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Autore: Ormhaxan    07/08/2017    3 recensioni
Gabrielle Nakovrar ha diciotto anni quando, seguendo le orme di suo padre e sua nonna prima di lei, entra a far parte della Bræthanir, la Fratellanza, gruppo di spietati e famigerati soldati al servizio dei sovrani di Yvjór, il regno della Primavera.
Ben presto, però, si renderà conto che dietro la gloriosa facciata fatta di palazzi maestosi, balli in maschera e sorrisi accondiscendenti si nasconde qualcosa di più profondo, oscuri segreti custoditi da secoli e la volontà di annientare coloro che dovrebbe essere protetti.
Nel regno a Nord di Ynjór, estremo baluardo che ancora resiste al dominio dei sovrani della Primavera, gli ultimi discendenti dei Sýrin, i mutaforma che un tempo popolavano ogni angolo dell'isola di Vøkandar, si stanno riunendo, insieme ad altri ribelli, sotto il comando di una combattente misteriosa che si fa chiamare Narmana.
E sarà proprio Narmana e il suo esercito che Gabrielle, adesso conosciuta con il nome di Nako, dovrà cercare di combattere quando la regina Lorhanna e il suo fratello bastardo, Lucien, ordineranno alla Fratellanza di marciare verso Nord in una missione che sembra essere un suicidio preannunciato.
Il vero nemico avrà realmente le sembianze di un lupo albino?
Genere: Angst, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Era risaputo che, nei momenti antecedenti e successivi alla morte, le persone perdessero il controllo dei propri orifizi.
Nelle piazze, poco prima di una condanna a morte, l’aria era sempre satura di sudore, sangue rappreso e, quando l’ascia del boia fendeva l’aria e veniva calata sul pallido corpo del prigioniero, a questi si aggiungeva il nauseabondo odore di escrementi e morte.
Gabrielle si domandò se anche quel giorno sarebbe stato uno come tanti, se anche quella morte, seppur di rilievo e pregna di vendetta, sarebbe stata una come tante; dopo tutto, Sý o meno Serghej era pur sempre un uomo, un essere mortale come tutti loro.
La sentenza di morte sarebbe stata passata nella sala del trono, davanti agli occhi algidi di Lorhanna, della famiglia reale e dei nobili più fidati; era stata la stessa sovrana a prendere quella decisione, una scelta che andava ben oltre il suo senso di vendetta e che avrebbe reso ogni possibile tentativo da parte dei ribelli di salvare uno dei loro più validi comandanti difficile se non impossibile — il palazzo non era mai stato espugnato, era sorvegliato a vista da centinaia di uomini e, i più superstiziosi dicevano, era protetto dall’antica magia che scorreva profonda nella terra.
Gabrielle, insieme a una dozzina di suoi confratelli, aveva avuto il compito di sorvegliare il perimetro dell’immensa sala del trono, tenere d’occhio tutti i presenti affinché nulla accadesse alla regina; il suo sguardo attento continuava a vagare senza sosta in ogni angolo della lunga e maestosa sala dalle volte a botte dalle quali scendevano eleganti, attraverso lucernai siti sul soffitto a cassettoni, fasci di calda luce.
Ogni cosa sembrava essere in ordine: i nobili presenti chiacchieravano sommessamente tra loro, ogni guardia era armata e al suo posto e persino Lucien, che se ne stava in piedi accanto allo scranno riservato alla sorella, non sembrava preoccupato.

Lorhanna fece il suo ingresso poco dopo, seguita da cinque delle sue guardie personali e due delle sue dame di compagnia; indossava un abito blu scuro ricamato d’argento e i capelli erano stati raccolti elegantemente, abbelliti con fermagli anch’essi argentati.
Il suo viso di porcellana era privo di qualsiasi emozione, pareva quello di una statua marmorea e il suo passo era leggero e sicuro allo stesso tempo.
In un fruscio di sete e fogge, la sovrana della Primavera si accomodò sullo scranno che occupava oramai da quasi quindici anni e concesse un cenno del capo alla nobiltà che l’aveva salutata con profondi inchini e riverenze.

«Tutto è pronto, Maestà.» disse Lucien, incontrando lo sguardo gemello della sovrana.
«Eccellente. Fate entrare il ribelle condannato a morte, il mostro che ha ucciso tanti di noi e che oggi, finalmente, conoscerà la sua fine.»


