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Autore: FrancescaPotter    11/08/2017    4 recensioni
Long sugli ipotetici figli delle coppie principali di Shadowhunters (Clace, Jemma e Sizzy), ambientata circa vent'anni dopo gli avvenimenti di TDA e TWP. TWP non è ancora uscito al momento della pubblicazione, e nemmeno l'ultimo libro di TDA; questa storia contiene spoiler da tutti i libri della Clare fino a Lord of Shadows, Cronache dell'Accademia comprese.
Dal quarto capitolo:
"Will abbassò il braccio e distolse lo sguardo, ma lei gli prese delicatamente il polso. «Lo sai che puoi parlarmi di qualsiasi cosa, vero?» gli chiese, morsicandosi inconsapevolmente il labbro inferiore. Era una cosa che faceva spesso e che faceva uscire Will di testa. «So che è George il tuo parabatai» continuò abbassando la voce, nonostante non ce ne fosse bisogno perché George era concentrato sul suo cibo e Cath stava leggendo qualcosa sul cellulare. «Ma puoi sempre contare su di me. Mi puoi dire tutto. Lo sai, vero?»
Will sospirò. «Lo so, posso dirti tutto».
Tranne che sono innamorato di te."
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Clarissa, Emma Carstairs, Izzy Lightwood, Jace Lightwood, Julian Blackthorn
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disclaimer: questa fanfiction nasce da una mattina di sclero mia e di Giada. Abbiamo iniziato a pensare ai possibili figli delle coppie principali di Shadowhunters (in particolare Clace, Jemma e Sizzy) e la situazione ci è leggermente sfuggita di mano, visto che ho scritto più di dodici capitoli. Non ho ancora finito la storia, ma direi che dodici capitoli sono una buonissima base per iniziare a pubblicare. Devo fare un paio di premesse:
  • Ci sono spoiler da tutti i libri della Clare fino a Lord of Shadows. Ripeto: ci sono SPOILER di Lord of Shadows, e anche delle Cronache dell’Accademia di Shadowhunters.
  • Tuttavia non ci sono spoiler né di The Last Hours, né di Queen of Air and Darkness (ultimo libro della trilogia di The Dark Artifices) perché NON SONO ANCORA USCITI (lo scrivo in maiuscolo non perché sto urlando, ma perché così si legge bene, ahah).
  • Visto che la storyline di Julian ed Emma, e dei Blackthorn in generale, non si è ancora conclusa, mi sono inventata delle cose, come ad esempio il fatto che non siano più parabatai o il fatto che Mark stia con la persona con cui lo shippo io e non con l’altra. Non so cosa succederà, me lo sono inventata di sana pianta.
  • Pubblicherò ogni venerdì.
  • Se state leggendo la Rose-Scorpius, vi chiedo scusa. Avete ragione: faccio proprio schifo. Se avete fede in me, vi prometto che mancano solo un paio di capitoli e che prima o poi la finirò, fosse l’ultima cosa che faccio e dovesse accadere tra anni. La finirò, Biondaccio e Padella meritano una conclusione. Glielo devo.
  • Uno shoutout a Giada che mi ha corretto tutti gli errori di battitura e mi ha messo tutte le virgolette come dio comanda. È una santa e si merita solo cuori e cioccolatini. <3
Nulla, ecco qua il primo capitolo. Buona lettura e spero che vi piaccia.
 
Nothing Safe Is Worth The Drive
 
Parte Prima

Capitolo Uno
 
George Lovelace sentì il pugnale sfrecciargli accanto e sfiorargli il viso. Si voltò e vide l’arma conficcata nel torace di un demone Mantide che lo stava per attaccare alle spalle.
«Ehi!» esclamò, guardando il demone dissolversi e ritornare alla sua dimensione originaria. «Mi hai quasi beccato in faccia!».
Si girò e trovò due occhi verdi e un sorriso compiaciuto che lo osservavano. «Io non sbaglio mai, dovresti saperlo» disse Will Herondale, il suo parabatai, rigirandosi un coltello tra le mani. «E non c’è di che, comunque. Se non lo avessi colpito, ti avrebbe staccato la testa».
«Meglio una testa staccata che il mio viso rovinato» commentò distrattamente George mentre scrutava il vagone arrugginito davanti a sé.
Quel giorno Will e George stavano pattugliando i tunnel abbandonati della metropolitana di New York e si erano imbattuti in un nido di demoni Mantide che avevano dato loro del filo da torcere.    
George sentì Will borbottare alle sue spalle, ma non gli diede retta. Qualcosa aveva catturato la sua attenzione. Alzò la stregaluce così da illuminare meglio il tunnel, e vide delle figure scure allontanarsi di corsa.
