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Autore: _MartyK_    04/08/2017    5 recensioni
Myung Jae è una ragazzina nordcoreana di sedici anni che abita vicino al confine tra Corea del Nord e Corea del Sud. Stanca della sua vita misera e monotona, una notte decide di fare l'impossibile, sfidando il caso e rischiando la vita: oltrepassare il confine per andare al sud.
Jimin è sudcoreano, ha diciassette anni appena compiuti e una passione sfrenata per la danza classica e quella moderna.
Il loro sarà un amore travolgente: riusciranno a superare le difficoltà o avranno la meglio le barriere politiche?
Dal capitolo 1:
Non era brava ad immaginare, anche perchè non conosceva il vero significato del termine. Tutto ciò che poteva immaginare ce l'aveva a pochi chilometri da casa e non poteva accedervi per uno stupido capriccio lungo più di sessant'anni.
[...]
Stava per addormentarsi se il fischio del treno non l'avesse fatta sobbalzare per lo spavento.
Sentì le rotaie muoversi sotto i suoi piedi e vide la ferrovia, le panchine e gli alberi circostanti muoversi all'indietro rispetto a lei e capì.
Il suo sogno era appena iniziato.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Min Yoongi/ Suga, Nuovo personaggio, Park Jimin, Un po' tutti
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Nel 1953, in seguito ad un lungo conflitto che costituì uno degli episodi più importanti della Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, avvenne la separazione delle due Coree, che in precedenza erano lo stesso popolo con i medesimi usi e costumi: questo è ciò che si legge sui libri di storia normali, ma non in quello di Myung Jae.

Fin da piccola era cresciuta in un luogo in cui guardare la Tv significava sorbirsi diciotto ore di telegiornali e parate militari in onore del ''grande governatore Kim Jong-Un'', uscire fuori all'aria aperta significava guardarsi intorno e capire di essere circondati da propaganda a favore del governatore e del paese - che, a detta sua, era la buona Corea - e andare a scuola significava camminare a braccetto con la propria compagna di banco, fare attenzione a compiere gli stessi identici passi dell'altra e indossare la divisa praticamente sempre.
Non a caso non aveva altri vestiti all'infuori dell'uniforme scolastica, sempre se si escludevano i pigiami per la notte.
I suoi genitori erano molto poveri e la sua casa era un formicaio minuscolo e freddo: appena varcata la soglia della porticina d'ingresso ci si ritrovava davanti alla versione microscopica di un salottino, con due cuscini imbottiti e neri posti alle estremità di un tavolino in vetro, un mobiletto in legno che conteneva qualche cucchiaio d'argento ossidato. La cucina era la stanza messa peggio, aveva un forno così piccolo che sembrava un microonde, alcune credenze e un paio di fornelli che non vedeva accesi da quando aveva sei anni. Il bagno non si menziona.

La sua stanza non era messa meglio: doveva condividerla con la sorella più grande Min Seo e all'interno ospitava un letto a una piazza e mezzo e un armadietto per quei pochi ricambi di cui poteva disporre.
Non sapeva cosa significava giocare con le bambole, dal momento che non ne aveva mai avuta una; non sapeva neanche cosa significava guardare gli anime o leggere i manga, lì in quel paesino sperduto vicino a Pyongyang c'erano solo palazzine disabitate e strade piene di crepe e fosse.
Pensava che le strade di una campagna sarebbero state più lisce e nuove.

A scuola non le insegnavano molto, dicevano che il necessario era saper leggere e scrivere, per la storia bastava guardare la Tv e la geografia non serviva a un tubo dato che la Nord Corea era il paese migliore al mondo, a differenza di quegli 'sporchi alleati degli americani', meglio conosciuti come sudcoreani. La matematica? Due più due fa quattro, non si può discutere. Lingue straniere? A cosa servono se quando nasci in posto del genere ci rimarrai fino a perdere i denti, i capelli e l'anima?

La verità era che viveva nell'ipocrisia più totale, a partire dalla famiglia. Ogni volta che verso le sette di sera tornava da scuola - un poco prima dell'ora del coprifuoco - si affacciava dalla porta e scorgeva il viso in lacrime della madre con in mano alcuni fogli bianchi.
Notava che erano scritti, ma non poteva permettersi di avvicinarsi per leggere meglio.

- Mamma, cosa dicono quei fogli?- chiedeva spesso.
La donna sgranava gli occhi come fosse un cerbiatto impaurito, si puliva gli occhietti scuri alla meno peggio e strofinava le mani sul grembiule blu, un gesto che ormai aveva identificato come imbarazzo.