Un cenno del capo da parte di Lucien e, come per incanto, le pesanti porte dall’altra parte della sala del trono si spalancarono: Serghej era in catene, veniva trascinato tra spintoni e strattoni da tre soldati e due confratelli della Fratellanza; era stato meticolosamente lavato e i suoi abiti logori erano stati cambiati con una tunica di lino bianco — la stessa che veniva concessa a ogni condannato a morte.
Il suo viso era, se possibile, ancora più pallido e profonde occhiaie violacee contornavano gli occhi fissi sul pavimento dalle venature ombrate. La sua mente sembrava lontana, persa in chissà quale ricordo o probabilmente già sconfitta davanti alla morte che, poco lontana, l’attendeva sotto forma di boia reale.
Gabrielle, dietro la sua maschera di cartapesta, la stessa indossata da ogni membro della Fratellenza durante le occasioni pubbliche per non essere riconosciuti, continuava a far saettare il suo sguardo color dell’ametista dal uomo-orso alla regina, pronta a scattare in qualsiasi momento e utilizzare i coltelli che, ben nascosti sotto la redingote dai colori vermigli, aveva fatto affilare quella mattina.

«Ultime parole?» chiese Lucien, troneggiando sul Sý messo in ginocchio a pochi passi dallo scranno reale dal quale lo guardava come un felino con la sua preda agonizzante.
Serghej ghignò, sfigurando il suo volto squadrato in una smorfia carica ripugnanza, guardandolo con un disprezzo e un odio così profondo che Gabrielle rabbrividì.
Se quello sguardo avesse potuto uccidere, tutti loro sarebbero stati già morti, Lucien per primo; nessuno, mai, aveva guardato un altro uomo con così tanta cattiveria, con un così grande senso di vendetta, di morte, di rabbia.
«Alla fine, tutto verrà svelato, le colpe espiate e i crimini vendicati. — ruggì Serghej, spostando la sua attenzione da Lucien a Lorhanna — Le menzogne, alla fine, diverranno verità e allora saprete, Principessa, che tutto ciò che siete è solo un’illusione.»
Lo sguardo dell’uomo si spostò nuovamente, correndo da Lorhanna a Gabrielle: quest’ultima sussultò appena quando, per un fugace istante, Serghej le sorrise quasi affettuosamente e nuovamente la sua mente tornò alla conversazione avuta con lui nelle celle, al modo in cui l’aveva chiamata Ariadne, alla disperazione contenuta in quel nome.

Un calcio tanto inaspettato quanto ben assestato all’altezza dei reni fece piegare l’uomo-orso in avanti, verso il ceppo pronto a ricevere la sua testa; uno dei Grigi, fattosi avanti dalla penombra, gli offrì misericordioso una benda scura per gli occhi ma l’albino la rifiutò senza pensarci un secondo. Avrebbe affrontato il suo destino da uomo, avrebbe guardato in faccia la morte e l’avrebbe accolta come una vecchia amica.
Gabrielle deglutì nervosamente, ben conscia di star per perdere nuovamente il suo passato, la possibilità di conoscere davvero quella famiglia — sua nonna, suo padre — che le aveva dato il nome e poco altro: sua nonna, la sua Nana, era morta quando lei aveva quattro anni e suo padre, per quanto fosse stato amorevole, era sempre stato un’ombra sfuggente durante i quindici anni che avevano trascorso insieme.
Nessuno di loro le aveva mai dato risposte, tantomeno lo aveva fatto sua madre, e ora che quell’uomo stava per essere ucciso…
«Lunga vita alla Regina!» urlò Serghej, squarciando il silenzio con la sua foce rauca ma potente un attimo prima che la lama affilata calasse su di lui, prima della fine.

Fu un taglio netto, preciso, che recise la pallida testa in un solo colpo.
Sangue sgorgò copioso dal collo, andando ad imbrattare il pavimento, mentre il corpo senza vita si contorceva negli ultimi spasmi vitali prima di diventare un ammasso di muscoli flosci e pietrificarsi per sempre.
Il boia, un uomo alto e possente dagli occhi neri come la notte, prese per i capelli la testa che aveva raggiunto i gradini che separavano la navata dal trono e l’alzò in aria affinché tutti potessero ammirarla: gli occhi di Serghej erano chiusi, i suoi capelli tirati lasciavano in bella mostra i lineamenti del suo viso, un viso che in quel momento sembrava uno tra tanti.
Lorhanna sorrise, compiaciuta e soddisfatta, gioendo al pensiero che l’uomo in parte responsabile per la prematura morte del suo amato era anch’esso morto violentemente: la sua vendetta era solo all’inizio, pensò mentre i nobili iniziavano a farfugliare parole di compiacimento e approvazione; il suo piano era ancora ben lontano dall’essere concluso, molti ancora aspettavano una giusta sentenza di morte e tra questi ci sarebbe stato anche l’ultimo tra i traditori, il suo subdolo cugino Lucas.

