Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Segui la storia  |       
Autore: Lady I H V E Byron    09/08/2017    0 recensioni
"Ci sono cose, nella vita, cui non puoi fare niente. Come la morte di una persona cara. Lo so, per i primi tempi fa male, senti un enorme vuoto dentro e non vuoi più vedere nessuno. E' un dolore che a stento puoi sopportare, ti fa quasi impazzire. Sei consapevole che non torneranno più, che non puoi fare niente per riportarli in vita e questo ti fa soffrire sempre di più. Alla fine scopri... che tutto quello che puoi fare per loro... è vivere."
------------------------------------------------
Daniela Savoia è una ragazza in lutto per un ragazzo che lei amava; lo shock la porta al mutismo e alla depressione, tanto da rifiutare qualsiasi contatto con il mondo esterno. Nemmeno nell'ospedale psichiatrico dove è stata inviata riescono a trovare una soluzione: Daniela si chiude sempre più in se stessa, senza mangiare, continuamente tormentata da incubi sul ragazzo defunto. L'alternativa, seppur a prima vista assurda, si rivela una vacanza in una SPA, in cui, con sorpresa, incontra le ultime persone che si aspettava di incontrare...
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bill Kaulitz, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Threesome, Triangolo
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Note dell'autrice: vi spiego come funziona la storia; è introspettivo, è vero, ma ci saranno quattro P(oint) o(f) V(iew), ovvero le vicende viste con gli occhi dei quattro protagonisti.

-----------------------------------------

Passò quasi una settimana e ancora niente. Mi ostinavo a non parlare. Mi rifiutavo ancora di mangiare.
Nemmeno le pasticche antidepressive furono di aiuto. Non del tutto. Mi davano solo l’impressione di stare bene. Ma il dolore tornava, più forte di prima.
Avevo un’infermiera personale, una ragazza di trent’anni, Chiara, bionda, con i capelli sempre raccolti in una treccia bassa, che aveva il solo compito di portarmi i pasti (che non consumavo mai) e le pillole, e annotare i miei comportamenti, giorno dopo giorno. Ogni tanto si fermava per parlarmi. Io la osservavo senza dire una parola, ascoltando tutto quello che mi diceva.
Per il resto, vivevo la vita da perfetta reclusa, sempre chiusa nella mia stanza: mi avevano permesso di portare qualche oggetto da casa mia, oltre che dei vestiti. Ero sempre attaccata o al televisore, guardando film o serie TV, giocando ai videogiochi, o al computer, dove, ogni tanto, mi collegavo a Internet. Ero circondata da dischi, e non solo quelli dei Tokio Hotel. Avevo portato con me anche la raccolta completa degli album dei Queen, un altro gruppo che adoro tutt’ora. Li ascoltavo in un vecchio lettore CD, appartenuto a mia madre, che poi aveva volentieri ceduto a me, con le cuffie.
Nessuno si lamentava, come invece succedeva in casa. Ai miei non piaceva la mia vita da “reclusa”, sempre a fare avanti e indietro dalla Playstation al mio computer. All’ospedale, nessuno diceva niente, per fortuna.
Forse Chiara avrebbe tanto voluto lamentarsi, ma non voleva per timore di peggiorare la mia situazione.
Ah, inoltre, mi diedero un piccolo quaderno, il mio primo giorno in ospedale. Un diario per raccogliere i miei pensieri, o raccontare cosa avevo passato quel giorno, i miei sogni o roba simile. Un altro strumento per sorvegliarmi, insomma. Sapevo che Chiara lo leggeva e poi riportava tutto ai medici.
 
L’ambiente è gradevole e tranquillo.
 
Avevo scritto nel diario, al termine del primo giorno.
 
Le persone sono davvero gentili e gradevoli. Quando avevo udito “ospedale psichiatrico” per la prima volta, immaginavo un luogo simile a quello dove avevano portato Tasso. Ma c’è anche da dire che sono passati almeno quattro secoli, da allora, e le cose sono cambiate. Le persone “spostate” non vengono più trattate come animali, ma come persone che possono essere ancora salvate. Un po’ come fossero giocattoli che possono essere ancora aggiustati, se i bambini vogliono giocarci ancora. Chiara è una ragazza perbene, ma ormai ha assunto il ruolo di avvoltoio, invece della semplice “sorvegliante”. Sembra aspettarsi anche una piccola parola da me. Se non fosse così simpatica, direi che è la copia di mio padre. Ma perché nessuno mi vuole lasciare in pace? Voglio solo essere lasciata sola.
 
