1)
How to start again –again-.
“Nessuno
spettro ci assale in
travestimenti più svariati di quelli con cui si camuffa la
solitudine, e una
delle sue maschere più impenetrabili è
l'amore.”
Arthur Schnitzler
Il
ronzio dell’automobile in sottofondo, associato al rumore
della pioggia
incessante che batteva fuori ai finestrini, aveva avuto su di lui un
effetto
decisamente soporifero. Isa aveva chiuso gli occhi da un bel
po’ di tempo,
senza rendersi conto di essersi addormentato. Riaprendoli, ebbe bisogno
di una
manciata di secondi prima di realizzare. Sbatté le palpebre
un paio di volte,
guardandosi attorno, contemplando pigramente la figura di sua madre che
guidava. Dalla radio partiva soffusa in sottofondo una qualche musica
che ormai
apparteneva a decenni estinti, una sorta di ninna nanna cantata da tate
dai
capelli fluorescenti e dall’abbigliamento paillettato. Non
appena comprese la
situazione, sbuffò, incrociando le braccia e provando di
nuovo ad assopirsi. Decisamente
meglio dormire, d’altro canto, invece che pensare al motivo
di quel viaggio o
sorbirsi la nostalgia anni ’80 che impregnava i gusti
musicali di sua madre. Doveva
fare i conti, adesso, con quell’ennesimo nuovo inizio.
Non che avesse dovuto
lasciarsi molto alle
spalle: in classe, probabilmente, nemmeno si erano accorti della sua
assenza
quel giorno, se non qualche professore disperato nel non vedere
l’unica mano
alzata ad una qualsiasi domanda. No, davvero sentiva di non aver perso
nulla da
quel punto di vista. Il problema non era certo il non vedere
più le facce
inebetite dei suoi ex compagni.
Era
semplicemente…un tipo molto abitudinario.
Gli piaceva la sua routine, la sua visione della vita somigliava molto
di più
ad un’agenda da compilare che ad una tela vuota da dipingere.
Gli
piaceva il percorso che doveva fare dal piccolo appartamento in cui
viveva con
sua madre fino a scuola. Gli piacevano i profumi della panetteria e del
fioraio
di fronte. Gli piaceva anche la divisa del suo istituto, i doposcuola
già
dediti a fare di lui la matricola della più prestigiosa
università del paese, e
aveva imparato a memoria tutte le lettere dei cartelli che strillavano
il nome
del negozio a cui erano dedicati. Ricordava strade, volti, alberi e
cespugli.
Ricordava persone, poco importava il fatto che non voleva averci nulla
a che
fare. Aveva un modo di vivere ben definito. Per quale assurdo motivo
aveva
dovuto cambiarlo? Una forza esterna spaventosamente potente,
l’unica capace di
sradicarlo dalle sue adolescenziali convinzioni.
Sua
madre.
Una
psicologa piuttosto rinomata, che passava da uno studio
all’altro, frenetica ed
instancabile come la pallina di un flipper. Aveva prestato consulenza a
diverse
scuole e ospedali, e i suoi pazienti la contattavano giorno e notte
come se
fosse un genio della lampada a cui bastava una telefonata per esaudire
il
desiderio di una vita apparentemente tranquilla. La cosa che
più sorprendeva
Isa stesso era il fatto che quella donna sembrava essere immune allo
stress:
non importava fino a che ora dovesse essere presente in studio, quanti
pazienti
dovesse seguire, quante spese dovesse fare e quanti pranzi e cene
dovesse
organizzare, lei sembrava non sfiorire mai. Nei suoi
quarant’anni superati, era
bella più che mai, curata ma non eccessivamente agghindata.
I suoi numerosi
pretendenti l’avevano definita “una bellezza
naturale”, una donna da tenersi
accanto per l’eternità.
Era
uscita con pochissimi uomini, dopo la morte di suo padre. Aveva trovato
il
coraggio di riprovarci dopo molto, molto tempo…ma le sue
relazioni duravano al
massimo un paio di mesi. Tre, se l’allocco di turno era
abbastanza fortunato.
Nessuna storia durava abbastanza, perché le
priorità venivano chiarite sin dal
primo momento e finora a nessuno erano andate giù: il suo
lavoro e, ovviamente,
quell’adorabile quanto imbronciato adolescente seduto accanto
a lei.