«Giustizia è stata fatta! — esclamò trionfante, alzandosi dal trono e guardando i suoi sudditi, suo fratello Lucien e il suo fidato amico Damien, rispettivamente alla sua destra e alla sua sinistra — Il Nord sanguinerà ancora e presto, i ribelli saranno schiacciati una volta per tutte e il nostro prospero regno presto sarà il solo dominio su questa nostra bella e fertile isola.»
Applausi si levarono da ogni angolo della sala e Lorhanna si concesse un sorriso prima di continuare: «Domani sera, per festeggiare la morte di questo sporco traditore, darò un ballo in maschera degno della corte della Primavera ed esigo che tutti voi vi partecipiate.»

Quando, poco dopo, il corpo mozzato dell’uomo chiamato Serghej fu portato via per essere bruciato in un luogo segreto e la sala pulita dal sangue che nei minuti successivi alla morte si era raggrumato sul pavimento di marmo, la sovrana della Primavera si alzò dallo scranno dei suoi avi e, seguita da Damien e dal resto del suo seguito, abbandonò la sala silenziosa com’era entrata quasi un’ora prima.

 


**


 
Il porto era differente da qualsiasi altro rione di Yvjóstafir. L’aria, in quel luogo, era un connubio di spezie, cibi di strada, voci dagli accenti marcati, brezza marina e molto altro.
Gli edifici, dei palazzi senza fondamenta che, per struttura, ricordavano dei giunchi al vento, erano di colore sgargiante, con tetti a punta e comignoli zigzaganti da cui uscivano i fumi delle cucine o delle sale comuni.
Strutturati a schiera in modo da sembrare quasi un unico blocco orizzontale, si estendevano a perdita d’occhio lungo tutto il bacino naturale in cui, placide, erano state ormeggiati vascelli e barche dalle forme e vele più disparate; ogni edificio, inoltre, attirava in modo differente turisti e marinai appena sbarcati in cerca di riposo, una pinta di birra al malto o una donna con cui riscaldare una branda.
Molti, tra la nobiltà e non solo, sceglievano di visitare questa zona della città in incognito, spesso vestendosi con abiti poveri o, ancora, coprendo i loro visi con maschere che celassero la loro identità, il tutto per un momento di libertà, per poter dimenticare le loro origini e fingere di essere qualcuno che non erano e non sarebbero mai stati.

Gabrielle si grattò per l’ennesima volta il braccio, contenendo una smorfia a causa del prurito provocato del tessuto grezzo di quel vestito che era stata costretta ad indossare, mentre con passo svelto si muoveva tra i viottoli e i pontili del Vanéch, come veniva chiamata nella lingua comune quella zona, al fianco di Bjorn e Lysette.
Ancora una volta, Lucien aveva conferito loro una delicata missione, un compito da svolgere nel massimo silenzio e senza dare nell’occhio: per questo e solo per questo motivo si erano addentrati, vestiti come dei venditori qualsiasi e ben attenti a nascondere la loro natura di soldati — non soldati qualsiasi, ma confratelli della Bræthanir — a chiunque incrociasse anche solo per sbaglio il loro cammino.


Il Martagon era, come al solito, gremito di gente e su ogni panca erano sedute almeno quattro persone: quasi tutti erano intenti a sorseggiare della birra, mentre solo alcuni si stavano intrattenendo con ragazze provenienti dal bordello poco vicino e quasi nessuno dava ascolto ai due violinisti che, nell’angolo opposto all’entrata, stavano suonando una canzone dai toni allegri e dal ritmo piuttosto veloce.

«Buona sera, giovani ragazzi! — fu la voce del locandiere, un tipo tracagnotto, con lunghi baffi e quasi del tutto pelato ad accoglierli non appena varcarono la soglia — Come posso aiutarvi? Se siete forestieri sappiate che ho a disposizione le ultime due camere per questa sera, mentre se siete in cerca di svago posso offrirvi un’ottima birra dal doppio malto e lo stufato migliore di tutta la Capitale.»
«Tre birre doppio malto e un tavolo appartato andranno più che bene, grazie.»
L’uomo annuì, solo in parte soddisfatto dalla risposta data da Bjorn e, allungata una mano, indicò un tavolino rotondo sito in un angolo in penombra vicino ad una finestra che dava su di un vicolo laterale piuttosto fatiscente.
«Una delle mie ragazze vi porterà subito le vostre birre.»