Avevano provato ad inviarmi altri psicologi, ma io continuavo a non parlare. Avevo deciso di restare muta.
Se volevano che dicessi qualcosa di diverso da “sì” o “no”, lo scrivevo.
Ma parlare no. Mi rifiutavo.
Vedere la foto di Gabriele in camera mia… non so dire se mi dava la forza di continuare a vivere o continuare a soffrire. Non passava momento senza che io lo pensassi. Rileggevo spesso anche i messaggi che mi inviava su WhatApp, rimuginando su eventi mai avvenuti, provando profondi rimpianti.
La osservavo ogni giorno, nel frattempo ascoltando “Elysa”. Secondo quanto aveva rivelato Bill Kaulitz, parlava di una persona che non c’era più. Era perfetta per accompagnare la memoria di Gabriele o di mia zia.
Chiara aveva provato a staccarla dal muro, un giorno. Fu l’unico momento in cui non mi comportai da vegetale: ringhiando come un animale selvaggio, le ero saltata addosso, mordendole la mano, e le braccia, per costringerla a ridarmi la foto. Mi calmai, rivedendo l’immagine di Gabriele. Non mi furono iniettati sedativi.
Sapevo che lo aveva fatto per il mio bene, per non vedermi più in quello stato, ma io non potevo vivere senza avere ancora qualcosa di Gabriele.
Anche i Tokio Hotel mi tenevano in vita.
Passare un giorno senza ascoltare nemmeno una loro canzone? Da escludere a priori.
Ma non passavo le giornate solo a lessarmi il cervello di fronte a degli schermi. C’erano anche i libri.
Mi è sempre piaciuto leggere, fin da quando ero piccola.
Nell’ospedale avevano anche una libreria: ordinavo spesso libri che mettevo sulla mia scrivania. Leggevo prevalentemente classici, la mia passione. Non ero e non sono tutt’ora un’amante dei libri moderni, sebbene li leggessi ugualmente.
E il mio libro preferito era ed è Jane Eyre. Per me la storia d’amore più bella del mondo. Forse per il fatto di raccontare una storia di amore platonico, puro, vero, senza il sesso di mezzo. Dio solo sa quante volte lo avrò letto e riletto…
Immaginavo spesso che mi accadesse qualcosa di simile, prima con “Roito_X”, poi con Gabriele. La dichiarazione d’amore del signor Rochester è la più bella che abbia mai letto.
 
Io ti offro la mia mano, il mio cuore, i miei beni.
 
