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Autore: Poeta di Arras    06/08/2017    0 recensioni
Un nuovo viaggio introspettivo nell'anima di una persona che sta per affrontare il suo ultimo viaggio: quello che la porterà al dolce morire dell'eutanasia.
Imbrigliata nella malattia, quest'anima si vede privare della libertà, persino quella di scegliere di non poterne più a causa di una società fortemente moralista che proprio non riesce a mettersi nei suo panni.
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Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ricordava ogni singolo sorso d’aria di quella vita straniante.
La sua casa era la sua prigione, il suo stesso corpo era una prigione: la natura v’avea ingabbiato un’anima protesa al volo, legandola con una pesante ancora ai dolori terreni.
Ricordava ogni cosa di quel lungo viaggio passato a non muoversi, i minuti, i secondi come lame affilate a trafiggere il suo cuore.
Coi tubi che l’imbrigliavano, passava le giornata a guardare la sua vita scorrere sul monitor che teneva traccia di ogni sussulto del suo cuore, mentre la gente ch’avea intorno l’aiutava cercando di nascondere una lacrima.
Non riusciva neppure a parlare, mentre tutti gli altri vivevano la propria vita: potevano correre, mangiare, amare; quando dormiva sognava le sue gambe muoversi in prati fioriti, le sue mani sfiorare il viso della persona cui avrebbe dato il suo amore, la sua bocca poter finalmente pronunciare “ti voglio bene”.
Quando si svegliava, invece, riscopriva la sua anima imbrigliata nella scorza dura d’ameba ch’era il suo corpo, incapace… persino di provare dolore.
Ricordava la lunga processione di uomini e di donne che s’arrogavano il diritto di decidere in vece sua quel destino di prigionia che nessuno, al suo posto, avrebbe sopportato.
“Il buon Dio ci dà soltanto quello che possiamo sopportare” soleva ripetere un di loro; “La vita s’accetta così come viene: il dolore si sopporta per amore di Dio” s’accodava una voce; “Rinunciare alla vita è peccato mortale” concludeva un’altra. E tutti stavano in piedi davanti al suo letto di dolore con la consapevolezza che, concluso in breve tempo quel pellegrinaggio convenzionale, avrebbero ripreso la loro vita dimentichi del suo dramma.
Ricordava la domanda più atroce che si sentiva porre ogni giorno come un tormento volto ad ingabbiare anche la mente per volgerla a volontà altrui: “Non temi forse l’inferno? È quello ciò che t’aspetta se ti lasci morire!”
No, non temeva l’inferno: aveva avuto modo di rendersi conto che il suo inferno lo stava attraversando in terra senza potersi muovere da quel letto, senza poter decidere delle sue azioni, della sua vita. Non poteva esistere inferno più crudele di quello e ormai aveva smesso anche di temerlo.
Così aveva deciso di morire, affrontando un lungo viaggio con la paura crescente, con il dolore dei suoi cari, materializzato in lacrime che non poteva asciugare; avrebbe dato qualsiasi cosa per poter dire anche una sola parola di conforto!
Quando furono a destinazione, chiese delle buona musica e sulle note che amava s’addormentò piano piano.
Quando riaprì gli occhi scoprì che non v’era inferno, ma iniziò a credere nel paradiso; quel paradiso che adesso, finalmente, poteva chiamare libertà. 
   
 
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