«Will». Non ebbe bisogno di aggiungere altro, perché sapeva che il suo parabatai aveva capito. Si rivolsero uno sguardo d’intesa e partirono all’inseguimento.
George sentì l’adrenalina che anticipava una battaglia scorrergli nelle vene, e il suo arco e frecce che gli sbattevano sulla schiena in modo familiare. Si allenava con l’arco da quando aveva memoria: era sempre stata la sua arma preferita. Non gli dispiacevano neppure le spade, ma con quelle in mano non si sentiva a suo agio come con una freccia incoccata sull’arco.
Arrivarono a un bivio e scelsero di curvare a sinistra, senza aver bisogno di consultarsi; George sapeva che quella era la direzione che avrebbe preso Will, lo sapeva dal modo in cui aveva inclinato il capo, dal modo in cui stava correndo. Lo sentiva lì, nella runa che si erano reciprocamente disegnati sull’avambraccio durante la cerimonia che li aveva legati per sempre.
Le figure che avevano avvistato precedentemente erano sparite, probabilmente avevano inforcato l’altra strada sulla destra, pensò George, rallentando leggermente l’andatura per riprendere fiato.
Will stava davanti a lui e si guardava attorno vigile, come se potesse scorgerli da un momento all’altro nell’oscurità.
George si bloccò di colpo, rendendosi conto che le pareti ora erano molto più pulite, aerodinamiche quasi, e rivestite di metallo. Erano tunnel nuovi, non più i vecchi cunicoli puzzolenti ormai in disuso che pattugliavano di solito.
«William» disse George, e la sua voce suonava tesa alle sue stesse orecchie. «Non vorrei essere paranoico, ma credo che abbiamo sbagliato strada e che…»
Un fischiare assordante rimbombò per il tunnel. Will si portò le mani alle orecchie e fece qualche passo indietro verso George.
«Merda» imprecò, i suoi capelli biondi che risplendevano illuminati dai fanali della metropolitana. Senza indugiare oltre, si voltarono entrambi e iniziarono a correre, in una gara di velocità già persa in partenza. Gli Shadowhunters erano veloci, grazie al sangue angelico e alle rune, ma non avrebbero mai potuto competere con il motore di un treno; dovevano trovare un nascondiglio, un riparo, altrimenti la metro li avrebbe raggiunti e schiacciati al suolo come formiche, e George non voleva fare quella fine.
Strinse i denti e cercò di correre più veloce. Sentiva Will al suo fianco, i loro passi e respiri sincronizzati, come se i loro cuori battessero all’unisono, come se fossero una cosa sola.
Ad un tratto Will afferrò George per un braccio e lo trascinò di lato, in una rientranza del muro. Il treno sfrecciò loro davanti, sollevando polvere e detriti che li fecero tossire. Will continuava a tenere George stretto per la giacca, temendo che venisse risucchiato via dalla forza dei vagoni in corsa.
Quando tutte le carrozze furono passate, Will allentò la presa e lo guardò in faccia. «Stai bene?» chiese, scoppiando a ridere.
George si unì alla sua risata, strofinandosi gli occhi irritati dalla terra e dalla polvere. «A posto, ma c’è mancato poco» disse, saltando sui binari e restando in ascolto. «Sarà meglio levarsi dai piedi. Non voglio diventare un sandwich».
Risalirono le rotaie in fretta, tenendo occhi e orecchie aperte, e si ritrovarono di nuovo nei tunnel abbandonati. Le figure che avevano inseguito prima erano sparite, e nel giro di qualche minuto Will e George furono all’aperto, vicino al ponte di Brooklyn e al fiume Hudson che scorreva davanti a loro.
«George». Will lo stava chiamando. Si era allontanato e ora stava chino su qualcosa, o meglio… qualcuno.
George lo raggiunse e trattenne il respiro. Era abituato al sangue e a trovare cadaveri di mondani deturpati da demoni, ma non aveva mai visto niente del genere. Due corpi impeccabili, vestiti di tutto punto e che non avrebbero avuto niente di anormale, se solo avessero avuto ancora la testa. Le teste dei due uomini, infatti, erano state mozzate di netto e se ne stavano a pochi passi da loro con gli occhi spalancati e un’espressione di orrore sul volto.
Will pareva altrettanto sconvolto. «Questa non può essere opera di un demone».
«No» concordò George. «I tagli sono troppo netti, sono stati per forza fatti con una spada».
Will annuì e si alzò in piedi. «Dici che sono stati gli uomini che abbiamo inseguito nei tunnel?»
«Credo di sì, anche se non sono sicuro che si trattasse di uomini. Erano troppo veloci, ci hanno seminati nel giro di qualche secondo, e penso che neppure una spada angelica potrebbe tagliare un collo in modo così… pulito». George prese il cellulare.  «Chiamo i miei genitori. Questa faccenda va sottoposta ai Fratelli Silenti».