«Sei sicuro che arriverà?» chiese Lysette, scostandosi una ciocca di capelli castani dagli occhi di giada.  
Non avevano certezze che il loro informatore sarebbe giunto, che fosse arrivato sano e salvo in porto, tantomeno erano stati informati delle notizie in suo possesso.
Cinque giorni prima, insieme al traditore Lucas Dvjorst si erano dileguate la nave di cui era da sempre capitano, l’Ortensia, e altre cinque navi che componevano la Flotta Ambrata al suo comando — tra queste, due erano comandate da temibili Roshkar, dei corsari al servizio della corona provenienti rispettivamente da Yvést, il continente dell’Ovest, e Nés, l’arcipelago delle isole dell’Est.
«Lucien ha detto di aspettarlo alla locanda, di attendere l’alba se necessario e di tenere gli occhi e le orecchie ben aperti: non si sa mai chi potrebbe essere seduto al tuo tavolo vicino e origliare le tue conversazioni.»

L’informatore arrivò due ore dopo, zuppo a causa della pioggia battente che aveva iniziato a cadere e ingrossare i canali della città, e per Gabrielle e gli altri non fu difficile riconoscerlo: aveva una cicatrice piuttosto profonda sul mento, occhi freddi come il ghiaccio e capelli arruffati come quelli di un cane randagio.
Anche lui riconobbe immediatamente gli altri tre e, senza dare troppo nell’occhio, si accomodò al loro tavolo, proprio accanto a Nako.
«Sei in ritardo!» lo rimproverò Bjorn, che non era mai stato bravo nelle attese.
«Credi sia facile attraccare in un porto come questo senza essere visto e accertarsi di non essere seguito? — chiese retoricamente — No, non lo è affatto.»
«Bræstven ci ha detto che hai delle informazioni importanti: è così?»
«È stato lo stesso Zhérion ad ingaggiami affinché tenessi d’occhio quel traditore di suo cugino, la puttana che si porta dietro e quei bastardi della sua ciurma. — l’uomo dal nome sconosciuto si passò la lingua sui denti gialli e mezzi marci, resi ancor più gialli e disgustosi dal tabacco che stava masticando da quando era entrato nella locanda — Alcuni dei miei uomini hanno seguito la loro rotta, tenendo le navi a debita distanza fino a quando è stato necessario, allontanandosi solo quando il loro porto finale è stato chiaro a tutti.»
«Allora avanti, dicci quello che sai e facciamola finita.»
L’uomo sputò in un pentolino di stagno ai suoi piedi, liberandosi degli ultimi residui di tabacco e con calma rispose: «Hnmar, la città più a Est del regno di Ynjór, tra i freddi fiordi e le insenature nascoste dove, dicono, i ribelli stanno costruendo una flotta.»
«Nulla di nuovo, lo avevamo sospettato da tempo. — rispose asciutto Bjorn — Che altro hai per noi? Perché, lo ammetto, queste informazioni valgono ben poco l’oro della nostra amata sovrana.»
«Abbiamo una spia tra di loro, una figura di cui non sospetteranno nulla e che, a tempo debito, ci darà tutte le informazioni da noi richieste.»
«Come sappiamo che questa spia ci dirà il vero e che non sia una contromossa del nemico?» chiese Gabrielle, prendendo la parola per la prima volta.
«Perché abbiamo la sua mulatta, una bastarda senza valore che, per la nostra spia, è il più prezioso dei tesori. Se mai dovrà venir meno al nostro patto o mentirci sgozzeremo la sua ragazzina senza pensarci due volte.»
«Presumo, dunque, che tu non sia riuscito a mettere le mani sul bastardo della puttana Roshkar e del suo nobile amante.»
«La troia è più scaltra di quanto si pensi, ha fatto perdere le tracce del moccioso ancor prima che i piani fossero svelati e da quel che ne sappiamo potrebbe essere ovunque.»
«Un vero peccato. — sussurrò Lysette, tirando fuori un sacchetto contenente delle monete — Quaranta pezzi d’argento, giusto?»
L’uomo annuì, impaziente di avere la sua ricompensa e andare a riscaldarsi in qualche luogo lontano da quel porcile, magari in uno dei bordelli dei quartieri più benestanti.
«Te ne daremo venti per il momento. — annunciò Bjorn, mettendo subito a tacere qualsiasi tentativo di protesta dell’altro — Non sappiamo se quello che hai detto sia vero, il nostro Bræstven non si fida di voi e neanche noi ci fidiamo, quindi ti daremo il resto quando la tua spia inizierà ad inviare le informazioni che ci servono.»
L’uomo digrignò i denti, per nulla contento di quel cambio di accordi dell’ultimo minuto, ma non cercò di protestare o patteggiare: non era così sciocco da rischiare di mettersi contro il bastardo di Primavera o i suoi più fidati sicari — se avesse fatto anche un solo errore, lo sapeva, sarebbe finito sgozzato in un vicolo chissà dove.
«Sta bene: venti adesso e venti quando avrò altre notizie. — allungò una mano, facendo del suo meglio per celare il suo disappunto — Datemi i miei soldi, adesso e chiudiamola qua.»
Bjorn fece un cenno di assenso in direzione di Lysette la quale, senza attendere oltre, porse il sacchetto di velluto all’altro che, senza dire una parola, si alzò dal suo posto e si incamminò verso l’uscita della locanda.

