Capitolo 3
Day 3: I litigi sotto la pioggia non sono come quelli dei film
“Sì, sabes que ya llevo rato mirándote, tengo
que bailar contigo hoy...”.
“Vi que tu mirada ya estaba llamándome, muéstrame
el camino que yo voyyyyy...”
continuai automaticamente quando il telefono di Mario iniziò a squillare, il
giorno dopo a colazione.
Accompagnai
il tutto con uno sbadiglio e mi tuffai in quella tazza di liquido orrendo che
per gli inglesi era caffè con un po’ di latte mentre gli altri membri dello
staff guardavano male me e Mario, il quale si era allontanato per rispondere.
“La
canti pure?!” domandò Nadia, che come sempre alle sette e cinquanta del mattino
era in grado di esibire un trucco perfetto con tanto di eyeliner messo
perfettamente in stile Adele e uno smoky eye da far paura.
“L’abbiamo
cantata tutti nelle nostre teste, io ho solo avuto il coraggio di cantarla ad
alta voce” la rimbeccai.
“Alì,
così mi scadi” disse Salvatore prima di dare un morso al suo toast con burro e
marmellata.
“Mi
sa che ti sono scaduta nel primo istante in cui mi hai conosciuto” borbottai,
cercando di non essere tragica.
“E
pure c’hai ragione”.
“Chi
è Alice? Lei è Giulietta!”
s’intromise Clara, che dalla sera prima aveva accettato il nomignolo di Saffo
con tanta energia.
Udendo
ciò, quasi mi strozzai con un pezzo di croissant e non riuscii a non guardare
in direzione di Luca, che però non diede alcun segno di cambiamento mentre
spalmava la marmellata sul suo toast.
Avevo
pensato al suo gesto carino, era stato palesemente lui, non c’era altra
spiegazione!
Mi
aveva fatto piacere perché mi ero sentita considerata parte integrante del gruppo
e speravo che questo effetto non svanisse.
Il
mio flusso di pensieri fu interrotto dall’arrivo di Saverio che portava tra le
mani il vassoio con la colazione in maniera stanca, come se fosse qualcosa che
faceva per inerzia.
Prese
posto di fronte a me e disse un fiacco: “Buongiorno. Ho un mal di testa...”.
Un
coro di “Buongiorno” fu sopraffatto da Giada che si offriva di dargli qualcosa
per farlo stare meglio visto che ci toccava il primo giorno di escursione a
Londra.
“Sì,
mangio qualcosa e poi prendo un Oki. Ragazzi, vi sono chiari i punti discussi
ieri in riunione?”.
I
GL annuirono e così feci io.
“Alice,
cosa fai? Stai con noi tutta la giornata o dopo l’escursione con gli spagnoli
te ne vai?”.
“Sto
con voi”.
“Ok,
puoi fare un giro da sola nel pomeriggio senza di noi visto che faremo un
walking tour della città con gli inglesi”.
Annuii,
allietata da quella prospettiva perché del tempo da sola, magari a Trafalgar
Square o a Piccadilly, era ciò che mi ci voleva.
Già
sognavo un caffè da Costa, sola con i miei pensieri e con il tempo per fare
qualche chiamata e inviare qualche messaggio alle mie amiche che ormai mi
davano per dispersa.
“Poi
ceneremo insieme da qualche parte, daremo un budget ai ragazzi per cenare da
soli e torneremo qui per le nove”.
Ci
fu un generale mormorio di assenso e ognuno tornò alla propria colazione.
Si
vedeva che iniziavamo ad essere stanchi, la riunione in cui Saverio ci spiegava
come si sarebbe svolta l’escursione e spiegava ai GL cose di base come far
attraversare la strada ai ragazzi in una città come Londra era finita all’una
passate, dopo la serata “C’è Posta per Te”, quindi ognuno aveva dormito poco
più di cinque ore.
Io,
che avevo dovuto rendermi presentabile e fare anche lo shampoo, avevo dormito
quattro ore e mezzo.
In
più, come se non bastasse, iniziavo ad avere la sensazione di conoscere quelle
persone da troppo tempo, mi sembrava assurdo che quello fosse il terzo giorno
di permanenza nel college.