 
I Fratelli Silenti arrivarono nel giro di dieci minuti, seguiti dal padre di George, Simon, e la mamma di Will, Clary. Simon e Clary erano parabatai, proprio come Will e George, una coppia di guerrieri che giurava di combattere insieme e di guardarsi le spalle a vicenda per il resto della propria vita. In un certo senso era quasi come un matrimonio, con la differenza che non potevi per alcun motivo innamorarti del tuo parabatai.
«Non è giusto!» esclamò George, furioso. «Li abbiamo trovati noi!»
Gli Shadowhunters dai diciotto anni in poi erano considerati come dei veri e propri adulti e potevano prendere parte alle riunioni del Conclave, avendo diritto a un voto in Concilio. Eppure, nonostante George e Will fossero maggiorenni, spesso venivano trattati ancora come dei bambini.
«Non potete rispedirci a casa» disse Will con calma, come se credesse impossibile anche solo prendere in considerazione l’idea.
Simon sospirò. Aveva gli stessi capelli indomabili di George e gli stessi occhi scuri, però era di qualche centimetro più basso del figlio. «I Fratelli Silenti stanno esaminando i cadaveri e poi li porteranno alla Città Silente. Non ha senso che stiate qui a prendere freddo».
«Oh». George alzò un sopracciglio, non credendo alle proprie orecchie. «Hai davvero paura che possiamo raffreddarci?»
«Non abbiamo dodici anni!» sbottò Will, indignatissimo, come se lo avessero insultato sul personale. «Mamma!» urlò poi, rivolgendosi alla madre.
Clary sospirò e guardò il suo parabatai con aria stanca. «Ha ragione Simon». Will fece un verso e lei continuò, fulminandolo con lo sguardo. «Dato che volete essere trattati come degli adulti, in qualità di direttore dell’Istituto di New York, vi ordino di tornare a casa perché il vostro aiuto non è più richiesto».
Li guardò entrambi con aria di sfida, mettendosi le mani sui fianchi. Clary era una donna piccola e delicata, ma che sapeva incutere un certo timore quando voleva.
Will e George rimasero ammutoliti e furono costretti a ubbidire. Senza aggiungere altro se ne andarono, con la sensazione di essere stati appena ripresi come due ragazzini indisciplinati.
 
Will e George tornarono all’Istituto con la testa bassa e l’orgoglio ferito.
Sgraffignarono qualcosa da mangiare dalla cucina e poi si diressero in camera di Will con l’umore a terra. George non si stupì di trovarla ordinata come al solito, con le sue pareti verde chiaro e la scrivania in legno bianco. Su questa era depositata una scatola di matite colorate e un blocco da disegno, mentre sulle mensole erano stati riposti gli acquerelli e le tempere che Will usava di meno. Sui muri Will aveva appeso dei disegni fatti da lui stesso, uno della sua famiglia, uno di Lizzie quando aveva circa dieci anni, e uno di George con in mano il suo arco.
George si lanciò sul letto del suo parabatai, suscitando non poche proteste di quest’ultimo, e afferrò un libro dal comodino.
«Racconto di due città?» chiese, inarcando un sopracciglio. «Non credevo fosse il tuo genere».
Will glielo strappò dalle mani e lo rimise al suo posto. «Me lo ha dato mio padre».
George fece per fare una battuta, ma a Will era arrivato un messaggio sul cellulare. Un sorriso da ebete gli spuntò sulle labbra mentre lo leggeva, e George non ci mise molto a capire da chi dovesse provenire: Rose.
Will era molto abile nel mascherare le proprie emozioni, non ammetteva mai di essere triste o di star soffrendo: per Will andava sempre tutto bene, e tutti gli credevano. Ma George non era una persona qualunque, era il suo parabatai, il suo migliore amico, e lo conosceva meglio di quanto conoscesse se stesso. Era solo a George che Will mostrava i luoghi più oscuri della sua anima, quei luoghi dove veniva dilaniato ogni giorno dalla consapevolezza che la ragazza che amava, per la quale si sarebbe staccato un braccio, non ricambiava i suoi sentimenti.
«Devi fartene una ragione» disse George in modo diretto. Non era da lui indorare la pillola. «Lo sai, vero?»
Il sorriso di Will si spense. «Lo so» disse con un filo di voce, capendo esattamente di che cosa l’amico stesse parlando. «Ma non posso».
George alzò gli occhi al cielo. «Certo che puoi. Hai diciotto anni. La gente normale a diciotto anni si sposa».
George si morse la lingua, rendendosi conto che si era spinto troppo in là. Pensò a Cath, e il suo cuore perse un battito alla sola idea che lei non lo amasse.
«Al giorno d’oggi, non ci si sposa più a diciotto anni» replicò Will con aria assente.