Lo
stesso adolescente che pensò bene di sbuffare di nuovo, in
attesa che sua madre
si accorgesse di lui. Riusciva ad essere minaccioso, dal basso dei suoi
sedici
anni. Ma, ovviamente, la donna non colse affatto la nota roca, e si
limitò ad
abbassare il volume dello stereo, dando un’occhiata veloce al
suo bambino,
senza perdere troppo di vista la strada.
-Ti
sei svegliato, tesoro?
-O
sono il sonnambulo migliore del mondo o sì, mi sono
svegliato.
La
donna ridacchiò al sarcasmo del figlio. Nulla di nuovo,
nulla che non riuscisse
a gestire. Sfrecciando con l’auto sotto alla pioggia,
sembrava che nemmeno
quella negatività potesse intaccarla.
-Stando
al navigatore, siamo quasi arrivati. Ti piace qui?
Isa
finalmente si sollevò quel tanto che bastava da riuscire a
vedere il mondo
senza che fosse coperto a metà da un finestrino, non
dimenticandosi di
sbuffare, ovviamente.
Quello
che si presentava attraverso il vetro bagnato era…banale.
Una cittadina
semplice, quasi primitiva ai suoi occhi. Nulla di eclatante.
C’erano negozi,
sì…ma non i SUOI negozi. C’erano
strade, sì, ma lui non le aveva mai percorse.
C’erano alberi che non gli avevano mai dato ombra e
ristoranti in cui non aveva
mai mangiato.
Insomma…era
una città grigia e spenta. Come il suo umore.
-…che
posto noioso.
-Non
lasciarti influenzare dalla pioggia. Domani sarà molto
meglio!
-Dammi
una soddisfazione e odia qualcosa, di tanto in tanto.
Si
riaccasciò al suo posto, incrociando nuovamente le braccia,
con aria annoiata.
Continuò a guadare fuori al finestrino, certo, ma
sostanzialmente non vedeva nulla.
Iniziò
a riflettere, svogliatamente. Beh…di certo c’era
da abituarsi. In fin dei
conti, che sfida era? Ci era fin troppo abituato a quelle situazioni.
Non era
il primo, e forse nemmeno l’ultimo trasferimento temporaneo.
Semplicemente, la
prospettiva che non ne sarebbe scaturito nulla di incisivo non gli
andava.
Stava
giusto per chiedere quanto mancasse alla meta, ma sua madre, quasi
leggendogli
nel pensiero, iniziò a rallentare, fino a quando non si
fermò davanti ad un
cancelletto.
-Siamo
arrivati, tesoro.
Con
la pioggia non era facilissimo focalizzare, e i fari
dell’auto non aiutavano
molto. Isa cercò di assottigliare lo sguardo, per vedere
attraverso il vetro
sgombrato dall’acqua ad intermittenza dai tergicristalli una
villetta.
Se
non altro, sembrava apparentemente molto più grande
dell’appartamento che
avevano in città. Ma era davvero difficile dare un giudizio
con una visibilità
così limitata.
Slacciò
la cintura di sicurezza con un grosso, grossissimo respiro, come se
dovesse immedesimarsi
in un’impresa titanica. Altro non doveva fare che voltarsi,
afferrare
l’impermeabile dai sedili posteriori, infilarlo ed iniziare a
togliere qualche
valigia dal cofano. Ma iniziò già svogliatamente,
con una lentezza esasperante,
sotto alle esortazioni di sua madre che la pioggia proprio non riusciva
a
sopportarla.
-ISA,
sbrigati! E chiudi il cofano che si bagna tutto!
Obbedendo meccanicamente come un
soldatino, Isa afferrò
il suo trolley di un blu talmente scuro da confondersi con la notte
scrosciante.
Chiuse con un tonfo stizzito lo sportello posteriore della grande
utilitaria
grigia, e si avviò al cancelletto aperto da sua madre che
svelava un piccolo
giardino con una serie di mattonelle che ordinatamente andavano a
formare
l’ingresso verso la loro nuova dimora. Incespicò
un paio di volte, perché le
ruote del trolley non volevano saperne di collaborare; come lui, del
resto. “Ma
almeno io mi sforzo.” Pensò già
irritato dalla situazione in generale, zuppo
fino alle scarpe nonostante l’impermeabile. Cavolo, sembrava
che il mondo
intero si rifiutasse di dargli una mano. Lo pensava seriamente, almeno
finché
la mano gentile di sua madre, armata di sorrisi e pazienza, non
tirò il
bagaglio che come per magia cominciò a scivolare sul
sentiero di mattonelle
come se fosse un binario a lui predisposto. Per qualche motivo, la cosa
lo
stizzì ancora di più.