Evidentemente,
alla fine delle due settimane, mi sarebbe sembrato di conoscere tutti da una
vita.
Mi
ritrovai in pullman seduta vicino ad una ragazzina silenziosa, con Nadia e Luca
seduti davanti a me e Saverio alla mia destra.
Giada,
Clara e Mario erano sull’altro pullman con i rimanenti quaranta ragazzi.
Ne
approfittai per provare a schiacciare un pisolino e notai quanto potesse essere
comodo un pullman quando si hanno molte ore di sonno arretrato.
Chiusi
gli occhi, beandomi dell’improvvisa mancanza di luce intorno a me, mi sentii
subito rilassata...
Io,
Alice Sebastiani, quella che aveva problemi a dormire in hotel o in una casa
nuova, trovavo il pullman comodo!
Cosa
stava succedendo?
Mi
stavo abituando ad uno stile di vita precario, privo di comfort, cosa che non
credevo possibile visto che ero pur sempre la ragazza che a casa dormiva con
ben due cuscini posizionati in un modo strategico e che odiava tutte le
lenzuola che non erano di cotone in estate e flanella in inverno.
“Alice,
scusami. Alice, scusami, puoi svegliarti?”.
La
voce di Saverio mi raggiunse da lontano, quando ero ormai partita per il mondo
dei sogni.
Quanto
era passato? Un’ora? Dieci minuti?
Aprii
gli occhi di scatto e vidi Saverio che mi scuoteva con un braccio mentre Clara
e Luca si erano voltati e ci guardavano interessati, come se fossimo i
protagonisti di un film.
“Sì?”
biascicai, ancora più addormentata che sveglia.
“Ho
Javier in linea, mi ha chiamato per dirmi una cosa, puoi parlarci tu? Non
capisco!”.
Mi
passò il telefono con forza e quasi me lo attaccò vicino all’orecchio.
Sperai
di essere sveglia e ricettiva e di non fare figuracce.
“Hola Javier, soy Alice. Dime todo y lo voy a decir a
Saverio”.
“Hola Alice. Sì, claro. Tenemos un problema, el conductor
dice que es mejor si aparca cerca de Westminster y no cerca de Piccadilly
Circus como dice el programa. Podrías decirselo también al vuestro conductor,
por favor? Así que nos encontramos en el mismo lugar”.
La
voce di Javier era sensuale e coinvolgente come sempre ma, ovviamente, da
perfetto abitante dell’Andalucia parlava senza fermarsi un secondo, ignorava le
s e accorciava le parole... Un incubo per una che era reduce da un pisolino
come me.
“Sì, vale, se lo voy a decir ahora. Hay otro que tengo que
comunicar?”.
“No, esto es. Gracias, nos vemos dentro de diez minutos”.
“Vale, gracias. Hasta pronto”.
Staccai
la telefonata e notai che tutti mi guardavano come se fossi un’aliena,
specialmente i due GL che mi vedevano nel vivo dell’azione per la prima volta.
“Che
figa la nostra interprete!” esclamò Clara, con un tono quasi di ammirazione.
“Da
sveglia rendo meglio” mormorai, imbarazzata.
“Dopo
voglio vederti dal vivo mentre interagisci con loro, hai un ottimo accento!”
aggiunse Luca, sorridendomi.
“E
voi ora ve ne siete resi conto, sono tre giorni che questa poverina si sgola
per spiegarmi tutto. Dai, che ha detto Javier?” domandò Saverio, impaziente.
“Il
loro autista ha consigliato di farli scendere a Westminster e non più a
Piccadilly, dobbiamo avvisare anche il nostro autista”.
Lui
subitò scattò per comunicare con il conducente ed io sospirai, sforzandomi di
rimanere lucida. “Javier ha anche detto che ci vedremo tra dieci minuti, è vero?
Siamo già arrivati?”.
“Sì,
dopotutto abitiamo giusto un po’ fuori Londra, ci vuole poco... Quando dormi
poi il tempo vola” mi fece notare Clara, sarcastica come sempre.