Gabriele… dal giorno in cui venni a conoscenza della sua morte lo sognavo tutte le notti. A volte lo sognavo che si allontanava con Elena, abbracciati l’un l’altra, e io li inseguivo piangendo, senza mai raggiungerli.
-No! Non lasciarmi sola!- urlavo, nel frattempo.
Oppure Gabriele era con me, poi scorgiamo entrambi Elena in lontananza, che ci osserva con disprezzo, poi si voltava e diceva: -Tutti uguali voi uomini… Prima sbavate dietro la figa di turno e poi vi mettete con il primo cesso che trovate perché sono brave donne di casa…-
Lui, poi, si accingeva a seguirla, urlando: -Elena, torna da me!-, mentre io lo prendevo per mano, piangendo, e urlavo: -Gabriele, resta con me!-
A volte lo sognavo senza guardarlo in volto; in genere, erano sogni dove lui fuggiva sempre da me.
Questo mi faceva soffrire, non bastava il solo pensiero che non sarebbe più tornato da me.
Ma l’incubo peggiore era questo: ero sdraiata sull’erba, mentre il sole del tramonto colora il cielo di un grazioso blu cobalto, sfumato con il rosso e le nuvole di rosa. Gabriele era sdraiato accanto a me e, ad un certo punto, si metteva su un fianco e mi metteva un braccio addosso, come per abbracciarmi. Provando una rilassatezza mai provata in vita mia, stringevo il suo braccio a me, desiderando con tutta me stessa che quel momento non passasse mai.
-Oh, Dani… se solo avessi vissuto momenti simili anche con Elena…- mi diceva.
Elena… quella strega… quella sgualdrina russa… era solo un sogno, ma gioivo ugualmente di avere finalmente Gabriele tutto per me. Non provavo rabbia o gelosia, perché lui era con me e non con lei.
-Lei non mi ha mai accettato per quello che sono, ma tu sì. Mi hai sempre supportato, sei sempre disponibile per me…-
Stava per dirlo, me lo sentivo.
-Ma nel mio cuore non ci può essere posto per due persone…-
Speravo che stesse per dire che avrebbe rinunciato a Elena, per me.
-Oh, Gabriele…- dicevo io, mentre il mio cuore batteva a mille per l’emozione, seppur fosse solo un sogno –Sei un ragazzo così romantico… soprattutto ora che nel tuo cuore ci sarà posto per me…-
-Per lei.- mi faceva eco lui, interrompendo la mia frase.
Quelle due parole si rivelavano una vera pugnalata per me. Il mio cuore si spezzava e una forte rabbia si impossessava di me.
-C-cosa…?!- balbettavo, voltandomi verso di lui, sgomenta.
-Come…?- mormorava lui, confuso.
-C-come sarebbe a dire “per lei”?-
In quel momento, scattavo a sedere.
-Dani, io…-
-Ma io credevo che tu…-
-N-no, voglio dire… sei una brava ragazza… ma… Elena…-
Elena. Di nuovo quel nome.
La rabbia mi accecava completamente.
-NO!!!- urlavo, con tutto il fiato che avevo in gola, alzandomi.
La peggior paura di una persona innamorata: non essere ricambiata.
Anche lui, spaventato, si alzava.
-Dani, calmati! Stiamo solo parlando!- diceva, prendendomi per le spalle, cercando di tranquillizzarmi.
-NO! HO RINUNCIATO AD AMARE LUI PER TE!- mi riferivo a “Roito_X” -HO PERSINO RISCHIATO UN BANN, QUANDO HO RIVELATO IL SUO VERO NOME A TUTTI I SUOI ISCRITTI, PROPRIO PER NON DOVER PIU’ AVERE NIENTE A CHE FARE CON LUI!-
-Dani, cerca di capire! Tu sei più grande di me di quattro anni, non può mai funzionare!-
-IO HO SCELTO TE!- ero diventata sorda, oltre che cieca dalla rabbia –HO SCELTO TE, E ORA TU SCEGLI ME!-
-Non è così che funziona, Daniela! Io non ti amo e mai ti amerò, perché ho scelto Elena.-
La figura della russa appariva in lontananza, con i suoi occhi glaciali.
-NO! TU STARAI CON ME, CHE TU LO VOGLIA O NO!- urlavo, prima di ricevere uno spintone da lui. Cadevo tra l’erba, che stava diventando un pavimento freddo e liscio, di marmo.
Lui stava correndo da lei. Io, quindi, correvo da lui.
Ma qualcosa mi bloccava. Delle sbarre. Ero in trappola, non potevo più uscire. Non potevo più raggiungerlo.
Non mi restava altro che guardare Gabriele e Elena allontanarsi, picchiando sulle sbarre e urlando come una pazza, piangendo. Mi svegliavo urlando e piangendo, facendo allarmare Chiara, che entrava nella mia stanza con un sedativo in mano, per poi iniettarmelo. Mi calmavo, ma la sensazione rimaneva.
Erano le urla di un cuore spezzato. Era il mio peggior timore, quando lui era ancora vivo.
Una parte di quel sogno, in effetti, era vera: io avevo scoperto il vero nome di “Roito_X” e il giorno in cui avevo deciso di rinunciare a lui per sempre, avevo rivelato il suo vero nome a tutti coloro che lo seguivano su Facebook. Usando un account falso, ovvio.
Non potevo sapere che si sarebbe trattato da subito di una battaglia persa.
Mi ritornava spesso, in mente, il testo di “Elysa”: la mia situazione non poteva essere più azzeccata a quelle parole.
 
No fight I wouldn’t have fought for you
But I can’t love you anymore
Cause you
You left to the stars
My world fell apart
Now that you live in the dark.
 
