunghezza d’onda e ciò mi consolava un po’ perché mi faceva capire che ero umana dopotutto e c’era qualcuno che rispondeva al duro lavoro nel mio stesso modo.

Sì, forse i nostri lavori erano diversi, i GL potevano avere un momento di svago mentre i ragazzi erano liberi in giro per la città o mentre erano a lezione mentre io e Giada non avevamo schemi, potevamo lavorare in qualsiasi momento, magari anche di notte se necessario, quando eravamo già andate a dormire.

Constatare ciò mi fece sentire meglio.

“Non sono inferiore a nessuno e mi sto facendo in due per il bene dell’azienda” mi dissi mentalmente, mentre sorseggiavo il caffè.

“Hola Alice, nos vemos otra vez”.

Sentii qualcuno appoggiare la mano sulla mia spalla e nel riflesso della vetrina che dava sulla strada vidi Javi.

Mi voltai e gli sorrisi.

Gli chiesi cosa stesse facendo lì e mi disse che stava prendendo un caffè da portare con Laura visto che avevano il Taxi a breve per tornare al campus, gli inglesi erano appena arrivati per il loro turno e avrebbero occupato il loro posto in pullman al ritorno.

Mentre parlava, pensai che era decisamente buffo il modo in cui Javi pronunciava il mio nome: “Alise”.

Non potevo dirgli nulla, dopotutto tutti lo chiamavano “Avi” senza aspirare la Jota e lui non diceva niente, anzi, ci rideva su.

“Siediti pure mentre Laura prende i caffè” lo invitai cordialmente, indicandogli la sedia.

Javi non se lo fece ripetere due volte, accettò di buon grado e prese posto.

“Che ci fai qui tutta sola?” chiese, probabilmente curioso visto che in tre giorni mi aveva sempre visto con qualcuno dello staff al mio fianco.

“Sono in pausa visto che il mio compito è tradurre solo lo spagnolo. Fino ad ora di cena sono libera” dissi, non riuscendo a non celare l’entusiasmo.

“Oh. Se lo avessi saputo non avrei prenotato il taxi con Laura, avremmo potuto fare un giro insieme, muoio dalla voglia di fare una passeggiata senza dover fare da guida turistica”.

“E io muoio dalla voglia di fare un giro senza dover tradurre ciò che dici” ironizzai. “Possiamo rimediare uno di questi giorni” aggiunsi.

Javi sorrise e disse il suo solito “Maravilloso!” seguito da “Oh, Luca!”.

Mi voltai di scatto e vidi che di fronte a noi, dall’altra parte della vetrina, c’era Luca con un gruppo di suoi ragazzi.

Avevano smesso di camminare e si erano fermati a guardarci, quasi come se fossimo uno spettacolo interessante e raro.

Alzai la mano in segno di saluto, lui fece un segno di riconoscimento con il capo per poi indicare ai suoi ragazzi un negozio di fronte, come se non si fosse mai distratto.

“Sarà impegnato ancora...”.

“No, ora i ragazzi sono liberi per pranzo, solo che gli piace stare con loro” spiegai, il che era vero visto che spesso e volentieri Luca si confondeva con i suoi ragazzi, amava giocare e scherzare con loro.

“Hola, Alice!”.

Laura Rosales, la dirigente del team spagnolo, era come sempre perfettamente vestita in un modo casual ma elegante, con i lunghi capelli buondi legati in uno chignon.

Aveva in mano due caffè da asporto e sembrava di fretta.

“Buenas tardes, Laura”.

Mi ripeté ciò che mi aveva detto Javi e nel giro di due minuti lasciarono il locale per andare verso il taxi che forse li stava già aspettando.

Presi un bel respiro e decisi di concentrarmi sulle ultime gocce di caffè ormai freddo che mi rimanevano, mentre osservavo il mio riflesso attraverso la vetrina.

I capelli ramati frutto di una tinta ormai scolorita erano un po’ disordinati a causa della pioggerella di quella mattina, il volto era truccato pochissimo e si vedevano le occhiaie, ma per fortuna avevo dei tratti da bambina a causa della sua forma un pochino rotondetta e di conseguenza la stanchezza non mi invecchiava.

Non so perché mi sentivo diversa, come se quella riflessa di fronte a me non fossi io.

“Che idiota” borbottai, prima di finire in un unico sorso il resto del caffè.

 

 

Rientrammo poco dopo le ventuno e Saverio ci graziò dicendoci che la riunione serale in cui ci avrebbe illustrato il programma della domenica avrebbe avuto luogo subito, in modo da consentirci di riposarci per il giorno successivo.