“Eh
lo so. Sono crollata...”.
“Dovresti
sforzarti un po’ di più per abituarti a questi ritmi, come abbiamo fatto noi”
osservò Luca, prima di voltarsi e sedersi normalmente.
“Scusami
se non ho il tuo stesso orologio biologico, ma forse sono stanca perché ieri ho
reso di più e come qualcuno mi ha fatto notare gli ho parato il culo ben due
volte”.
Nel
momento in cui finii di parlare me ne pentii, mi sarei morsa la lingua se
avessi potuto.
Era
una cosa da dire? Attaccarsi così di fronte ad una costatazione?
Era
vero, dovevo abituarmi ai ritmi, tutti già ci erano riusciti tranne me ed io mi
offendevo se me lo facevano notare.
Aspettavo
un’eventuale replica che però non venne: Luca non disse altro e tornò ad
ascoltare la musica con le cuffiette nell’orecchio, come se io non esistessi.
Arrabbiata,
offesa, mi voltai istintivamente verso il direttore che disse semplicemente:
“Tranquilla, devi fregartene solo del mio giudizio e stai andando bene”.
Annuii
e poi mi misi a sedere meglio, con la schiena dritta e la testa piena di insulti
per me stessa e per il signorino che mi stava di fronte.
Alle
dieci eravamo davanti Buckingham Palace e Javier chiese cortesemente ai ragazzi
di riunirsi attorno a lui.
Fui
costretta ad aiutarlo perché solo una decina di ragazzi conoscevano le basi
dello spagnolo, gli altri conoscevano solo l’inglese e al massimo un po’ di
francese.
Javier
era un mio coetaneo, da quel che sapevo studiava alla Complutense di Madrid per
un Master ma era originario di Cordoba.
Era
il tipico ragazzo del sud della Spagna scuro di pelle e di capelli ma aveva
degli occhi di un verde intenso che avevano già un fan club tutto loro tra le
ragazzine.
Si
faceva chiamare Javi e il suo nome rimbombava dal giorno precedente in tutte le
aree del campus, da quando le ragazzine avevano avuto modo di vederlo prima del
test.
Diceva
in continuazione “maravilloso” e ormai tutti se ne erano resi conto, così
qualche ragazzino lo prendeva in giro mentre le sue fan ribadivano che di
“maravilloso” nel campus c’era solo lui.
“Javi, yo voy a traducir lo que tu dices, vale?” domandai, dicendogli che avrei tradotto ciò che lui diceva
sull’edificio.
“Vale”. Richiamò
l’attenzione dei ragazzi e poi iniziò a parlare. “Buckingham Palace es la dimora oficial del Rey o del la Reina de
Inglaterra, a partir de 1837, cuando empezó el reino de la Reina Victoria”.
“Buckingham
Palace è la dimora ufficiale dei sovrani d’Inghilterra a partire dal 1837,
quando iniziò il regno della regina Victoria...”.
Me
ne stavo così, alla destra di Javi, lui ogni tanto mi sorrideva ed io mi
sentivo finalmente in pace.
Tradurre,
sia testi che discorsi, mi ha sempre rilassato.
Adoro
farlo, mi piace impegnarmi per rendere una traduzione nel miglior modo
possibile e in quel momento ne avevo davvero bisogno come calmante.
Alla
fine della presentazione, quando Javi disse che potevamo fare qualche foto per poi andare verso la National Gallery,
addirittura scappò un piccolo applauso da parte dei ragazzi ed io mi sentii
lusingata.
“Aspettate,
una foto per il sito!” disse Mario, venendoci incontro quando io e Javi ci
stavamo per separare.
“Foto?”
domandò lo spagnolo.
Sorridemmo
verso il cellulare dell’activity leader, Javi appoggiò una mano sulla mia
spalla e si separò quando Mario ci diede l’ok.
Dopo
qualche minuto in cui tutti si fecero delle foto davanti al Palazzo, in
particolar modo nello stesso raggio d’azione delle guardie, tutti e ottanta i
ragazzi furono ridivisi per squadre e formarono una lunga coda di adolescenti
con un group leader davanti, uno dietro e due ai lati, pronti a vigilarli
durante il percorso verso la National Gallery e Trafalgar Square.