Ma io non riuscivo proprio a dimenticarlo. Con che coraggio avrei potuto strappare la sua foto?
-Dani, è ora.-
Ah, dimenticavo una cosa importante: Chiara è una mia cugina, più o meno. O meglio, i nostri nonni erano cugini, ma noi ci comportavamo come fossimo veramente cugine. Anzi, si poteva dire che fossimo amiche. Mi sollevò il fatto che sarebbe stata lei la mia infermiera. Avevo sempre confidato tutto a lei. Infatti sapeva già di Gabriele. Era l’unica, al mondo, che fosse a conoscenza della mia infatuazione per lui.
Un giorno, infatti, ci eravamo messe d’accordo (lei parlando e io scrivendo) nell’andare al cimitero a trovarlo.
Mi sceglieva i vestiti e mi pettinava, alcune delle poche cose che mi rifiutavo di fare. Indossai una camicetta a quadri grigi, bianchi e neri, le mie converse nere e i miei amati jeans strappati sulle ginocchia.
Non indossavo più volentieri i miei abiti: da quando praticamente abitavo nell’ospedale, portavo casacche grandi tre volte me, tipo quelle per signore anziane, e pantaloni leggeri, larghi anch’essi e calzini antiscivolo, se non le ciabatte tipo da infermiera.
Ma per uscire, non potevo indossare abiti di quel tipo. Dovevo fare lo sforzo di indossare i miei abiti.
Per fortuna, ai malati era consentito uscire, purché fossero in compagnia degli infermieri.
Il cimitero distanziava un quarto d’ora dall’ospedale, in macchina.
Comprammo una rosa bianca in una bancarella proprio di fronte al cimitero.
Era una giornata serena e soleggiata, oltre che temperata. Vedere il sole mi sollevò un po’ l’umore, anche se pochino.
Ricordavo bene dove avessero sepolto Gabriele. Chiara mi accompagnò lì e mi disse, con premura: -Prenditi il tempo che ti serve. Ti aspetto fuori.-
Di norma, non sarebbe saggio lasciare uno psicopatico da solo, ma la tomba di Gabriele non era molto lontana dall’entrata, quindi Chiara poteva tenermi d’occhio anche da lontano, intervenendo quando ci sarebbe stato il bisogno.
Sistemai la rosa in mezzo a tutti gli altri fiori, probabilmente messi dalla madre.
Gabriele… sembrava così felice nella foto. Avevano messo la vecchia foto del profilo di WhatsApp, quella quasi in controluce. Ma era bella lo stesso. Lui era bello.
Rimuginai sui miei rimpianti e caddi sulle mie ginocchia, piangendo. Mi si spezzava il cuore il solo pensiero che il ragazzo che amavo fosse chissà a quanti metri sottoterra da me. Vedere la sua tomba mi fece ritornare in mente il giorno in cui venne sepolto. Fu terribile.
Senza farmi sentire, cantai il pezzo di “Elysa” che ho scritto poco prima.
Non parlavo, è vero, non volevo parlare; a malapena cantavo. La tentazione di cantare tornava sempre.
Per il resto, non ricevetti alcuna visita, in quella settimana. Solo una, quella dei miei genitori, nonché l’unica.
L’unico che veniva a trovarmi spesso, quasi tutti i giorni, era Filippo. Ma non quel genere di visita, quello “normale”, dove una persona si presenta di fronte a te. Facevamo delle partite online alla Playstation e lì chattavamo. Gli dicevo come stavo, com’era il luogo in cui vivevo e lui mi parlava delle sue giornate a scuola. Questi erano i nostri incontri. Ma a me andava bene. Anche lui voleva distrarmi da quello che stavo passando e non smetterò mai di ringraziarlo, nel suo piccolo.
 
Stanotte ho sognato di nuovo Gabriele. Ho fatto di nuovo il sogno dove lui sceglieva Elena invece di me.
 