Ma
anche lui non poté rimanere immune a quel piccolo nodo allo
stomaco che si
formò quando sua madre sfilò dalla tasca la
chiave che avrebbe aperto la cornice
di quella che sarebbe stata, almeno per un po’, la sua nuova
vita. Quei
“clack-clack” che si sentirono dalla toppa
suonavano pieni di promesse, come un
conto alla rovescia a Capodanno. Un corridoio buio si aprì
davanti a loro,
lasciando intravedere solo piccole sagome di mobilia sparsa. Sua madre
tastò un
po’ il muro all’ingresso, alla ricerca
dell’interruttore, dopo aver chiuso per
bene la porta. L’espressione di Isa divenne un po’
meno…grigia nell’attesa.
Attesa
che venne pienamente ripagata.
…con
la delusione.
Nonostante
la sensazione ovattata di entrare in un posto accogliente ed asciutto
dopo aver
affrontato il diluvio universale…Isa rimase molto
scoraggiato da ciò che vide.
Di certo non si aspettava la fabbrica di cioccolato di Wonka o delle
pareti
robotiche, però…anche quella, ai suoi occhi,
appariva come una casa
insignificante. Non sapeva nemmeno lui che cosa potesse stupirlo, a
dire il
vero. Forse le pareti avrebbero dovuto cambiare colore ad ogni battito
di
ciglia, o i pavimenti avrebbero dovuto muoversi come nelle case
stregate dei
luna-park. Fatto stava che quella casa in perfetto stile occidentale
non gli
diceva proprio nulla.
Sua
madre, al contrario, sembrava estasiata. Si guardava attorno con
l’aria di una
bambina in un negozio di caramelle, piacevolmente compiaciuta da quanto
i suoi
occhi vedevano. Entrambi si sfilarono gli impermeabili, appoggiandolo
all’appendiabiti che la ditta di traslochi aveva gentilmente
posizionato per
loro all’ingresso.
-Guarda
tesoro, non è un amore?- cinguettò la donna, a
mani giunte, ammirando ogni
centimetro delle pareti fresche di vernice color crema.
–È tutto così…ben
definito! Mi aspettavo una catapecchia ed invece guarda qui, non ci
hanno
mentito. Tutto ristrutturato!
Ad
Isa poco importava dello stato interno della casa. Commentava ogni
singola
notizia di sua madre con un “uh-uh” disinteressato.
Non che non fosse
d’accordo: la casa era davvero graziosa, sebbene loro fossero
ancora al primo
piano, già si vedeva l’atmosfera vibrante ed
accogliente. Ma per Isa c’era solo
un unico, immenso, imperdonabile difetto.
Era
una bella casa…ma non era “sua”.
Iniziava
a sentirsi davvero troppo distante da tutto quello che lo circondava.
Seguì sua
madre al piano superiore nel tour delle altre stanze, piene di
scatoloni che
contenevano ciò che poteva essere trasportato della loro
vita. Almeno, una cosa
lo consolò: come da lui richiesto, la sua stanza, la
più ampia della casa, era
stata dipinta di un blu notte, cupo e spento.
Come
piaceva a lui.
Entrambi
ritornarono al piano di sotto, avviandosi verso la cucina,
l’unica parte della
casa ancora non analizzata. Accese lui la luce, ascoltando le infinite
chiacchiere di sua madre che ormai sembrava parlare da sola. Con
sospiro di
sollievo di entrambi, il piano cottura era già stato
installato ed
insomma…quella casa era pronta per essere vissuta. Perfetta.
Prevedibile. Nulla
di nuovo, nulla di…
-…strano,
e questo cos’è?
Isa
venne destato dai suoi pensieri piatti dal tono confuso di sua madre,
che stava
in piedi davanti al tavolo della cucina, analizzando qualcosa che la
sua snella
ed alta figura riusciva comunque a coprire. Con quel po’ di
curiosità che
ancora gli rimaneva, si avvicinò a lei per capire che cosa
fosse in grado di
renderla così perplessa.