Io
me ne stavo dietro a tutto vicino Clara, la quale non perse tempo per
avvicinarsi.
“Mi
è dispiaciuto sentire ciò che ti ha detto Luca” bisbigliò, guardandosi attorno
per evitare che qualcuno sentisse. “Io non lo penso, poi tu hai iniziato a
lavorare prima di noi e mi rendo conto che tradurre email e discorsi è diverso
dall’avere a che fare con i ragazzi...”.
“Clara,
è tutto ok” la fermai, decisa a non creare rumors e disagi nell’ambiente di
lavoro. “Mi sono difesa, basta”.
“Certo,
certo, hai fatto benissimo. Giulia, in fila per due, non scappare davanti!”
aggiunse, avvicinandosi ad una ragazza, così io ne approfittai per andarmene un
po’ più avanti e starmene per conto mio.
Alle
due del pomeriggio ero, finalmente, sola.
Avrei
potuto camminare fino al Big Ben e fare qualche foto ma ero così desiderosa di
pace che entrai nel Costa Coffee di Piccadily e ordinai un espresso.
Chiamai
mia madre per raccontarle qualcosa del lavoro, mandai dei messaggi vocali ad
Anna e Maria, le mie migliori amiche, per aggiornarle un po’ la situazione, poi
provai a capire cosa mi stava succedendo.
Ero
in un nuovo ambiente, ce la stavo mettendo tutta per lavorare bene, Saverio mi
faceva sentire sicura e tutelata perché era chiaro, comprensivo ma schietto.
Amavo
il mio lavoro, solo che dormivo poco e, sì, dovevo ammetterlo, mi sentivo
inadeguata perché vedevo i GL pieni di energie a tutte le ore.
Mi
sentivo un po’ inferiore, li invidiavo, volevo rendere come loro.
Anche
Giada, tuttavia, sembrava sulla mia lunghezza d’onda e ciò mi consolava un po’
perché mi faceva capire che ero umana dopotutto e c’era qualcuno che rispondeva
al duro lavoro nel mio stesso modo.
Sì,
forse i nostri lavori erano diversi, i GL potevano avere un momento di svago
mentre i ragazzi erano liberi in giro per la città o mentre erano a lezione
mentre io e Giada non avevamo schemi, potevamo lavorare in qualsiasi momento,
magari anche di notte se necessario, quando eravamo già andate a dormire.
Constatare
ciò mi fece sentire meglio.
“Non
sono inferiore a nessuno e mi sto facendo in due per il bene dell’azienda” mi
dissi mentalmente, mentre sorseggiavo il caffè.
“Hola Alice, nos vemos otra vez”.
Sentii
qualcuno appoggiare la mano sulla mia spalla e nel riflesso della vetrina che
dava sulla strada vidi Javi.
Mi
voltai e gli sorrisi.
Gli
chiesi cosa stesse facendo lì e mi disse che stava prendendo un caffè da
portare con Laura visto che avevano il Taxi a breve per tornare al campus, gli
inglesi erano appena arrivati per il loro turno e avrebbero occupato il loro
posto in pullman al ritorno.
Mentre
parlava, pensai che era decisamente buffo il modo in cui Javi pronunciava il
mio nome: “Alise”.
Non
potevo dirgli nulla, dopotutto tutti lo chiamavano “Avi” senza aspirare la Jota
e lui non diceva niente, anzi, ci rideva su.
“Siediti
pure mentre Laura prende i caffè” lo invitai cordialmente, indicandogli la
sedia.
Javi
non se lo fece ripetere due volte, accettò di buon grado e prese posto.
“Che
ci fai qui tutta sola?” chiese, probabilmente curioso visto che in tre giorni
mi aveva sempre visto con qualcuno dello staff al mio fianco.
“Sono
in pausa visto che il mio compito è tradurre solo lo spagnolo. Fino ad ora di
cena sono libera” dissi, non riuscendo a non celare l’entusiasmo.
“Oh.