George deglutì.
Diglielo, si impose. È Will, puoi dirglielo.
Ma come poteva parlargli di una delle cose che più lo rendevano felice quando il cuore di lui era così distrutto?
George percepiva la disperazione di Will dal legame, dalla runa che lui stesso gli aveva disegnato all’interno del braccio sinistro, una disperazione così intensa che spesso gli faceva venir voglia di dire tutto a Rose. Ma non avrebbe mai e poi mai potuto tradire la fiducia del proprio parabatai. Se Will voleva continuare a tenerlo segreto, non stava a George intromettersi.
«Vero. Ma quale sarebbe il tuo piano?» continuò George, incapace di essere più gentile di così. «Glielo devi dire».
«E se poi smettesse di parlarmi?» chiese Will con una punta di panico nella voce. «Preferisco essere nella sua vita in questo modo che esserne tagliato fuori completamente».
«Rose ti vuole bene. Immensamente. Dirglielo è l’unico modo per poter andare avanti, e lo sai».
Will si chiuse in un cupo silenzio. Si rigirava il telefono tra le mani fissando il vuoto davanti a sé, come se stesse cercando la soluzione a un qualche problema metafisico, che nel suo caso George sospettava che fosse: come faccio a smettere di amare Rose Blackthorn?
«Ha scritto che ha un’emergenza e chiede se può venire qua» disse Will a un certo punto. Non mise il soggetto, ma George sapeva che stava parlando di Rose. «Probabilmente le si è rotto il computer e si annoia».
George ghignò. «Niente di più probabile».
Rose era vagamente ossessionata dai computer. E vagamente ossessionata significava che ne poteva parlare per ore senza fermarsi. George però doveva ammettere che sarebbe stata una brava insegnante, se solo loro fossero stati disposti a imparare.
Will impugnò lo stilo e iniziò a tracciare una serie di rune e simboli contro al muro, dando pian piano origine a un portale, abilità acquisita da sua mamma, la quale però era anche in grado di creare nuove rune, cosa che Will non sapeva fare.
Quando il portale prese forma in un miscuglio di colori brillanti, Rose comparì loro davanti.
«Ciao» disse con un sorriso, facendo un cenno di saluto a George mentre il portale si richiudeva alle sue spalle.
Rose aveva lunghi capelli color cioccolato e dei penetranti occhi verde-azzurro, dello stesso colore del mare in una giornata di sole. George spesso rimaneva quasi incantato a osservarli e non poteva biasimare il suo amico per essersi innamorato di lei.
«Salve a te» la salutò George. «Qual buon vento ti porta nella grigia New York?»
Rose viveva a Los Angeles e i Blackthorn gestivano l’Istituto della città. I genitori di Rose e di Will e George erano amici, perciò da piccoli i bambini si erano ritrovati più volte a giocare e ad allenarsi assieme, sia a NY che a LA, costruendo pian piano una solida amicizia.
«Ho un appuntamento» disse Rose, saltellando un po’ sul posto. «Non so come sia potuto succedere, ma Logan Ashdown mi ha chiesto di uscire».
«Non è possibile» esclamò George, non credendo alle sue orecchie.
Rose aveva una cotta per Logan Ashdown da qualche mese ormai. Gli Ashdown vivevano a Los Angeles e delle volte i più piccoli si allenavano all’Istituto; era lì che Rose aveva visto Logan per la prima volta e ne era rimasta stregata quando lui le aveva chiesto di spiegargli come funzionasse un computer. Ma a parte quella breve interazione, Rose non aveva mai trovato il coraggio per parlargli.
George vide la mascella di Will serrarsi. Sembrava perfettamente tranquillo, ma George percepiva la tensione che attraversava il suo corpo.
«Quindi ci hai finalmente parlato?» chiese George con un ghigno. «Fai progressi, dato che in questi mesi ti sei solo limitata a guardarlo da lontano».
Rose gli fece una linguaccia. «Ho bisogno del vostro aiuto perché… mi conoscete, non sono brava con le persone».
«Per prima cosa devi decidere se è uno stronzo o no» disse George con fare pratico, come se stesse elencando gli step per compiere una manovra con la spada.
Rose spalancò gli occhi. «Perché dovrebbe essere uno stronzo?» chiese preoccupata. Poi guardò Will come in cerca di sostegno e lui alzò le spalle. «Non puoi sapere com’è una persona finché non la conosci, no?»
«Ah, già» fece Rose, il suo entusiasmo del tutto sgonfiato.
George si sentì vagamente in colpa. Rose e Will erano i suoi migliori amici e, da come stavano le cose in quel momento, la felicità di uno avrebbe compromesso quella dell’altro. George cercava di aiutare entrambi come poteva.