Quando
anche davanti ai suoi occhi si mostrò l’oggetto
del mistero, non poté evitare
un’occhiata vagamente dubbiosa.
Un
cesto. Non troppo grande. Di vimini.
Coperto
da un lenzuolino rosso, a scacchi, e decorato sul manico da tanti
piccoli
fiorellini colorati.
Un
classico cestino stucchevole, di quelli che si usavano per il pic-nic.
Ok,
non era poi un grande mistero.
-…Mamma,
è solo un cesto di benvenuto.
-Uh,
dici?- commentò la donna, iniziando a togliere il
lenzuolino, con entusiasmo
infantile. –Questo significa che ci sarà del cibo.
Dio sia lodato, e chi aveva
voglia di pensare alla cena? Speriamo ci siano dei muffin…
Isa
sbuffò per l’ennesima volta in quella serata,
accomodandosi sulla sedia più
vicina per osservare tutti gli oggetti che sua madre sfilava dal cesto,
leggendo
i rispettivi bigliettini.
-Guarda
qui! Pane alle noci! “Un sentito e caloroso omaggio dal
nostro fornaio!”. Non
ne mangiavo da una vita! Bel colpo, signor fornaio. E, oh, guarda qui!
Saponette! Guarda Isa! Sono a forma di stelline!
-Wow.
Non so come avrei fatto senza. - fu tutto quello che Isa
riuscì a dire, con la
voce più monotona che riuscisse ad inscenare. Sua madre si
limitò a scuotere la
testa, continuando con interesse a svuotare la cesta. Isa decise che
nemmeno
avrebbe degnato di uno sguardo quel rituale così stupido.
-Bene,
abbiamo anche…dentifricio, dei campioncini di profumo,
sì ma i muffin…? E…wow,
salviettine imbevute, questo si è proprio
sprecato…e…e questa?
Un
breve silenzio seguì la domanda finale, costringendo Isa a
sollevare gli occhi
e smetterla di fingere di trovare più interessante il legno
del tavolo.
Tra
le mani sottili e pallide di sua madre troneggiava una scatola laccata
di un
rosso acceso, con degli ideogrammi dorati come decorazione. Ecco,
quella era
un’ ottima candidata per la sua attenzione. Al punto che
–colpo di scena- Isa
si sentì in dovere di fare una domanda.
-…che
cos’è?
-…qualcosa
mi dice che non sono muffin.
-Mamma,
piantala ed apri quella dannata scatola!
La
donna lanciò un’occhiata tutt’altro che
entusiasta al figlio, stavolta.
Assottigliò lo sguardo, mentre gli angoli della bocca
calarono verso il basso
in un’espressione severa. Una scorsa che fece gelare il
sangue di Isa,
facendogli aprire un po’ di più gli occhi e tacere
all’istante. Molto bene.
Quando sua madre si accertò di avergli instillato un
po’ di terrore, tornò a
sorridere docilmente ed effettivamente aprì la scatola,
rivelandone il
contenuto.
-…ma
sono…omamori?
Si
trattava proprio di quelli, in effetti, o almeno così
sembrava. Dei piccoli
amuleti di stoffa colorata, con su scritti gli utilizzi e le
destinazioni. Isa
spalancò gli occhi, sbattendo un paio di volte le palpebre.
-…chi
diavolo manda degli omamori di questi tempi?
-Non
lo so, ma guarda che carini! Contro la sfortuna, contro la
negatività…tieni,
Isa, questo te lo regalo…addirittura uno contro il mal di
pancia da viaggio!
-Non
riesco ad immaginare qualcosa di più stupido. Tu ci credi
davvero?
-No,
ma è comunque un pensiero dolce.- Continuò,
frugando ancora nella scatola
apparentemente vuota. Nel mentre, una specie di busta da lettere
scivolò sul
tavolo, con un tonfo secco. Isa la afferrò con moderata
curiosità, cercando il
mittente. Non diceva nulla, se non un laconico “Dal
Santuario”.
-…c’è
un santuario in questo buco dimenticato da dio?- chiese dopo una
risatina di
scherno, rigirandola tra le mani quasi…incredulo.
-Non
lo so ma aprila, sono curiosa.
Quasi
controvoglia, Isa strappò la parte superiore della busta,
rivelando il foglio
di carta di riso accuratamente piegato. Lo aprì, e dopo
un’occhiata ammirata
alla calligrafia elegante, iniziò a leggere ad alta voce.