Tentai di dirmi che era una cosa casuale, che non lo stava facendo per farmi dormire di più dopo la scenata del pullman, dopotutto lui aveva iniziato la giornata con il mal di testa, ma non ci riuscii.

Continuavo a pensare alla faccia di Luca, al suo sguardo nei miei confronti attraverso la vetrina di Costa, al mio mix di pensieri contrastanti nei confronti del lavoro svolto.

“Ci vediamo in sala riunione tra quindici minuti. Scrivetelo nel gruppo” aggiunse Saverio, rivolto a me e Nadia, le uniche rimaste al suo fianco quando ci ritrovammo nella zona centrale del campus, in mezzo ai vari edifici dove alloggiavamo. “Attenzione che ci sono gli inglesi e gli spagnoli che stanno invitando tutti a bere qualcosa con loro ma vi consiglio di rifiutare, meglio farci vedere lucidi e non ubriachi, ricordatevi che siamo prima di tutto collaboratori” ci ammonì severamente. “A tra poco”.

Io a Nadia facemmo un cenno affermativo e lei si apprestò a scrivere l’informazione nel gruppo per poi avviarsi verso il suo edificio.

Io mi recai a destra, verso la E, e ovviamente mi ritrovai di fronte Luca che parlava con George, uno dei componenti del team inglese.

Feci un sorriso di circostanza nei loro confronti e presi le chiavi per entrare nella struttura.

Senza volerlo, ascoltai la conversazione e udii George invitare Luca per una birra.

“A beer? Why not!” ripose lui.

Mi bloccai, senza sapere cosa fare.

Evidentemente Luca non aveva letto i messaggi di Nadia nel gruppo, non mi sembrava il tipo di persona che non rispetta gli ordini del proprio coordinatore.

Cosa dovevo fare?

Farmi gli affari miei e fingere di non aver sentito o avvertirlo?

Se non avesse dato retta a Saverio anche lui per una volta non sarebbe stato impeccabile, ma d’altronde ne andava anche dell’armonia del gruppo visto che in tre giorni il nostro capo sembrava decisamente felice del lavoro svolto dalla sua squadra.

Fu per questo che mi scusai per l’intromissione e, voltandomi, appoggiai una mano sulla spalla di Luca.

Lui si voltò e mi guardò come se stessi facendo qualcosa di inappropriato.

“Scusami, volevo solo dirti che ci sono delle novità sul gruppo riguardo stasera, se puoi dare subito un’occhiata...”.

“Ok, grazie” borbottò, prima di voltarsi nuovamente verso George.

Dicendomi di aver fatto la mia buona azione della giornata, così, corsi nella mia stanza, presi adattore e caricabatteria, feci una doccia lampo di davvero quattro minuti scarsi e indossai i pantaloni della tuta e un maglione grigio visto che c’era di nuovo quella insopportabile pioggerellina e la temperatura era di circa diciotto gradi.

Alle nove e ventidue ero in sala riunione con quasi tutto il team, eccetto Giada, Salvatore e Luca.

Clara e Nadia sonnecchiavano su uno dei divani ed io, decisa a dare prova della mia energia, presi posto su una sedia abbastanza scomoda in modo da non favorire eventuali sbadigli.

“Se questi si sbrigano andiamo tutti in camera per le ventidue” sbuffò Saverio, alzando gli occhi al cielo.  “Questo mal di testa del cavolo non vuole proprio saperne di lasciarmi in pace”.

“Si staranno facendo una doccia” ipotizzai.

“Tu te la sei fatta di sicuro, profumi, ora”.

“Ora, eh” stetti al gioco. “Lo so, prima puzzavo di pioggia inglese”.

“Ne sei consapevole, meno male”.

Scoppiammo a ridere e in quel momento pensai che senza Saverio probabilmente avrei già avuto un crollo nervoso.

Era il capo ideale per me, ne ero sicura, e speravo davvero di riuscire a soddisfarlo dal punto di vista delle sue aspettative nei miei confronti.

Salvatore e Giada entrarono insieme dopo qualche secondo, scusandosi per il ritardo, e il capo ci contò mentalmente per poi dire: “Uffa, manca ancora Luca, chiamatelo. Non esiste che debba aspettarvi per le riunioni! Io so già tutto per quanto riguarda domani, se siamo qui è per voi!” sbraitò, improvvisamente nervoso.

Giada si offrì di chiamarlo ma inutilmente: non rispondeva.