«Vieni qui» sospirò e le fece posto sul letto accanto a lui. «Per tua fortuna sono un esperto di relazioni».
Will si mise a ridere. «Tu. Un esperto di relazioni?»
George si portò una mano al petto ferito. «Sto con Cath da due anni ormai».
Sembrava ieri che Catherine era arrivata a New York dalla Francia. George aveva sempre pensato di essere uno spirito libero, di non essere fatto per una relazione stabile e duratura, ma quando aveva incontrato Cath aveva capito che non avrebbe mai voluto nessun’altra se non lei.
All’inizio era iniziata come una sfida: era bellissima, con lunghi capelli biondo chiaro e occhi azzurri come il cielo in primavera, e lui si era sentito immediatamente attratto da lei. Ma non si era innamorato subito; non sapeva neanche lui quando fosse successo, sapeva solo che dopo essere tornato a casa dal primo appuntamento aveva desiderato rivederla, e così dopo il secondo, e il terzo.
«Io direi che è Cath, l’esperta di relazioni» lo prese in giro Will.
George sbuffò e non disse niente, perché sapeva che Will aveva ragione.
Rose andò a sedersi vicino a lui, appoggiando la testa alla testiera del letto e allungando le gambe davanti a sé. Will li raggiunse e si sedette di fianco a Rose, così che la ragazza fosse stretta tra i due parabatai.
«Come faccio a capire se è uno stronzo?» chiese Rose.
«Escici insieme un po’ di volte e lo saprai» disse George.
«E come faccio a capire se gli piaccio?» continuò Rose, intrecciando distrattamente tra di loro alcune ciocche di capelli marrone scuro. «Lo sapete che io non lo capisco».
«Gli piacerai di sicuro» disse Will con un sorriso. «Sarebbe un vero idiota altrimenti».
Aveva parlato in modo rilassato, come se il fatto che Rose avesse un appuntamento con un altro ragazzo non lo toccasse minimamente.
Rose arrossì leggermente sulle guance e alzò le spalle. «Non lo so».
«Se ti chiede di uscire un’altra volta, significa che è ancora interessato a te» disse George pensieroso. «Ce l’hai la runa anticoncezionale?»
Rose alzò un sopracciglio e Will guardò altrove, come se fosse sul punto di vomitare.
«Non credo di averne bisogno per il momento» rispose Rose. Poi inorridì. «O sì?»
George alzò le spalle. «Dipende da te, ma sempre meglio averla, no?»
Rose era diventata verde, ma non fece in tempo ad aggiungere altro perché il padre di Will, Jace, bussò alla porta e infilò la testa nella camera senza aspettare di essere invitato ad entrare.
«George, vuoi fermarti a cena?» chiese con un sorriso, lo stesso di Will. Poi notò Rose. «Ciao, Rose. Sei sempre più bella ogni volta che ti vedo».
«Papà!» esclamò Will. «Se devi entrare senza aspettare una risposta, puoi anche evitare di bussare la prossima volta».
Jace ignorò il figlio e continuò a rivolgersi a Rose: «Ovviamente anche tu sei invitata».
«Se posso, resto» disse Rose. «Oggi è l’anniversario di matrimonio di mamma e papà. Vent’anni, sapete… sarebbero quasi carini se non fossero i miei genitori. Meno sto nei paraggi e meglio è».
«Io invece passo» disse George, alzandosi dal letto. «Cath viene a cena da noi e la mamma ha deciso di cucinare le lasagne».
Jace e Will proruppero in versi schifati. «Stai scherzando, vero?» chiese Will. «Vuole forse avvelenarvi tutti?»
«Papà ha promesso che se la situazione è tragica, a metà cena ordina le pizze».
«E Cath?» chiese Jace. «Deve proprio amarti tanto per tollerare la cucina di Izzy».
George sorrise. «Cath adora la mamma e non ammetterebbe che cucina male neppure sotto tortura».
Era vero. Cath aveva perso la madre quando aveva dieci anni e da quel momento aveva vissuto solo con il padre, con il quale non aveva un buon rapporto. La madre di George, Isabelle, la aveva accolta come se fosse stata la figlia che non aveva mai avuto e Cath le voleva così bene che ogni volta che si fermava a cena da loro mangiava tutto quello che Isabelle le metteva nel piatto senza dire una parola.
Per il suo diciassettesimo compleanno, Isabelle le aveva preparato una torta a forma di cuore. Era disgustosa, oltre che mezza bruciata, ma Cath era stata così contenta che non solo si era messa a piangere per la commozione, ma ne aveva anche mandate giù due fette con una forza di volontà che George invidiava.
«Ci vediamo domani» disse a Will. Incrociò lo sguardo del suo parabatai e lo fissò per qualche istante, una muta domanda tra di loro: starai bene?