Mi limiterò a scrivere questa frase, del pensiero di quel giorno. Iniziavo la mattina, appena sveglia, a scrivere sul diario, finché avevo ancora in testa il ricordo del sogno fatto quella notte, poi scrivevo la mia giornata, praticamente minuto per minuto.
E la sera, prima di andare a letto, lo mettevo sopra un tavolino; poi, Chiara lo prendeva da una finestrella che collegava la sua camera alla mia per leggerne il contenuto al direttore.
Io stessa mi stavo rendendo conto di scrivere ormai le stesse cose da una settimana. Ogni giorno era lo stesso: mi svegliavo, scrivevo il sogno fatto quella notte (tutti su Gabriele), giocavo alla Play, navigavo su Internet, a volte mi chiamava lo psicologo per farmi parlare, seppur inutilmente, leggevo, guardavo qualche film o serie TV, e poi a letto. Tutti giorni senza pasti, nonostante Chiara continuasse a portarmeli, per poi riprenderli esattamente come e dove li aveva lasciati.
Non avrei nemmeno mangiato il brodo di coda di bue di Chencha, personaggio di uno dei miei libri e film preferiti, “Come l’acqua per il cioccolato”, dove la protagonista, a cui era successa una cosa simile alla mia, era stata mandata in manicomio e non aveva parlato o mangiato fino a quando non le fu portato quel brodo, e aveva improvvisamente ripreso a parlare. Con me non avrebbe funzionato.
Ad ogni modo, le mie giornate erano così, tranne quella volta in cui erano venuti i miei. Lì avevo scritto questo:
 
Oggi sono venuti a trovarmi i miei genitori. Pensavo avessero portato anche  nonna Caterina, ma c’erano solo loro. Meglio così, hanno evitato di farla soffrire ulteriormente. Dopo quanto è successo a zia Silvia, come biasimarla? Il resto dei parenti? Figuriamoci. Non mi stupirebbe se, per loro, ormai, non esisto più. A chi interesserebbe avere una psicopatica come parente, in fondo? Non perdo molto, pensandoci bene, anzi. Sto meglio da sola che in compagnia di quegli ipocriti. Mia madre mi ha portato dei dolcetti, i bignè alla panna e la pasta frolla con la crema pasticcera e la frutta, i miei preferiti, ma io non li ho mangiati, nemmeno toccati. Mi limitavo ad osservarli, invece che osservare i miei genitori. Non voglio mangiare, voglio stare digiuna tutta la vita, se necessario. Non mi interessa se morirò di stenti. Mio padre ha cercato in tutti i modi di farmi parlare, invano. Mi ha chiesto come stavo, con tono tra lo stoico e il finto premuroso. Patetico. Gli leggevo in faccia la delusione che provava per me. Scommetto che aveva una voglia così di tirarmi i capelli, per costringermi a parlare contro la mia volontà. Non voglio parlare. Non potete costringermi. Mi domando cosa lo abbia spinto a venire qui. Cosa abbia spinto entrambi a venire qui. Non li volevo, non li voglio e non li vorrò mai vedere. Perché anche loro non mi lasciano in pace una buona volta per tutte? Voglio stare sola. Cosa costa a loro? Che sia la tipica patetica scusa del “Siamo i tuoi genitori e ti vogliamo bene.”? Cazzate. Fai un passo falso e loro si scoprono essere i peggiori giudici del mondo. E i miei lo sono stati, da quando ho smesso di parlare. Conoscendo mio padre, è troppo orgoglioso per ammettere di essersi fatto un esame di coscienza e riflettere su cosa mi aveva detto sere fa.
Li odio. Odio tutto il mondo. Ma cosa mi spinge a continuare a vivere? Se Gabriele non c’è più che senso ha vivere?
 
Suicidarmi? Non ci avevo nemmeno provato. Non avevo il coraggio. Eppure, teoricamente, ero pronta: privata dell’unica cosa che mi teneva in vita, abbandonata da tutto il mondo… c’erano i Tokio Hotel, questo era chiaro, no? Se ero giù, ascoltavo le loro canzoni, piangendo, e mi sentivo subito meglio.
Così erano le mie giornate. Tremendamente noiose e ripetitive. Forse non era stata una buona idea, l’ospedale psichiatrico.
 
 
Chiara’s P.o.V.
 