«Ti fidi di lui?» chiese Gabrielle, lo sguardo fisso sulla porta dalla quale il tipo era sparito.
«Neanche un po’, ma è la nostra unica scelta e fino a quando Lucien lo riterrà valido allora anche io tenterò di credere, almeno in parte, alle parole che escono dalla sua fetida bocca.»
«Lysette, prendi quattro uomini fidati e mettili giorno e notte alle calcagna di quel tizio. — ordinò Bjorn alla mora —Dì loro di venire da me nel caso di sospetti e di non abbassare mai la guardia: i tempi sono quanto mai oscuri e nessuno è degno di una fiducia incondizionata.»
 
 

**
 


Il sole era caldo e splendente quella mattina, si rifletteva sulla superficie limpida e calma che era l’azzurro mare come fosse uno specchio e le uniche nuvole presenti erano quelle grigiastre che si sprigionavano dal sigarillo avvolto in un cilindro di foglie di tabacco scuro che pendeva dalle sue labbra carnose.
Scrutava l’orizzonte, le affusolate mani ben salde sulla base lignea della polena intagliata con maestria sulla prua della Acanto, la nave che da oramai cinque anni era diventata la sua casa.
Avevano preso il largo da quasi una settimana, stando ben attenti ad evitare la costa, ogni anfratto o isolotto in cui avrebbero potuto riconoscerli e dare l’allarme e ora che erano quasi giunti a destinazione le preoccupazioni avevano iniziato ad aumentare — erano così vicini, così vicini alla realizzazione dei loro piani, a rivedere i loro amici.
Nessuno, fino a pochi mesi fa, si era aspettato un tale risvolto degli eventi o di ritrovarsi in quella situazione, di ritornare ad essere ciò che, nel profondo, erano sempre stati: pirati e fuorilegge.
Pirati, certo, ma sempre leali fino alla fine verso colui al quale dovevano tutto: la loro fortuna, la loro vita, la loro felicità.

Morgan Idelle era rinata per merito del suo commodoro, dell’uomo che l’aveva riscattata e, notate immediatamente le sue enormi potenzialità, le aveva donato una ciurma e un perdono reale che l’aveva trasformata in una Roshkar, un corsaro, e permesso di girare in lungo e in largo i quattro mari senza timore di nulla, sebbene la sua razza la chiamasse traditrice e voltafaccia.
Lei, Deya, tutti loro dovevano la propria vita a Lucas Dvjorst, al capitano dell’Ortensia che, in quel momento, stava aspettando impaziente di ricongiungersi con la sua Flotta Ambrata.
Lasciare la capitale era stato arduo compito, depistare e seminare i cani che la regina Lorhanna aveva sguinzagliato al loro inseguimento era stato ancora più arduo, ma adesso le coste di Hnmar erano praticamente a poche leghe quella fatica sembrava un ricordo lontano.

«Terra! Terra in vista a Est-Nord-Est!»
Morgan alzò lo sguardo verso la giovane vedetta appollaiata sull’albero di trinchetto, seguendo con attenzione il punto in cui indicava il suo braccio proteso in avanti: ancora non riusciva a vedere il lembo di terra ma, lo sapeva, nel giro di pochi minuti tutto l’equipaggio sarebbe stato in grado di vederlo.
«Isabella, passami il cannocchiale! — ordinò al suo quartiermastro, una donna di due anni più grande di lei dalla pelle scura e folti ricci tenuti legati con un fermaglio colorato — Eccola, ci siamo!»
Morgan sorrise trionfante mentre scrutava i fiordi, quel panorama così affascinante e al tempo stesso temibile capace di farle battere il cuore all’impazzata, quel regno misterioso di cui aveva tanto sentito parlare e di cui aveva sempre sognato: Ynjór, il regno dell’Inverno, era a portata di mano e un nuovo capitolo della loro avventura stava iniziando.



 

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