Will annuì, e George si rivolse a Rose: «Quand’è l’appuntamento?»
«Appuntamento?» saltò su Jace. «Quale appuntamento?»
«Papà, vattene» sbottò di nuovo Will.
Rose sembrava a disagio e lanciò a George un’occhiata velenosa.
«Logan Ashdown mi ha chiesto di uscire» disse. «E l’appuntamento è domani sera. Andiamo al molo di Santa Monica. Non facciamone una questione di stato però».
«Oh» disse Jace, spostando lo sguardo sul figlio. Poi sembrò riprendersi e ghignò, come se sapesse qualcosa che invece a loro era oscuro. «Ashdown hai detto? Il figlio di Cameron Ashdown?»
«Sì» rispose Rose, guardandolo curiosa. «Lo conosci?»
«Io no, ma i tuoi genitori sì. Tuo padre lo sa che esci con lui?»
Rose alzò le spalle. «Non ancora, perché?»
«Chiedevo solo» disse Jace ridacchiando. «Assicurati che sia seduto quando glielo dici».
Rose spalancò gli occhi, chiaramente confusa.
Il telefono di George suonò. Gli era arrivato un messaggio: Cath.
«Devo davvero scappare» disse. «Buona serata a tutti».
«Anche io vado» disse invece Jace. «Siccome ti fermi a cena, Rose, cucino io. Così puoi confermare ciò che sostengo da anni, cioè che cucino meglio di tuo padre».
Fece loro un occhiolino e sparì oltre la porta assieme a George, lasciando Will e Rose da soli.
 
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Rose stava osservando la porta con un leggero sorriso sulle labbra, e Will stava osservando lei. I capelli le ricadevano sulla spalla destra in morbide onde marrone scuro, lasciando scoperto un lato del collo. Gli occhi di Will lo trovarono immediatamente, come acciaio attratto da un magnete, come se non potesse farne a meno.
Erano ancora seduti vicini sul letto di lui, le braccia e le spalle che si toccavano. Will viveva per quei contatti casuali, per una mano sulla gamba, un bacio sulla guancia.
Rose alzò il capo e i loro sguardi si incrociarono. Lo aveva colto in flagrante, intento a guardarla come se fosse la cosa più bella che avesse mai visto, e lo era. Will cercò di rendere la propria espressione il più neutrale possibile, ma non distolse lo sguardo, e lei neanche. Per qualche istante Rose lo scrutò con la bocca leggermente aperta, come se fosse sul punto di dire qualcosa, come se fosse sorpresa che lui la stesse guardando in quel modo.
«Tuo padre è simpatico» disse invece. «Ma la cucina del mio, di padre, non la batte nessuno».
Will si stava sforzando di comportarsi in modo normale, di scherzare con lei come aveva sempre fatto, ma non ci riusciva. Era così stanco di fingere, così stanco di aspettare, così stanco di sentirsi come se ci fosse un peso sul suo petto ogni volta che cercava di respirare.
«Stai bene?» gli chiese lei, toccandogli piano la mano. «Sembra che tu stia per vomitare da un momento all’altro».
Will prese un profondo respiro e si impose di sorridere. «Sto bene, solo un po’ stanco. Questo pomeriggio io e George abbiamo trovato due mondani decapitati. È stato piuttosto… forte».
«Per l’Angelo!» Rose si portò una mano al cuore e spalancò gli occhi. «E non si sa chi è stato?»
«Non si sa niente, ma stiamo indagando. A quanto pare si sono verificati episodi simili anche in altre città» spiegò brevemente Will. Non voleva parlare di quell’argomento. C’era qualcosa in quei cadaveri, qualcosa che gli trasmetteva una strana inquietudine.
«E invece tu?» le chiese poi. «Come stai?»
«Bene» rispose lei, riprendendo a intrecciare i capelli distrattamente. Era una cosa che faceva spesso quando era nervosa. «Nessuno si era mai interessato a me prima d’ora, e non riesco a credere che il primo ragazzo che mi chiede di uscire sia proprio lui».
Se solo sapesse, pensò Will. Se solo spesse che lei è tutto ciò a cui penso prima di addormentarmi la notte e che se solo non avesse quella cotta per Logan le chiederei di uscire con me ogni giorno della nostra vita.
E ora era troppo tardi, perché tutto ciò che Will desiderava era che lei fosse felice, e se Logan Ashdown l’avesse resa felice, a lui sarebbe andato bene.
Will annuì. «Scommetto che un sacco di ragazzi vogliono uscire con te. Sono solo troppo codardi per chiedertelo».
E tra quelli, lui era il primo della lista. Non aveva paura di correre rischi quando si trovava davanti a dei pericoli: sua madre diceva che sotto quel punto di vista somigliava a suo padre e George si era preso più di una volta un bello spavento. Ma, quando si trattava di Rose, si sentiva come un ragazzino spaventato dal buio.