-“Siamo lieti di avervi nella nostra
comunità. Abbiamo esorcizzato con cura la vostra casa. Non
avrete problemi, ma
vi preghiamo di accettare questi amuleti come simbolo di amicizia
augurandoci
che svolgano il loro compito. Non esitate a rivolgervi a noi nel caso
qualche
entità vi rechi fastidi.”.
Un
lungo silenzio calò nella cucina, mentre Isa abbassava
lentamente la lettera
per cercare gli occhi di sua madre, entrambi
decisamente…increduli.
A
lungo cercarono una risposta nelle rispettive espressioni.
E
poi… scoppiarono a ridere, dopo aver provato inutilmente a
trattenersi.
Quasi
istericamente, per una lunga manciata di secondi, prima che Isa si
riprendesse
per commentare quanto appena testimoniato.
-Ma
questi sono seri?- domandò il ragazzo, dopo essersi calmato,
nonostante qualche
risolino sporadico interrompesse le sue parole.
-C-coraggio
tesoro, non è educato. Hanno…comunque fatto un
gesto…ppffft…gentile.
-Ma
dai, se sei la prima che è scoppiata a ridere!
-Hai
ragione, hai ragione…- concluse sua madre, asciugandosi una
lacrima per le
troppe convulsioni divertite. -…ma…ma per come la
vedo io, le buone intenzioni
vanno sempre apprezzate. Oh! C’è
dell’altro.- La donna si interruppe, pescando
dal fondo della cesta un altro oggetto. Una specie di busta da lettere,
con
l’incarto dal discutibile color rosa pesca. Senza aspettare
oltre, la donna la
strappò per rivelarne l’ovvio contenuto: un
foglietto piegato in due parti. Isa
iniziò ad interessarsi alla vicenda, domandandosi cosa altro
ci fosse da dover
leggere in quella cesta che sembrava essere il sogno proibito di ogni
appassionato del kitsch. Sua madre iniziò a leggere
sottovoce.
-“Siete cordialmente invitati alla Festa delle
Ortensie, orgoglio della nostra cittadina. Le tradizioni di questa
festa
risalgono al…”
-Una
sagra di paese.- Isa sentenziò di botto, accasciandosi in
preda alla delusione.
Nemmeno quella sembrava essere una sorpresa interessante.
-Beh...ci
andremo.
-CHE
COSA?
La
donna sospirò, interrompendo quel flusso di parole poco
lusinghiere che stava
per riversarsi dalla bocca del figlio. Incrociò le braccia,
alzando un
sopracciglio.
-Esatto.
È ciò che faremo.
-Mamma,
ma io…
-Niente
“Mamma ma io”. Siamo qui da dieci minuti e
già sembra che ti sia fatto nemico
l’intero paese. Potresti provarci stavolta, almeno!
.-Provare
a far cosa, esattamente?.- domandò Isa, tra i denti,
irritato da dove quella
conversazione sembrava voler andare. Sua madre sembrò quasi
esasperata nel
dover affrontare il discorso.
-Provare
a farti degli amici, ad esempio…
-E
a che servirebbe?- sbottò il ragazzo, scattando in piedi ed
allargando le
braccia, in una quasi eclatante dimostrazione di sdegno. -Neanche il
tempo di
imparare i loro nomi che dovrei di nuovo fare le valigie!
A
quello sua madre non trovò immediate obiezioni. Bang. Isa
aveva saputo colpire
nel punto debole della donna. Nei suoi sensi di colpa, che
l’avevano fatta
ammutolire davanti al figlio, costringendola a tornare a frugare nella
scatola
come appiglio per non ritornare sull’argomento. Isa si
sedette di nuovo,
lentamente, senza dire nulla, ma a viso basso, quasi vergognoso di
quanto
appena detto. Certo, non doveva essere facile nemmeno per lei dover
piantare in
continuazione radici per poi sradicarle dolorosamente ogni volta che il
lavoro
lo richiedeva. Non era stato affatto delicato, e riconosceva il suo
errore
sebbene una punta di egoismo continuasse a dirgli che aveva tutte le
ragioni
del mondo per sentirsi indispettito. In ogni caso…Temeva di
aver rovinato
l’umore di sua madre, a quel punto. Ma, con suo grande
sollievo, scoprì di non
avere questo potere. Poco dopo la vide reggere, tra le dita, con un
sorrisone
immenso, qualcosa di diverso da un omamori. Una specie
di…lungo campanellino da
appendere alla porta, legato a delle sculturine in legno a forma di
falci di
luna e stelle intervallate da perline di vetro blu e argento. Isa non
poté fare
a meno di guardarlo ammirato, sotto agli occhi inteneriti di sua madre.