Se lo avessi saputo non avrei prenotato il taxi con Laura, avremmo potuto fare
un giro insieme, muoio dalla voglia di fare una passeggiata senza dover fare da
guida turistica”.
“E
io muoio dalla voglia di fare un giro senza dover tradurre ciò che dici”
ironizzai. “Possiamo rimediare uno di questi giorni” aggiunsi.
Javi
sorrise e disse il suo solito “Maravilloso!” seguito da “Oh, Luca!”.
Mi
voltai di scatto e vidi che di fronte a noi, dall’altra parte della vetrina,
c’era Luca con un gruppo di suoi ragazzi.
Avevano
smesso di camminare e si erano fermati a guardarci, quasi come se fossimo uno
spettacolo interessante e raro.
Alzai
la mano in segno di saluto, lui fece un segno di riconoscimento con il capo per
poi indicare ai suoi ragazzi un negozio di fronte, come se non si fosse mai
distratto.
“Sarà
impegnato ancora...”.
“No,
ora i ragazzi sono liberi per pranzo, solo che gli piace stare con loro”
spiegai, il che era vero visto che spesso e volentieri Luca si confondeva con i
suoi ragazzi, amava giocare e scherzare con loro.
“Hola, Alice!”.
Laura
Rosales, la dirigente del team spagnolo, era come sempre perfettamente vestita
in un modo casual ma elegante, con i lunghi capelli buondi legati in uno
chignon.
Aveva
in mano due caffè da asporto e sembrava di fretta.
“Buenas tardes, Laura”.
Mi
ripeté ciò che mi aveva detto Javi e nel giro di due minuti lasciarono il
locale per andare verso il taxi che forse li stava già aspettando.
Presi
un bel respiro e decisi di concentrarmi sulle ultime gocce di caffè ormai
freddo che mi rimanevano, mentre osservavo il mio riflesso attraverso la
vetrina.
I
capelli ramati frutto di una tinta ormai scolorita erano un po’ disordinati a
causa della pioggerella di quella mattina, il volto era truccato pochissimo e
si vedevano le occhiaie, ma per fortuna avevo dei tratti da bambina a causa
della sua forma un pochino rotondetta e di conseguenza la stanchezza non mi
invecchiava.
Non
so perché mi sentivo diversa, come se quella riflessa di fronte a me non fossi
io.
“Che
idiota” borbottai, prima di finire in un unico sorso il resto del caffè.
Rientrammo poco dopo le ventuno e Saverio ci graziò dicendoci
che la riunione serale in cui ci avrebbe illustrato il programma della domenica
avrebbe avuto luogo subito, in modo da consentirci di riposarci per il giorno
successivo.
Tentai di dirmi che era una cosa casuale, che non lo stava
facendo per farmi dormire di più dopo la scenata del pullman, dopotutto lui
aveva iniziato la giornata con il mal di testa, ma non ci riuscii.
Continuavo a pensare alla faccia di Luca, al suo sguardo nei
miei confronti attraverso la vetrina di Costa, al mio mix di pensieri
contrastanti nei confronti del lavoro svolto.
“Ci vediamo in sala riunione tra quindici minuti. Scrivetelo
nel gruppo” aggiunse Saverio, rivolto a me e Nadia, le uniche rimaste al suo
fianco quando ci ritrovammo nella zona centrale del campus, in mezzo ai vari
edifici dove alloggiavamo. “Attenzione che ci sono gli inglesi e gli spagnoli
che stanno invitando tutti a bere qualcosa con loro ma vi consiglio di
rifiutare, meglio farci vedere lucidi e non ubriachi, ricordatevi che siamo
prima di tutto collaboratori” ci ammonì severamente. “A tra poco”.
Io a Nadia facemmo un cenno affermativo e lei si apprestò a
scrivere l’informazione nel gruppo per poi avviarsi verso il suo edificio.
Io mi recai a destra, verso la E, e ovviamente mi ritrovai di
fronte Luca che parlava con George, uno dei componenti del team inglese.
Feci un sorriso di circostanza nei loro confronti e presi le
chiavi per entrare nella struttura.
Senza volerlo, ascoltai la conversazione e udii George
invitare Luca per una birra.