- Niente tesoro, solo alcune informazioni su... papà. Gli aumenteranno la paga- dopodichè scoppiava nuovamente in lacrime, per lei era davvero difficile trattenerle.
Myung storceva il naso e inclinava di lato la testa, come a chiederle se fosse un pianto di gioia o altro. Ma da come si disperava non era affatto gioia, no, quei fogli dovevano parlare d'altro, di cose molto più gravi.
Anche perchè ogni fottuto mese che passava riceveva sempre la stessa risposta quando invece il loro stato economico rimaneva sempre lo stesso.

Min Seo era sempre impegnata con lo studio, sognava di diventare una dottoressa da grande e per questo motivo spendeva la maggior parte del suo tempo sui libri, alla ricerca della verità.
Ma non era una cosa semplice, dal momento che il loro governatore aveva modificato le informazioni a suo piacimento e aveva eliminato tutto ciò che non gli andava bene. Nonostante ciò, la ragazza amava imparare cose nuove e il fatto che a scuola le insegnassero cose false lo prendeva come una sfida divina, un segnale dalla Divina Provvidenza, come se Dio volesse metterla alla prova.
E forse Myung Jae era stata influenzata parecchio dalla sorella se quella sera di un freddo mercoledì di fine gennaio si era trovata a rivelarle un desiderio.
Un folle desiderio.





- Unnie ho il disperato bisogno di confessarti una cosa- esordì levando la parte superiore della divisa e posandola con cura sul materasso.
Si sedette su di esso e produsse uno strano cigolio assordante. Non se ne curò e infilò il pigiama bianco a bordi azzurri.

- Forza spara! Scommetto che ne hai combinata una delle tue- mormorò affranta la più grande, sbuffando sonoramente e affiancando la più giovane.

- No, non è questo...- Myung non sapeva come dirglielo, insomma, sapeva di potersi fidare di Min Seo ma non fino a che punto.
Se l'avesse detto a mamma come minimo avrebbe dovuto sorbirsi i suoi scleri mentre se si trattava di papà sarebbe volato qualche schiaffo. Incominciò a torturarsi le mani, trovando inspiegabilmente interessanti le sue unghie mangiucchiate e le pellicine col sangue incrostato.

- Devo smetterla di mangiarmi le unghie- borbottò ridacchiando tra sè. Min Seo la sentì ugualmente e la prese per le spalle, scuotendola un po'.
Non ce la faceva più ad aspettare e probabilmente non era nemmeno qualcosa di così eclantante.

- Myung smettila di girarci intorno. Vuoi dirmi per piacere cosa affligge quella testolina bacata che ti ritrovi o faccio la spia e dico tutto a papà?- la minacciò.
La ragazza la guardò dritto negli occhi e serrò la mascella, dopotutto non era così semplice.

- Voglio andarmene- bofonchiò poco dopo.

- In che senso?-

- Voglio andarmene di qui- affermò cocciuta.
Evidentemente Min Seo non aveva capito cosa intendesse, perchè era scoppiata a ridere ed era partita in quarta con il suo elenco di città nordcoreane.

- Beh, abitiamo a una trentina di chilometri dalla capitale, ma se vuoi ci sono Kimchaek, Chongjin, Hamhung e...- la più piccola la bloccò con un tono di voce improvvisamente serio.

- Voglio andarmene da qui. Da questo paese arretrato, dalla Corea del Nord come devo dirtelo?! Non conosco lingue all'infuori del coreano, sai meglio di me che si rifiutano di insegnarci la lingua degli ingrati americani- quasi urlò dal nervosismo.
E ad esso si stava aggiungendo un pizzico di rabbia.

- Gli americani non sono ingrati, avremmo dovuto essere loro alleati e non sarebbe successo niente-

- E' questo il punto! Vivo in un mare di bugie, ti pare che sono costretta a mentire sul mio nome se uno sconosciuto prova a parlarmi? Ti sembra giusto che devo addormentarmi con il suono dei piagnistei di mamma a causa dei debiti e delle bollette non pagate?- a quel punto Min Seo la fermò.

- E tu come fai a saperlo?- chiese sorpresa. Myung Jae roteò gli occhi al cielo e scrollò le spalle come se fosse ovvio.

- Unnie ho sedici anni ormai, di certe cose dovrei pure accorgermi. Ma non è questo che voglio dire: la vera domanda è perchè sono nata in una condizione del genere? Dio mi odia? Insomma, se proprio dovevo nascere gialla e con gli occhi piccoli potevo starmene in Cina o lì sotto. Kim dice che la nostra Corea è quella buona ma in realtà quelli che vivono come si deve sono loro... perchè continuare a mentire?-

La sorella quasi si commosse per il discorso dell'altra, non credeva fosse così matura. Le accarezzò piano i capelli castano scuro e in seguito le massaggiò la schiena, come ad incoraggiarla.

- Ci dicono queste idiozie per sedarci, in un certo senso. Temono che prima o poi scoppi una rivolta popolare, per questo ci danno informazioni false. Quindi vuoi proprio andartene?- chiese di nuovo. Myung Jae annuì.