Rose scosse il capo. «Lo sai come sono io».
Lo sapeva. Rose faceva fatica a capire i sentimenti delle persone, tanto che talvolta poteva risultare fredda. Era riservata e aveva interessi diversi da quelli comunemente accettati dal Conclave, come ad esempio i computer.
«È proprio perché lo so che dico che gli piacerai per forza».
Rimasero così, a chiacchierare seduti vicini per parecchio tempo, come erano soliti fare, com'era normale per loro. Poi Rose poggiò il capo sulla spalla di Will e sospirò. «E tu?»
Will si immobilizzò. «Io cosa?»
«Non c’è nessuna ragazza che ti piace?» gli chiese piano, come se non osasse porgli la domanda.
In quel momento, Celine fece irruzione nella stanza, rigorosamente senza bussare, salvandolo dal rispondere.
«La cena è pronta» annunciò pimpante. «Ciao, Rose».
Rose e Will si allontanarono velocemente, e Will si sentì arrossire. Sua sorella maggiore lo stava guardando con malizia, e Will tirò un sospiro di sollievo quando lei non fece commenti.
«Ma no, non preoccupatevi» disse invece. «Bussare è passato di moda».
Celine si lanciò dietro le spalle i lunghi capelli rossi e si mise le mani sui fianchi. «Perché, stavate facendo qualcosa che non potevo vedere?»
Will la ignorò e si alzò dal letto, seguito da Rose.
«Ciao, Celine» le disse lei. «Come sta Sophia?»
«Bene, grazie» le rispose Celine mentre si incamminavano lungo il corridoio. «Sarebbe dovuta venire anche lei questa sera, ma ha avuto un imprevisto».
Celine e Sophia stavano insieme da anni ormai, e si sarebbero sposate a breve. Will era convinto che non ci fosse nessuno di più adatto per sua sorella, perché l’animo tranquillo e gentile di Sophia era in grado di calmare il carattere turbolento di Celine.
Will ricordava ancora di quando Celine aveva detto loro di essere bisessuale e di come suo padre si fosse messo quasi a piangere perché in quel modo non si sarebbe dovuto preoccupare solo per i ragazzi, ma anche per le ragazze che le facevano la corte.
Arrivati in cucina trovarono Elizabeth, che aveva quindici anni, già seduta a tavola con aria depressa, e i loro genitori che parlottavano davanti ai fornelli.
Will prese posto di fianco a sua sorella minore, mentre Rose e Celine si sedettero di fronte a loro.
«Ciao, pulce» disse Will a Lizzie, scompigliandole i capelli, biondi come i suoi.
Lei grugnì qualcosa di indefinito, ma non rispose.
«Che succede, Lizzie?» chiese Celine. «Ti hanno rubato la katana?»
Lizzie aveva scelto come arma la katana e si allenava con quella da anni, tanto che le aveva anche dato un nome.
«No, Dolly è al sicuro» rispose Lizzie. «Sono solo stanca. Marisol mi ha fatta lavorare più del solito oggi».
Marisol era la responsabile dell’allenamento dei ragazzi all’Istituto: aveva allenato Celine, Will e George, e ora si stava occupando anche di Elizabeth.
«Ciao, Rose» disse Clary, abbracciandola dal dietro e stampandole un bacio sulla guancia. «Come stanno Emma e Julian?»
«Troppo bene» borbottò Rose. «Così bene che sono dovuta scappare di casa. Grazie per l’ospitalità, a proposito».
Jace li raggiunse al tavolo con una grande pentola tra le mani e si sedette a capotavola, di fronte a Clary. «Salutali da parte nostra. E di’ a Julian che se vuole gli insegno qualche trucco in cucina».
Rose si mise a ridere. «Lo sai che lo prenderebbe come un insulto, vero?»
«Sì» fece Jace. «Lo so benissimo».
Will si era imbambolato a fissare Rose che rideva e parlava con i suoi genitori, pensando che avrebbe tanto desiderato fare uno sgarro alla sua regola e prendere carta e penna per ritrarla. Will amava disegnare, passione trasmessagli da sua madre, ma da quando aveva capito di essere innamorato di Rose si era ripromesso che non l’avrebbe mai usata come soggetto per un suo disegno. Mai.
Celine gli tirò un calcio da sotto al tavolo e gli rivolse un’occhiata eloquente, e Will distolse subito lo sguardo da Rose. Non aveva mai parlato a nessuno dei propri sentimenti per lei, fatta eccezione per George, ma sua sorella Celine sembrava saperlo.