“A
beer? Why not!” ripose lui.
Mi bloccai, senza sapere cosa fare.
Evidentemente Luca non aveva letto i messaggi di Nadia nel
gruppo, non mi sembrava il tipo di persona che non rispetta gli ordini del
proprio coordinatore.
Cosa dovevo fare?
Farmi gli affari miei e fingere di non aver sentito o
avvertirlo?
Se non avesse dato retta a Saverio anche lui per una volta
non sarebbe stato impeccabile, ma d’altronde ne andava anche dell’armonia del
gruppo visto che in tre giorni il nostro capo sembrava decisamente felice del
lavoro svolto dalla sua squadra.
Fu per questo che mi scusai per l’intromissione e,
voltandomi, appoggiai una mano sulla spalla di Luca.
Lui si voltò e mi guardò come se stessi facendo qualcosa di
inappropriato.
“Scusami, volevo solo dirti che ci sono delle novità sul
gruppo riguardo stasera, se puoi dare subito un’occhiata...”.
“Ok, grazie” borbottò, prima di voltarsi nuovamente verso
George.
Dicendomi di aver fatto la mia buona azione della giornata,
così, corsi nella mia stanza, presi adattore e caricabatteria, feci una doccia
lampo di davvero quattro minuti scarsi e indossai i pantaloni della tuta e un
maglione grigio visto che c’era di nuovo quella insopportabile pioggerellina e
la temperatura era di circa diciotto gradi.
Alle nove e ventidue ero in sala riunione con quasi tutto il
team, eccetto Giada, Salvatore e Luca.
Clara e Nadia sonnecchiavano su uno dei divani ed io, decisa
a dare prova della mia energia, presi posto su una sedia abbastanza scomoda in
modo da non favorire eventuali sbadigli.
“Se questi si sbrigano andiamo tutti in camera per le
ventidue” sbuffò Saverio, alzando gli occhi al cielo. “Questo mal di testa del cavolo non vuole
proprio saperne di lasciarmi in pace”.
“Si staranno facendo una doccia” ipotizzai.
“Tu te la sei fatta di sicuro, profumi, ora”.
“Ora, eh” stetti al gioco. “Lo so, prima puzzavo di pioggia
inglese”.
“Ne sei consapevole, meno male”.
Scoppiammo a ridere e in quel momento pensai che senza
Saverio probabilmente avrei già avuto un crollo nervoso.
Era il capo ideale per me, ne ero sicura, e speravo davvero
di riuscire a soddisfarlo dal punto di vista delle sue aspettative nei miei
confronti.
Salvatore e Giada entrarono insieme dopo qualche secondo,
scusandosi per il ritardo, e il capo ci contò mentalmente per poi dire: “Uffa,
manca ancora Luca, chiamatelo. Non esiste che debba aspettarvi per le riunioni!
Io so già tutto per quanto riguarda domani, se siamo qui è per voi!” sbraitò,
improvvisamente nervoso.
Giada si offrì di chiamarlo ma inutilmente: non rispondeva.
“Chi abita nel suo edificio? Non ho le chiavi universali a
portata di mano, mi serve qualcuno che abbia la chiave di accesso” disse quindi
Saverio, portandosi una mano in faccia per la stanchezza.
“Io” dissi, iniziando a temere il peggio.
“E allora vai e riporta quello scemo qui. Aspetta che ti dico
la stanza...”. Saverio si alzò, prese dei fogli in un cassetto e iniziò a
leggere freneticamente. “E18”.
“Ok, corro” dissi e mi volatilizzai dopo aver preso il telefono.
Non sapevo cosa pensare... Quell’idiota aveva ignorato il mio
avviso?
George capiva un po’ di italiano, non potevo parlargli chiaro
e tondo e, inoltre, non era compito mio tenerlo sulla retta via, non era uno di
quei ragazzini che si perdevano e per cui dovevamo svenarci pur di ritrovarli.
Era un adulto, un venticinquenne come lo sarei stata io a
breve, era qui per lavorare e non per andare a ubriacarsi con quelli degli
altri staff!