- E come farai? Non ci sono mezzi di trasporto e l'unico treno che porta al confine è a più di un'ora di cammino. Inoltre le guardie sono accorte e non appena ti scopriranno, ti riporteranno a casa e ti sorbirai una doppia paternale, quella loro e quella di mamma e papà- spiegò Min Seo, sospirando sconfitta.

- Myung, seriamente, non fare cose di cui potresti pentirti. Sai che di solito sono una persona molto positiva che crede in Dio e nel caso, ma questa volta sono realista: non puoi fuggire. Ti troveranno, se non subito lo faranno col passare del tempo. Sarà lo stesso Kim a dare il via alle ricerche e rischierai sul serio la vita, quell'uomo potrebbe mandarti a morte- continuò ma si bloccò non appena vide ridere la sorella.

- Myung Jae è una cosa seria!- urlò allora, scuotendola per le spalle.
Aveva gli occhi lucidi, una lacrima solcò il suo pallido viso. Il sorriso della ragazza scemò alla vista della riga della lacrima e s'incupì.

- Piccola, io... ti voglio bene. Ti voglio tanto bene e a differenza degli altri non ti dico bugie, voglio solo che mi ascolti. Solo questo- la maggiore si addolcì e le diede un buffetto al naso.

- Ma io...-

- Ti prometto che ce ne andremo. Non da questa Corea, è impossibile credimi, ma ce ne andremo in qualche altra città. E poi la skyline di Pyongyang non è così male!- ridacchiò lei. Myung non ricambiò il sorriso e abbassò lo sguardo, triste all'improvviso.

- Che ti succede?-

- Nulla... speranze. Vane speranze. E' proprio vero che la fortuna è una dea bendata, mi chiedo se mi capiterà mai qualcosa di bello nella vita- mormorò con un sospiro.
Min Seo non rispose, semplicemente si alzò dal letto e andò a spegnere l'unica lucina che illuminava quella stanza, nel frattempo l'altra si sistemò meglio sotto le coperte e dette le spalle alla più grande. Sentì l'altra parte del letto abbassarsi un po' e capì che era ritornata a farle compagnia, in qualche modo le spuntò un sorrisetto sul viso.
L'amava che non c'erano parole per descriverlo.

- Myung promettimi una cosa...- fece quella a bassa voce, per evitare di svegliare i loro genitori.
Le pareti di casa erano così poco spesse che temeva fossero fatte di cartapesta.

- Cosa?-

- Non fare cazzate-

Myung Jae s'irrigidì, se era arrivata ad usare le parolacce la faccenda era seria. Tuttavia non rispose a quella raccomandazione, non disse nè sì nè no, fece finta di essersi addormentata e chiuse gli occhi in modo forzato, cercando di immaginare qualcosa e di prendere sonno.
Non era brava ad immaginare, anche perchè non conosceva il vero significato del termine.

Tutto ciò che poteva immaginare ce l'aveva a pochi chilometri da casa e non poteva accedervi per uno stupido capriccio lungo più di sessant'anni.































* * *


































































Erano passate circa sei o sette ore da quando Min Seo le aveva detto quelle parole e Myung Jae non aveva ancora chiuso occhio, o meglio, ci aveva provato ma quello non significava dormire.
In realtà era ansiosa. Ansiosa per ciò che la sua mente malata stava progettando.

Strizzò un occhio e con l'altro scorse un sottile raggio solare dalla finestra, segno che di lì a poco la mattina sarebbe giunta. Un'altra delle solite mattinate uggiose e monotone, si disse affranta.
E invece no, aggiunse una vocina proveniente dai meandri più scuri e lontani del suo cervello.
Si tirò su a sedere in modo brusco, tant'è che ne risentì poco dopo. La testa girava e fu costretta a massaggiarsi le tempie se non voleva crollare e svenire.
Mise un piede fuori dal letto e poi l'altro, facendo attenzione a non far emettere alcun cigolio sospetto a quel letto vecchio e consumato che si ritrovava. Cercò di non lamentarsi del pavimento freddo sotto alle piante dei suoi piedi e si diresse verso l'armadietto di fronte al letto, aprendo le ante e rovistando fra i pigiami e le canottiere estive.
Decise di indossare la divisa, prese le zaino e sostituì i libri con tutto ciò che aveva per quanto riguardava l'abbigliamento. Mise le scarpe e si fermò davanti al volto stanco della sorella: fu lì che ebbe un attimo di sconforto.
Stava scappando per davvero?

Scosse la testa e le baciò velocemente la fronte. Andò in cucina e dallo stipetto immediatamente sopra ai fornelli tirò fuori un sacchetto con dei biscotti, lo prese e aprì la porta di casa, lasciando le chiavi all'interno dell'abitazione e richiudendo subito dopo.
Sì, stava scappando per davvero.