 
“Devo aver visto troppe volte l’ultima puntata di “Agents of S.H.I.E.L.D.”. Stanotte ho sognato che io ero di fronte a Elena. Praticamente, io ero Ghostrider e lei era Aida/Ofelia, che moriva per mano mia. Le stringevo le braccia con una tale forza da spezzargliele. Improvvisamente, ecco che dalle mie mani escono delle fiamme che la circondano. Lei urla, voltandosi verso Gabriele, come per supplicargli di aiutarla, ma lui è immobile, intimorito, mentre io rido, soddisfatta, mentre il suo cadavere diventava cenere, che si sgretolava sulle mie mani.”
Chiusi il diario, appena finii di leggere il resto delle righe.
Non era cambiato niente. Daniela non mostrava segni di miglioramento. Era solo alla prima settimana, ma ogni giorno le sue condizioni sembravano peggiorare, nonostante la cura cui venisse sottoposta: sognava Gabriele ogni notte, a volte si svegliava urlando e piangendo, e trovava modi sempre più macabri di uccidere Elena.
Ormai non parlava più, nemmeno con me. A volte la sentivo cantare, e mi illudevo che fossero dei passi in avanti, ma così non era. Si chiudeva sempre più in se stessa, guardando serie animate, ascoltando le canzoni dei Tokio Hotel, e giocando alla Playstation tutto il giorno; nemmeno la terapia di gruppo era servita.
Di solito gli ospedali non consentono di portare con sé oggetti come consolle, ma dovevamo pur trovare un modo per distrarre Dani e i libri non sembravano sufficienti. Non voleva nemmeno uscire, se non per andare a trovare Gabriele.
Era fuggita da una prigione per poi entrarne in un’altra.
Almeno io dovevo trovare un modo per aiutarla.
Avevo un piano, in effetti, ma non ero sicura che i miei superiori lo avessero preso bene.
Mi ero informata su delle SPA in tutta Italia, cercando fra quelle migliori. Era da tempo che Dani e io avevamo pianificato di andarci. Ma, sapete com’è… il lavoro...
Con i massaggi, i trattamenti e i bagni, pensai e sperai che fosse la soluzione ideale per la depressione di Dani, povera cara… già la morte di sua zia, poi quella del ragazzo che amava… sono stati colpi troppo duri per lei.
Non aveva bisogno di un gruppo di medici e delle pasticche antidepressive, ma di distrarsi. “Perché non ci ho pensato prima?” pensai, dandomi, inoltre, della stupida.
Una sera mi ero fatta coraggio: navigai su Internet e stampai la locandina di una SPA che mi attirava molto. La portai con me, quando andai dallo psicologo a cui Dani era stata affidata, e al direttore dell’istituto, il dottor S. (per rispetto nei suoi confronti, meglio chiamarlo così) per leggere loro quanto scritto da lei quel giorno.
-Non sta dando risultati.- notò Alberto (fra colleghi ci si dava del tu e ci si chiamava per nome, per rendere il nostro lavoro meno pesante; ma non al direttore), forse un po’ preoccupato –Anzi, sembra persino peggiorare di giorno in giorno. Anche durante le mie sedute non parla. E’ un vegetale che respira. Chiara, giorni fa hai riferito di aver provato a staccare la foto dal muro, giusto?-
-Sì, perché?-
-Di conseguenza, lei ti ha aggredito.-
-Sì, e si è calmata subito dopo averla ripresa, grazie al cielo.- ricordai con dolore quel giorno. Cosa diavolo mi era passato in mente…? Come ho potuto essere così insensibile? Anch’io avrei reagito in quel modo se mi avessero strappato l’oggetto più prezioso che possedevo. Stupida, stupida, stupida! Mi sono meritata quei morsi sulle braccia.
-E’ stata l’unica volta che ha mostrato un atteggiamento differente dal solito. Che ha reagito, oserei dire. Come un qualsiasi esemplare di animale femmina quando viene privata del proprio infante. Lei cosa pensa, direttore?-
Il dottor S. si mise a riflettere. Strizzava gli occhi verdi fino a divenire delle fessure e nascondeva i baffi grigi dietro alle mani, che aveva incrociato di fronte al volto, poggiandoci il naso.
-Questo è un caso molto complicato…- mormorò –Se fosse stato un normale caso di depressione, sarebbe stato curabile con le nostre terapie, ma, da come ci hai letto, Chiara, qui è coinvolto ben altro che la depressione. La medicina non può nulla contro i cuori spezzati. A quella ragazza non servono cure o pasticche, serve una degna distrazione. E non solo gli oggetti cui è stata fornita.-
-Distrazione? E che tipo di distrazione, visto che si rifiuta di parlare e anche di uscire?- fece notare Alberto.
Esattamente ciò che pensavo. Imbarazzata, mostrai la locandina della SPA  che avevo stampato poco prima.
-A questo proposito, professore…- spiegai, mentre lui prendeva il foglio e leggendoci sopra; anche Alberto diede un’occhiata, interessato –Volevo proporre di far trascorrere Daniela in questo posto. E’ da una vita che pianifichiamo di andarci, ma lo abbiamo sempre rimandato. Pensavo fosse l’occasione migliore di andarci, sia per lei che per me. Almeno lì possono tenerla impegnata con massaggi, bagni, trattamenti e c’è anche una piscina dove potrebbe nuotare. Cosa ne pensate…?-
Idiota. Avevo fatto la figura dell’idiota.
Alberto, da psicologo modello che era, volle subito protestare: -Sei tipo impazzita, Chiara? Ti sembriamo persone da inviare i pazienti ai centri benessere? Siamo qui per curarli, non per viziarli.-
-Sarei dello stesso parere se Daniela fosse una pazza assassina, ma non lo è.- ribattei, fiera e sicura della mia scelta, perché sapevo che era la cosa giusta da fare -E’ una ragazza che ha bisogno di distrarsi per superare il trauma che ha passato.-
-Ma poi chi le paga tutti i trattamenti? Tu?-
-No.- tagliò corto il dottor S. –Lo pagheremo tutti noi.-
Alzai le sopracciglia, sorpresa. Non avevo dubbi che avesse accettato, ma, nello stesso tempo, temevo che avrebbe reputato la mia idea sciocca.
-Professore, non dirà sul serio…?-
-Sono serissimo, Alberto. Daniela è una nostra paziente, ed è nostro dovere aiutarla, quindi spenderemo una parte dei soldi dell’istituto per la settimana di trattamenti. Le terapie che usiamo qui sembrano non aver funzionato. Vediamo cosa si risolve, facendola distrarre.- si rivolse a me –Naturalmente, la accompagnerai tu, Chiara, come sua infermiera personale, e mi aspetto che tu, ogni sera, ci aggiornerai sui suoi comportamenti e leggerai cosa ha scritto sul suo diario, come fai di solito.-
Ero entusiasta. Mancava poco saltassi dalla gioia. Dani e io a trascorrere una settimana in un centro benessere!
-Sì, lo farò con piacere.- mi limitai a dire, per mantenere la mia professionalità.
-Molto bene. Alla prenotazione ci penserò io. Tu limitati soltanto a dare la lieta notizia a tua cugina.- concluse il dottor S., prima che mi congedassi.
Alberto, però, volle aggiungere un’ultima cosa.
-Però, professore…- disse, un po’ titubante –Se anche questo non dovesse bastare? Se non ci fossero risultati?-
Il direttore fece spallucce, sospirando. Un altro dei miei timori stava per essere rivelato.
-Allora non ci rimane altro che la soluzione estrema. Privarla di tutti i sentimenti.-
Impallidii: si trattava della lobotomia.
No, non potevo permetterlo. Daniela stessa, tempo addietro, mi aveva detto che avrebbe preferito morire che essere privata dei suoi sentimenti.
-Non sarà necessario.- dissi, sicura del mio successo –Vedrete che la paziente starà meglio, quando tornerà.-
 