“Chi abita nel suo edificio? Non ho le chiavi universali a portata di mano, mi serve qualcuno che abbia la chiave di accesso” disse quindi Saverio, portandosi una mano in faccia per la stanchezza.

“Io” dissi, iniziando a temere il peggio.

“E allora vai e riporta quello scemo qui. Aspetta che ti dico la stanza...”. Saverio si alzò, prese dei fogli in un cassetto e iniziò a leggere freneticamente. “E18”.

“Ok, corro” dissi e mi volatilizzai dopo aver preso il telefono.

Non sapevo cosa pensare... Quell’idiota aveva ignorato il mio avviso?

George capiva un po’ di italiano, non potevo parlargli chiaro e tondo e, inoltre, non era compito mio tenerlo sulla retta via, non era uno di quei ragazzini che si perdevano e per cui dovevamo svenarci pur di ritrovarli.

Era un adulto, un venticinquenne come lo sarei stata io a breve, era qui per lavorare e non per andare a ubriacarsi con quelli degli altri staff!

Per fortuna non mi fu difficile trovarlo: era con George e Alejandro in una porzione di prato di fronte al nostro edificio, se ne stavano nascosti in una zona dove non giungeva la luce dei lampioni.

Il tempo faceva schifo e se ne stavano all’aperto?

E se fossero passati dei ragazzi? Li avrebbero visti così, intenti a bere?

Non era normale!

Riuscivo ad ascoltare le loro risate, qualche “Fuck” misto a qualche “Joder” e alzai gli occhi al cielo, dicendomi di avere pazienza.

Mi avvicinai a quella zona con in mano il cellulare che mi faceva da lampada mentre cercavo di non farlo bagnare con la pioggia, giusto per annunciare la mia presenza, e come effetto li feci spaventare.

“Oh, it’s you, Alice! You scared us!” urlò George, prima di ridere e riportarsi la bottiglia di birra verso la bocca.

“Yes. I am sorry but I need to speak to Luca” dissi, facendogli segno di avvinarsi.

Lui, con un’espressione stranita, si alzò di malavoglia e si avvicinò.

I due tipi continuavano a guardarci così mi spostai a circa una decina di metri di distanza , obbligandolo a seguirmi.

“Che succede?” chiese, impazientemente.

“Succede che ti ho detto di leggere i messaggi sul gruppo e evidentemente non lo hai fatto!”.

“Ho la batteria scarica...”.

“Ma allora vai in camera e trovi una soluzione, pensi che sia deficiente se ti ho detto di leggerli? La riunione sta avendo luogo ora e Saverio ci ha detto che non vuole che accettiamo di bere con gli inglesi e gli spagnoli” spiegai rapidamente, immaginando già il direttore che spazientito ci raggiungeva e scopriva il misfatto.

“E perché mai? Tu oggi stavi bevendo qualcosa con Javi e non mi pare ti abbia fatto una paternale” replicò lui, con una faccia tosta che mi diede ai nervi.

Avrei voluto tirargli un pugno dritto in faccia in modo da demolirgli quel naso perfetto che si ritrovava, ma mi limitai a stringere il pugno destro fino a dar diventare le nocche bianche.

“Tralasciando che non sono affari tuoi, io ho semplicemente incontraro Javi ed ero nel mio tempo libero. Tu sei in servizio, hai una riunione a cui partecipare e se Saverio ti vede così ti fa nero. E’ alcool, non capisci? Non vuole che si dica in giro che beviamo quando il nostro dovere è essere responsabile per i ragazzi...”.

“Il nostro, semmai” mi corresse.

Era serio?

Cosa ci faceva quel pugno fermo, perché non agivo?

Ma soprattutto, perché non capiva di aver fatto una cazzata e non agiva per porvi rimedio?

“Senti, magari non sarò la diretta responsabile dei ragazzi ma lavoro anche io per la riuscita del viaggio. E quando perderai di vista il prossimo, non osare venire a piangere da me, mi limiterò a svolgere il mio lavoro e basta. Ah... Giusto per fartelo presente, al momento io sembro una group leader e tu un ragazzino di tredici anni. Dirò a Saverio che non ti ho trovato, fà quel che ti pare” sbottai, di sicuro rossissima in volto.

In una sola giornata quell’idiota era stato in grado di farmi perdere il controllo ben due volte e non glielo potevo permettere.

Mi voltai, dandogli le spalle, e mi avviai di nuovo verso la sala riunione a passo di marcia, senza badare alla pioggia che si faceva sempre più insistente e mi stava facendo bagnare tutta.

“Alice, aspetta! Alice!”.