Il sole era ormai alto nel cielo e si sentivano gli uccellini che cinguettavano, il tempo era comunque umido e freddo, l'aria entrava dritta nei polmoni ed era in grado di penetrare le ossa e congelarle, oppure era lei troppo freddolosa.
Stava camminando da quasi venti minuti e sentiva già male alle gambe, non era per niente abituata alle lunghe passeggiate estive di cui aveva sentito parlare. I suoi compagni di scuola avevano molta fantasia e se ne inventavano di tutti i colori, eppure sapeva che c'era un fondo di verità.
Insomma, le passeggiate al chiaro di luna esistono sul serio, non le aveva mai fatte ma esistevano.
In testa aveva un velo grigio sporco, sembrava musulmana. Aveva semplicemente paura di essere beccata, Min Seo non aveva tutti i torti, e indossare il velo per non farsi riconoscere in volto la trovava un'ottima strategia.

Le strade erano vuote e rischiava di inciampare in qualche buca ogni due secondi, inoltre non sapeva dove stava andando esattamente, il senso d'orientamento non era nel suo DNA. Aveva preso da mamma, decisamente.
Si ricordava che una volta la sorella aveva preso quello stesso treno e aveva detto che bisognava andare sempre nella direzione dell'orizzonte, non ci si poteva sbagliare. E così fece per parecchio tempo, a un certo punto si stancò persino di controllare l'ora sull'orologio perchè sembrava che il tempo si fosse fermato e il dolore ai piedi aumentasse progressivamente.
Questo fino a quando in lontananza vide in modo sfocato una stazione, la stazione.
Improvvisamente sembrò che il dolore fosse sparito e incominciò a correre senza un motivo preciso, di solito quel treno non partiva spesso. Eppure sentì di essere in ritardo, di perderlo per sempre.

Corse fino ad avere l'affanno, fino a quando non si fecero sentire i crampi alle caviglie. I talloni diventavano pesanti ad ogni passo in più che compiva. L'orizzonte diventava sempre più vicino, così come la stazione.
Riuscì a varcare la soglia dell'ingresso e attraversò un piccolo corridoio buio, pieno di scritte sui muri a favore - ovviamente - di Kim Jong-Un.
Quando si affacciò dall'altro lato della stazione tirò un sospiro di sollievo: per la prima volta si sentiva a casa. Era come se fosse nata per viaggiare, e a detta di Min Seo era molto bello e rilassante.
Osservò il cartellone con le varie fermate e si soffermò a quella che le interessava: il treno sarebbe partito alle sette e mezza e, ironia della sorte, erano giusto giusto le sette e ventisei.

Si affrettò a salire su un vagone e guardò a destra e a sinistra, notando che era completamente vuoto. Si chiese se quel fottuto treno fosse ancora in funzione o se Kim l'avesse disabilitato apposta. Si sedette su un sedile e si sorresse la testa poggiando il gomito al margine del finestrone della cabina che aveva scelto.
Chiuse gli occhi, varie immagini colpirono la sua mente sottoforma di flash: la sua compagna di banco e i suoi finti sorrisi, Min Seo e i suoi racconti fiabeschi, i rari sorrisi di mamma e papà.
Stava per addormentarsi se il fischio del treno non l'avesse fatta sobbalzare per lo spavento. Sentì le rotaie muoversi sotto i suoi piedi e vide la ferrovia, le panchine e gli alberi circostanti muoversi all'indietro rispetto a lei e capì.

Il suo sogno era appena iniziato.


***
Annyeong popolo! Ebbene, sono ritornata dopo quasi due settimane con la nuova fanfic, non ce la facevo ad aspettare ancora per molto xD Innanzitutto, come avrete notato dal titolo, l'intera storia è ispirata alla canzone dei nostri sette bambini prodigi - mi ha ispirata così tanto che quando dovevo decidere come intitolarla mi son detta 'perchè no? Spring Day, dopotutto è a causa loro se ho partorito quest'ennesimo sclero. Non preoccupatevi se in questo capitolo non c'è ancora nessuno a parte la nostra nuova protagonista, uno dei ragazzi (chissà chi) si farà vivo nel prossimo ;) spero moltissimo che vi piaccia perchè ci tengo molto e ci ho buttato davvero 'sangue, sudore e lacrime' per scriverla, prima di farlo mi sono informata parecchio sulla Nord Corea, il regime e i legami che hanno ancora con i sudcoreani. Mi sono informata anche sul confine più pericoloso del mondo (sì sì, proprio così), quindi diciamo che è una cosa seria ahah XD che dire, ringrazio in anticipo chi leggerà, chi recensirà e chi deciderà di seguire questa storia :)  scappo via che è meglio, bacioniiiii    _MartyK_ <3
   
 
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