Per fortuna non mi fu difficile trovarlo: era con George e
Alejandro in una porzione di prato di fronte al nostro edificio, se ne stavano
nascosti in una zona dove non giungeva la luce dei lampioni.
Il tempo faceva schifo e se ne stavano all’aperto?
E se fossero passati dei ragazzi? Li avrebbero visti così,
intenti a bere?
Non era normale!
Riuscivo ad ascoltare le loro risate, qualche “Fuck” misto a
qualche “Joder” e alzai gli occhi al cielo, dicendomi di avere pazienza.
Mi avvicinai a quella zona con in mano il cellulare che mi
faceva da lampada mentre cercavo di non farlo bagnare con la pioggia, giusto
per annunciare la mia presenza, e come effetto li feci spaventare.
“Oh,
it’s you, Alice! You scared us!” urlò
George, prima di ridere e riportarsi la bottiglia di birra verso la bocca.
“Yes.
I am sorry but I need to speak to Luca”
dissi, facendogli segno di avvinarsi.
Lui, con un’espressione stranita, si alzò di malavoglia e si
avvicinò.
I due tipi continuavano a guardarci così mi spostai a circa
una decina di metri di distanza , obbligandolo a seguirmi.
“Che succede?” chiese, impazientemente.
“Succede che ti ho detto di leggere i messaggi sul gruppo e
evidentemente non lo hai fatto!”.
“Ho la batteria scarica...”.
“Ma allora vai in camera e trovi una soluzione, pensi che sia
deficiente se ti ho detto di leggerli? La riunione sta avendo luogo ora e
Saverio ci ha detto che non vuole che accettiamo di bere con gli inglesi e gli
spagnoli” spiegai rapidamente, immaginando già il direttore che spazientito ci
raggiungeva e scopriva il misfatto.
“E perché mai? Tu oggi stavi bevendo qualcosa con Javi e non
mi pare ti abbia fatto una paternale” replicò lui, con una faccia tosta che mi
diede ai nervi.
Avrei voluto tirargli un pugno dritto in faccia in modo da
demolirgli quel naso perfetto che si ritrovava, ma mi limitai a stringere il
pugno destro fino a dar diventare le nocche bianche.
“Tralasciando che non sono affari tuoi, io ho semplicemente
incontraro Javi ed ero nel mio tempo libero. Tu sei in servizio, hai una
riunione a cui partecipare e se Saverio ti vede così ti fa nero. E’ alcool, non
capisci? Non vuole che si dica in giro che beviamo quando il nostro dovere è
essere responsabile per i ragazzi...”.
“Il nostro, semmai”
mi corresse.
Era serio?
Cosa ci faceva quel pugno fermo, perché non agivo?
Ma soprattutto, perché non capiva di aver fatto una cazzata e
non agiva per porvi rimedio?
“Senti, magari non sarò la diretta responsabile dei ragazzi
ma lavoro anche io per la riuscita del viaggio. E quando perderai di vista il
prossimo, non osare venire a piangere da me, mi limiterò a svolgere il mio
lavoro e basta. Ah... Giusto per fartelo presente, al momento io sembro una
group leader e tu un ragazzino di tredici anni. Dirò a Saverio che non ti ho
trovato, fà quel che ti pare” sbottai, di sicuro rossissima in volto.
In una sola giornata quell’idiota era stato in grado di farmi
perdere il controllo ben due volte e non glielo potevo permettere.
Mi voltai, dandogli le spalle, e mi avviai di nuovo verso la
sala riunione a passo di marcia, senza badare alla pioggia che si faceva sempre
più insistente e mi stava facendo bagnare tutta.
“Alice, aspetta! Alice!”.
Continuai a camminare, arrivai all’edificio e mi bloccai
perché, uffa!, non avevo le chiavi di ingresso.
Battei un piede a terra per la frustrazione, decidendo di
inviare un messaggio per chiedere a qualcuno di venire ad aprire, ma in un
battibaleno mi ritrovai Luca di fronte, a sua volte con i capelli quasi
interamente bagnati e la maglia rossa dell’azienda con chiazze di pioggia.