Continuai a camminare, arrivai all’edificio e mi bloccai perché, uffa!, non avevo le chiavi di ingresso.

Battei un piede a terra per la frustrazione, decidendo di inviare un messaggio per chiedere a qualcuno di venire ad aprire, ma in un battibaleno mi ritrovai Luca di fronte, a sua volte con i capelli quasi interamente bagnati e la maglia rossa dell’azienda con chiazze di pioggia.

“Ho detto ai ragazzi di non dire che ero con loro. Alice” mi afferrò per le spalle e mi portò sotto una specie di portico alla nostra destra, dove la pioggia non poteva colpirci ulterioremente, “Hai ragione. Hai ragione su tutto, ho sbagliato. Io... oggi ero nervoso, avevo davvero bisogno di una birra, tu non c’entri nulla”.

“Tu non hai il diritto di sparare sentenze su di me! Mi hai fatto incazzare di brutto!”.

“Scusami. Mi sa che abbiamo dei caratteri simili, io tendo a non voler dare ragione alla gente anche se sto di star sbagliando. Non volevo fare la figura dell’idiota con i ragazzi... Tu sei dolcissima, mi hai avvertito ed è ufficialmente la terza volta che mi aiuti. Stai tremando” aggiunse, vedendo che quasi battevo i denti a causa del mix freddo, pioggia e semplice maglione non molto pesante.

“E’ o-ok, ora rientro...”.

Si tolse lo zaino dalle spalle, lo aprì e ne estrasse una felpa rossa dell’azienda fin troppo gigantesca per i miei gusti.

“Mettila, altrimenti ti ammali”.

“Cosa? No, ora invio un messaggio, ci aprono la porta...”.

“Non farti pregare. E dopo stasera meriti di essere identificata come una group leader più che mai. Mi sa che il rosso ti dona” disse, incoraggiante.

Decisi di non farmi abbindolare dalle sue parole, mi limitai a prendere la felpa e ad indossarla, beneficiando subito della  piacevole sensazione di calore che mi stava donando.

“Voglio tu sappia che sono arrabbiata con te...”.

“Lo so”.

“E non ti aiuterò più”.

“Fai bene. Ora tocca a me aiutarti” mormorò, sorridendomi e rivelando una dentura candida e perfetta. “Grazie. Non c’è bisogno che parli con Saverio, mi giustifico io” sussurrò, prima di prendermi per un braccio e trascinarmi di nuovo verso l’entrata dell’edificio. “Ma se vuoi dirgli la verità, fai pure”.

“Io voglio solo stare tranquilla...”.

Luca mi guardò di sbieco e annuì debolmente, provando a riparare entrambi dalla pioggia.

“Per quanto mi riguarda, quel treno ormai è partito” sentenziò. “Oh, guarda! Nello, aprici e poi fila a letto!” urlò, rivolto a un ragazzino dall’altra parte della porta che evidentemente cercava di sgaiattolare da qualche altra parte.

Il cosiddetto Nello sbiancò e ci aprì la porta, intimorito.

“Luca, io...”.

“Fila a letto, Nello” gli intimò lui, perentorio.

“Sì, certo”.

Presi un bel respiro e mi passai una mano tra i capelli di sicuro umidissimi e schifosi .

“Andiamo a questa riunione...” mormorai, ormai senza forze sotto tutti i punti di vista.

“Sembri davvero una GL con la felpa rossa, Alice la Group Leader!”.

Mi voltai di scatto e lo guardai male mentre lui se la rideva.

Chi si credeva di essere?

Prima mi trattava male e poi faceva l’amicone, come se nulla fosse.

“Non mi abbindolerai, Luca” chiarii, seria più che mai.

Ovviamente, invece di avere una reazione normale, lui sorrise di nuovo e mi fece l’occhiolino.

“Lo so. Questo è il bello!”.

 

 

 

*°*°*°

Buon pomeriggio a tutti :D

Come promesso eccomi qui con il nuovo capitolo!

Le cose iniziano a movimentarsi, no? Litigi, problemi, questioni varie... Dopo solo tre giorni!

Ecco cosa succede quando si lavora quasi ventiquattro ore su ventiquattro tutti insieme xD

Un grazie speciale va alla gentilissima Delia Bluetales per aver letto il capitolo e avermi fatto notare degli errori, mi ha aiutato davvero tantissimo ad accelerare il processo di pubblicazione <3

Se vi va fatemi sapere cosa ne pensate :D

A lunedì prossimo, poi ci sarà una pausa perché parto per Praga <3

Un bacio,

 milly.

  
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