Attesi la mattina seguente per dirlo a Dani.
La trovai già alzata, con le cuffie alle orecchie: dal suo sguardo era chiaro che avesse avuto un altro incubo.
-Ciao, Dani…- la salutai, chiudendo la porta, sorridendole.
Lei si tolse le cuffie, osservandomi con aria impassibile, come una statua. Muta, ma non certo maleducata.
Anche quando le parlavo, mi guardava e mi ascoltava.
-Ascolta, non ci crederai mai, ma…- le dissi, un po’ agitata, mettendomi a sedere sul letto; non potevo dirle subito che saremmo andare in una SPA; non potevo rischiare che avesse uno sbalzo di emozioni troppo brusco; dovevo arrivarci per gradi –Ieri sera ho letto i tuoi pensieri al tuo psicologo e al direttore. Hanno entrambi detto la stessa cosa, che ormai stai scrivendo ogni giorno quasi la stessa cosa che hai fatto il giorno precedente.- Dani aveva abbassato lo sguardo. Comprensibile -Oh, ma non è colpa tua, tesoro.- cercai di rassicurarla, mettendole una mano sulla spalla; non detrasse –Loro stessi si stanno rendendo conto che le terapie usate non sono sufficienti. Guardati, tesoro: non mangi da più di una settimana, stai dimagrendo troppo, non parli più e stai sempre qui chiusa in camera davanti ai tuoi schermi. Per questo, persino il direttore ha pensato che sarebbe meglio tentare un nuovo… sistema.- lei mi guardò, inclinando la testa –Hai bisogno di distrarti, cara, e io ho trovato un modo, lo stesso che non abbiamo fatto altro che proporci da tempo.- continuava a guardarmi in modo stoico, ma scorgevo una specie di lampo nei suoi occhi; come se sapesse già cosa stavo per dirle –Tu ed io… andremo in una SPA, per una settimana.- aprì la bocca, accennando il suo stupore e la sua felicità nello stesso momento.
 