La cena trascorse con tranquillità, e Will riuscì a non guardare Rose per il resto della serata. Lizzie parlò loro dei suoi progressi con la katana e Celine li aggiornò sui preparativi del matrimonio. Anche Will raccontò alle sue sorelle quanto accaduto quel pomeriggio con George, riuscendo quasi a dimenticarsi di Rose e Logan Ashdown.
«Rose, se vuoi puoi stare qui tutto il weekend» le propose Clary. «Sai che sei sempre la benvenuta».
Will avrebbe tanto voluto che accettasse, ma sapeva che non era possibile.
«Non può» disse infatti suo padre. «Rose ha un appuntamento domani».
«Un cosa?» esclamarono in coro tutte e tre le donne Herondale.
«Con chi?» chiese Clary.
«E' bello?» chiese invece Celine, beccandosi un’occhiataccia da parte di Jace.
Rose era diventata bordeaux e Will si sentì male per lei. «Fatevi i fatti vostri» disse infastidito. Neppure lui aveva voglia di parlare di quell’argomento.
Celine lo guardò con un’espressione indescrivibile e Will scrollò le spalle, ignorandola. I suoi genitori invece parevano stupiti.
«Non c’è problema» disse Rose, spezzando la tensione. «È Logan Ashdown».
Clary si portò le mani alla bocca e Will si domandò come mai i suoi genitori fossero così divertiti dal fatto che Rose stesse per uscire con un Ashdown.
«Il figlio di Cameron Ashdown intendi?»
«Proprio lui» rispose Jace al posto di Rose con un sorrisetto.
«Oh cielo» sospirò Clary. «E Julian lo sa?»
Rose sembrava davvero perplessa. «Che problema c’è con Cameron Ashdown?»
«Nessuno» risposero Jace e Clary all’unisono, lasciando tutti ancora più confusi.
«D’accordo» si intromise Celine. «Ma è bello, Rose?»
«Mmm». Rose ci pensò un attimo. «Suppongo di sì».
«Come supponi di sì?» chiese Lizzie. «Quando ti piace qualcuno pensi che sia la persona più bella sulla faccia della terra».
Will la guardò storto. «C’è qualcosa che devi dirci, Liz?»
«Già» fece suo padre pungente. «C’è qualcosa che dovresti dirci?»
Lizzie era diventata dello stesso colore dei capelli di Celine. «No no. Chi, io? Niente».
«Non c’è nessun problema se hai un fidanzato, tesoro» le disse Jace con un sorriso. «Devi solo invitarlo a cena. A proposito» continuò, rivolgendosi ora a Will. «Tu e George dovete assicurarvi che Rose stia con un tipo che la meriti. Julian è troppo educato per dare del filo da torcere ai suoi spasimanti, quindi dovrete farlo voi».
Lo stomaco di Will sprofondò. Si sentì come se avesse ingoiato della sabbia.
Rose sbuffò. «Non ce ne sarà bisogno».
Will non era sicuro di riuscire a parlare, perciò si limitò ad annuire.
«Sarà meglio che torni a casa». Rose sollevò la manica della maglietta e controllò l’ora. «O i miei genitori potrebbero iniziare a preoccuparsi».
«È vero» concordò Jace serio. «Julian potrebbe pensare che hai deciso di trasferirti qui perché cucino meglio di lui».
Rose si mise a ridere e non rispose. Will sospettava che Rose preferisse come cucinava suo padre, Julian, ma che fosse troppo gentile per dirlo.
«Ti accompagno». Will si alzò e si diresse con Rose nel corridoio.
Prese lo stilo e iniziò a disegnare un nuovo portale.
«Fammi sapere come va» disse una volta che ebbe terminato. «L’appuntamento, intendo».
Rose lo stava guardando. La luce del portale conferiva ai suoi occhi una sfumatura quasi innaturale, come se questi fossero due pietre preziose. Will deglutì.
«Certo» disse lei, sollevandosi sulla punta dei piedi e dandogli un bacio sulla guancia. «Buonanotte, Will».
Will chiuse gli occhi e sì portò una mano al viso, dove le labbra di lei gli avevano sfiorato la pelle.
«Buonanotte» sussurrò. Ma quando aprì di nuovo gli occhi, lei era sparita.
 
NOTE DELL’AUTRICE
Avete conosciuto George, Rose e gli Herondale in questo capitolo. Così è come me li immagino io, ma mi rendo conto che abbiamo proprio carta bianca quando si tratta della “seconda (o terza?) generazione”, quindi spero vi sia piaciuta la mia rappresentazione.
Nel prossimo capitolo conoscerete Cath e capirete meglio il rapporto Cath/padre di Cath, e Cath/George. Ah, ci stanno anche Julian e Emma nel prossimo :D.
Si vi va di lasciare una recensione e farmi sapere cosa ne pensate a me fa solo piacere. <3
Grazie e a settimana prossima,
 
Francesca
 
  
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