-Questo
sembra fatto apposta per te. Leggi il biglietto.
Isa
lo aveva notato solo in quel momento, davanti a sé. Un
piccolo cartoncino
scribacchiato. La calligrafia era diversa, stavolta. Allungata, eppure
molto
stretta negli spazi. Tuttavia, leggibile. Lo avvicinò al
viso, decifrando cosa
c’era scritto.
“Questo
scaccia via i brutti sogni,
funziona, te lo garantisco! L’ho fatto io! Se suona il
campanellino rallegrati,
c’è uno spirito benevolo con te!”
-…non
giustifico un’affermazione nel genere se non fatta da un
bambino di cinque
anni.
-Ma
è comunque una cosa molto dolce. –
commentò la donna, tenendo ancora appeso tra
le dita quel piccolo manufatto, aspettandosi che il figlio lo
prendesse. -…non
vuoi dargli una chance?
Dietro
a quella frase Isa ci vide un mucchio di significati che lo costrinsero
ad
alzare gli occhi al cielo, non senza però sorridere
sommessamente.
-Sei
un’ingenua, lo sai?- domandò con un lievissimo
tono scherzoso, prendendo
l’oggetto con delicatezza. -… lo provo stanotte.
-Speriamo
funzioni, allora!
Dopo
quell’ultimo commento, Isa si alzò dal tavolo,
scuotendo la testa con un
sospiro divertito. Si avviò verso la porta della cucina, con
l’intento di
raggiungere la sua stanza.
-Stai
attenta agli spiriti maligni!
Con
quell’ultima, affettuosa presa in giro, lasciò sua
madre in compagnia di
amuleti e saponette a forma di stella.
Ma
niente muffin.
Era
strano camminare per quei corridoi, così poco familiari. Isa
sentiva forte la
sgradevole sensazione di non essere a casa sua, come se fosse ospite di
sé
stesso. Beh…quella peculiarità la sentiva spesso,
a voler essere sinceri. Da un
tempo non ben precisato, sentiva di non provare quasi emozioni.
…ma
a dirla tutta, sapeva indicare un momento preciso in cui il suo cuore
aveva
smesso di parlargli.
Il
momento in cui i suoi occhi si posarono su quella bara, stanchi per
aver pianto
troppo a lungo, increduli nel pensare che una stupida cassa di legno
potesse
contenere il pilastro più forte di tutta la sua infanzia.
Il
momento in cui sentiva parole, veniva stretto da abbracci, ma lui
riceveva
tutto passivamente, senza dire una parola, perché era troppo
impegnato a capire
se quanto stesse accadendo fosse la realtà o un elaborato
scherzo di cattivo
gusto.
Il
momento in cui la quotidianità gli sbatteva in faccia che
non avrebbe più
dovuto fare gare al mattino a chi occupava prima il bagno, non aveva
più
bisogno di nascondere il gelato perché qualcuno quasi per
dispetto glielo
avrebbe rubato, non doveva più tenere pulita la bicicletta
perché non aveva più
nessuno con cui andare a pedalare la domenica, non doveva
più barattare i suoi
buoni voti con uscite strategiche o regalini studiati.
Non
poteva più chiedere consigli, sfogarsi perché a
scuola lo prendevano in giro
perché la maestra lo lodava troppo, non poteva
più piangere o ridere tra quelle
braccia forti.
Non
aveva più qualcuno con cui condividere la gioia di una nuova
casa.
Non
la voleva una nuova vita. L’ennesima. Ogni tanto.
Gli
bastava riavere la sua vecchia. L’unica.
Per sempre.
Sentì
una morsa fastidiosa allo stomaco, quindi decise di non pensarci e di
portare
il campanellino e la sua testa assonnata nella sua camera, che
trovò dopo un
paio di tentativi.
La
cosa buffa era che pur muovendosi, quel dannato coso non faceva rumore.