 
Daniela’s P.o.V.
 
–Tu ed io… andremo in una SPA, per una settimana.-
Quando Chiara mi disse queste parole, per un attimo credetti di sognare; il mio cuore sobbalzò dalla sorpresa: era da una vita che programmavamo di andarci, ma il suo lavoro glielo impediva. Sì, nel profondo sapevo che era la soluzione migliore.
Ma il mio primo pensiero fu: “No, non posso.”
Avevo completamente perduto la voglia di vivere.
Come potevo anche minimamente pensare di rilassarmi in una SPA, mentre Gabriele giaceva a chissà quanti metri sotto terra? Come potevo fare questo al suo ricordo?
Chiara, non so come, percepì questo mio pensiero. Forse lo intuì e basta.
-Io non ho mai conosciuto Gabriele di persona.- disse, guardando la foto con tenerezza; ogni giorno, la foto mi sembrava diventare ogni giorno più bella –Non so che tipo fosse, ma sono sicura che non vorrebbe vederti in questo stato. A nessuno piacerebbe vedere le persone piangere ogni giorno. Sono sicura che lui stesso vorrebbe che continuassi a vivere, non dimenticandoti del tutto di lui, ma almeno conservare nel tuo cuore tutti i bei momenti passati con lui.-
“I momenti sprecati con lui, vorrai dire…” pensai. Avevamo… io avevo continuato a girarci intorno. E avevo sprecato il mio tempo. Ed ecco la punizione che mi ero meritata, per non essermi fatta avanti.
E se fosse veramente così? E se lui non volesse veramente vedermi triste…?
Ci riflettei un attimo: avrebbe davvero esatto che serbassi il suo ricordo, a tal punto da far del male a me stessa…? E poi, quella SPA… Chiara e io lo stavamo programmando da una vita. Se avessi rifiutato, me ne sarei pentita fino alla fine.
-Ora spero che questo non ti spinga a rifiutare, tesoro…- aggiunse lei –Ma dovrò continuare a sorvegliarti. Non perché mi piaccia, ma sono ordini del direttore. Sai, per sapere se questa distrazione servirà per la tua condizione e se porterà dei risultati. Così potremo riportarti a casa.-
Ecco. Giusto il motivo per non farlo. Tornare a casa, intendo.
Non volevo tornarci.
Non con gente come la mia famiglia.
Avevo quasi pensato di restare muta tutta la vita, di proposito, e passare il resto dei miei giorni nell’ospedale.
-Ma non temere. Andremo là e ci divertiremo come non mai.-
Su questo non ci sarebbero stati dubbi.
Una vacanza.
In una SPA.
Con Chiara.
Perché no?
E poi mi stavo annoiando a giocare agli stessi giochi, ogni giorno, o vedere film.
Ma ascoltare i Tokio Hotel no.
Quello mai.
 
 
Chiara’s P.o.V.
 
Sorrise. O era solo l’accenno di un sorriso, non mi importava.
L’importante era che quello sguardo da Mercoledì Addams fosse svanito.
Si buttò sulle mie spalle. Era un abbraccio.
Non me lo aveva dato nemmeno quando l’avevano portata qui.
Seguito da dei singhiozzi.
Commossa anch’io, ricambiai.
La nostra agognata vacanza insieme, finalmente.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: Lady I H V E Byron