“Ho detto ai ragazzi di non dire che ero con loro. Alice” mi
afferrò per le spalle e mi portò sotto una specie di portico alla nostra
destra, dove la pioggia non poteva colpirci ulterioremente, “Hai ragione. Hai
ragione su tutto, ho sbagliato. Io... oggi ero nervoso, avevo davvero bisogno
di una birra, tu non c’entri nulla”.
“Tu non hai il diritto di sparare sentenze su di me! Mi hai
fatto incazzare di brutto!”.
“Scusami. Mi sa che abbiamo dei caratteri simili, io tendo a
non voler dare ragione alla gente anche se sto di star sbagliando. Non volevo
fare la figura dell’idiota con i ragazzi... Tu sei dolcissima, mi hai avvertito
ed è ufficialmente la terza volta che mi aiuti. Stai tremando” aggiunse,
vedendo che quasi battevo i denti a causa del mix freddo, pioggia e semplice
maglione non molto pesante.
“E’ o-ok, ora rientro...”.
Si tolse lo zaino dalle spalle, lo aprì e ne estrasse una
felpa rossa dell’azienda fin troppo gigantesca per i miei gusti.
“Mettila, altrimenti ti ammali”.
“Cosa? No, ora invio un messaggio, ci aprono la porta...”.
“Non farti pregare. E dopo stasera meriti di essere
identificata come una group leader più che mai. Mi sa che il rosso ti dona”
disse, incoraggiante.
Decisi di non farmi abbindolare dalle sue parole, mi limitai
a prendere la felpa e ad indossarla, beneficiando subito della piacevole sensazione di calore che mi stava
donando.
“Voglio tu sappia che sono arrabbiata con te...”.
“Lo so”.
“E non ti aiuterò più”.
“Fai bene. Ora tocca a me aiutarti” mormorò, sorridendomi e
rivelando una dentura candida e perfetta. “Grazie. Non c’è bisogno che parli
con Saverio, mi giustifico io” sussurrò, prima di prendermi per un braccio e
trascinarmi di nuovo verso l’entrata dell’edificio. “Ma se vuoi dirgli la
verità, fai pure”.
“Io voglio solo stare tranquilla...”.
Luca mi guardò di sbieco e annuì debolmente, provando a
riparare entrambi dalla pioggia.
“Per quanto mi riguarda, quel treno ormai è partito”
sentenziò. “Oh, guarda! Nello, aprici e poi fila a letto!” urlò, rivolto a un
ragazzino dall’altra parte della porta che evidentemente cercava di sgaiattolare
da qualche altra parte.
Il cosiddetto Nello sbiancò e ci aprì la porta, intimorito.
“Luca, io...”.
“Fila a letto, Nello” gli intimò lui, perentorio.
“Sì, certo”.
Presi un bel respiro e mi passai una mano tra i capelli di
sicuro umidissimi e schifosi .
“Andiamo a questa riunione...” mormorai, ormai senza forze
sotto tutti i punti di vista.
“Sembri davvero una GL con la felpa rossa, Alice la Group Leader!”.
Mi voltai di scatto e lo guardai male mentre lui se la
rideva.
Chi si credeva di essere?
Prima mi trattava male e poi faceva l’amicone, come se nulla
fosse.
“Non mi abbindolerai, Luca” chiarii, seria più che mai.
Ovviamente, invece di avere una reazione normale, lui sorrise
di nuovo e mi fece l’occhiolino.
“Lo so. Questo è il bello!”.
*°*°*°
Buon pomeriggio a tutti :D
Come promesso eccomi qui con il nuovo capitolo!
Le cose iniziano a movimentarsi, no? Litigi, problemi,
questioni varie... Dopo solo tre giorni!
Ecco cosa succede quando si lavora quasi ventiquattro ore su
ventiquattro tutti insieme xD
Un grazie speciale va alla gentilissima Delia Bluetales per aver letto il capitolo e avermi fatto
notare degli errori, mi ha aiutato davvero tantissimo ad accelerare il processo
di pubblicazione <3
Se vi va fatemi sapere cosa ne pensate :D
A lunedì prossimo, poi ci sarà una pausa perché parto per
Praga <3
Un bacio,
milly.