Era
davvero qualcosa di…peculiare. Isa osservò nella
penombra il campanellino fatto
apposta per lui da qualche specie di prete pelato buontempone, e si
domandò in
base a quale legge fisica qualcosa del genere non dovesse far rumore se
agitato. Lo scosse violentemente, sperando di ottenere una reazione, ma
nulla. Non
tintinnava affatto. Forse si era rotto. Magari qualche pezzo
all’interno era
bloccato dalla ruggine, o semplicemente caduto via. Sembrava comunque
essere un
oggettino di recente manifattura, quindi ogni ipotesi crollava davanti
all’evidenza. Tuttavia dubitava altamente che uno stupido
campanellino si
rifiutasse di suonare in assenza di ectoplasmi benefattori,
così scrollò via
ogni dubbio con una stanca alzata di spalle e aprì la porta
di camera sua.
Il
buio lo agitava. Non distinguere bene i contorni era per lui
inaccettabile, non
poter avere il controllo di ciò che aveva davanti lo rendeva
nervoso. Le linee
sbiadite, le domande senza risposta, le forme nella
penombra…cercò
freneticamente l’interruttore, ma quando le sue dita
sfiorarono il pulsante
freddo, pur premendolo non accadde nulla. Fantastico. Alzò
gli occhi,
focalizzando a malapena, con una tenue luce che cercava di dargli una
mano. Non
se ne era nemmeno accorto, ma aveva smesso di piovere…e ora
le nuvole, quasi a
volerlo calmare, svelavano timide un faro argenteo nel cielo.
La
luna era una delle poche cose che riusciva a richiamare
l’attenzione di Isa,
non importava quante volte la guardasse. Una replica serale di uno show
perfetto, un segnale che dava il via all’appuntamento
quotidiano col suo
riepilogo della giornata. Preferiva non dire nulla riguardo a questa
sua
passione –non che avesse qualcuno con cui parlarne-, un
po’ perché non sapeva
spiegarsi da cosa provenisse quell’attrazione, un
po’ perché erano state
sprecate fin troppe parole sul satellite in questione, e sembrare
l’ennesimo,
melenso poeta maledetto lo avrebbe costretto ad umiliarsi da solo, e
già
bastavano le critiche degli altri, sebbene non spietate come quelle che
faceva
a sé stesso . Così si limitava semplicemente ad
ammirarla ogni notte,
aspettandola, quasi sentisse il bisogno di salutarla ogni sera. Lo
faceva stare
bene. Così silente nella notte, così scrutatrice
ed estranea al mondo…
Un
punto fermo, una certezza.
La
quiete iniziò a rasserenarlo ed a calmare quella tremenda
sensazione di vuoto
allo stomaco. Se chiudeva gli occhi, sentiva solo il suo respiro,
così preferì
concentrarsi su questo per un po’, pur di distendere i nervi.
Come gli aveva insegnato lui.
Non c’era neppure
un filo di vento, non una
foglia frusciava tra gli alberi pigri del giardino.
Quell’attimo nella sua
stanza era divenuto pura pace, ed intendeva godersela appieno.
Il
suo letto era lì, placido e paziente, ad attenderlo per il
suo riposo. Gli occhi
di Isa, ormai abituati al buio, notarono che non aveva le lenzuola.
Avrebbe
dovuto probabilmente frugare negli scatoloni, ma non ne aveva davvero
voglia, e
per una volta il suo bisogno disperato di disciplina ed ordine poteva
tacere di
fronte alla stanchezza che l’ennesima giornata di cambiamenti
aveva portato.
Si
rannicchiò sul materasso freddo, con tutti i vestiti
addosso, per quanto ancora
umidi, scrutando le sagome sfumate degli oggetti che troneggiavano nel
silenzio, come le promesse dell’indomani che ora non aveva
voglia di
affrontare.
Sbatté
le palpebre un paio di volte, appoggiandosi su un lato e stringendosi a
sé
stesso, sentendo un lieve tintinnio mentre sprofondava nel
sonno…
Note
sul primo capitolo.
Io
preferisco il pane alle noci ai Muffin.
Si
è capito che sarà una storia che avrà
a che fare coi fantasmi? Sì? Bene.
Non
ho più nessuno a cui dedicare queste storie, anche se questa
inizialmente era
stata scritta per una persona, maaaaaaa
ora…quindi…niente.
Ho
anche io i miei fantasmi.
Se
vi siete annoiati, la colpa è solo mia. Vi chiedo scusa.