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Autore: Nirvana_04    13/08/2017    2 recensioni
STORIA FANTASY-STEAMPUNK
Sequel di "CIELI SENZA CONFINI"
Jude Hauk e Moris Lautner, salvando il primo la sorella e il secondo il regno, hanno aperto il mondo e i suoi cieli. Non ci sono più confini, e adesso il capitano della Marsadde può navigare verso l'infinito... se non fosse che la sua nave è nelle mani della Marina di Midra e lui si trova bloccato con il suo villaero sopra le terre sconosciute e nemiche di Kabu-Ealim.
Una città davvero strana con strane e rigide regole. E, si sa, al nostro pirata, le regole stanno troppo strette. Una nuova avventura all'insegna della libertà e delle spericolate inventive della cara sorella di Jude, Selene.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cieli senza confini'
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Capitolo 2
Maschera grigia
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il capitano Jude Hauk aveva un diavolo per capello, e questo Arci lo doveva aver capito, perché si mantenne piuttosto silenzioso per tutto il tempo della loro perlustrazione. Selene gliel’aveva fatta sotto il naso, ancora una volta. Jude sbuffò e nascose le mani nelle tasche del suo soprabito. Non le era bastata l’ultima volta, in cui per una sua avventatezza si era fatta catturare l’anima dalle silfidi; adesso se ne andava a spasso con le sue nuove comari, con i capelli tinti di rosso e la pelle inscurita in un color miele solcata da strani disegni. Egli tirò una pedata a un sassolino, facendo sussultare alcuni uomini con le maschere grigie sul volto. Proprio non sopportava l’idea della sua sorellina in pericolo, eppure doveva ammettere che ci sapeva fare. Come sempre, del resto. Ripensò a come gli aveva tenuto nascosto il suo cambio di capelli e come aveva dissimulato la cosa con una faccia noncurante, quasi annoiata; invece lo aveva fatto per mischiarsi con le aimra, il cui colore delle chiome si manteneva su tinte di mogano o rosso. Doveva capirlo: sua sorella non si annoiava mai, non lo avrebbe permesso a nessuno. Bastava pensare a quella volta che…
«Hauk, dove stiamo andando?» domandò Arci, tastando il terreno con un tono remissivo. Non gli riusciva molto bene.
Jude era troppo di pessimo umore per mascherare la sua irritazione. «Andiamo a dare un’occhiata alle Pale.»
«Pale?»
«Pale.»
Vide Arci fare spallucce e incurvarsi, pronto a sopportare il non sapere per quieto vivere. Ecco cosa succedeva a non poter contare sui suoi uomini. Fedrik era inutile se non riusciva a tenera ferma una ragazzina – come se lui ci riuscisse – e Arci diventava più insostenibile quando tentava di stare zitto o calmo. Peggio se entrambi.
«Sapevi che Selene se ne andava in giro per la città?» domandò, forse con troppa enfasi.
«Tsk! E ti sorprendi?» si fece scappare. «Quella strega ha il pepe sotto il c… i piedi.»
Jude borbottò. Arci conosceva Selene da quando era in fasce, il termine ʻstregaʼ era un nomignolo affettivo detto da lui. No, quello che lo indispettiva era la naturalezza con cui Arci accettava la cosa. «Finirà che dovrò legarla all’albero maestro della nave.»
«A quale nave?» fece per far scomparire le sopracciglia sull’alta fronte, ma i capelli erano troppo corti per inghiottirle. Jude sogghignò ferinamente. Arci mugugnò a labbra chiuse, poi continuò: «Come intendi legarla? Perché l’ultima volta che ho provato a chiuderla nella stiva, ho rischiato di perdere un occhio. Donne!» sputò.
«Ti manca Sexstapor, eh, amico mio?»
«Quelle sì che sono fatte per gli uomini come noi. Ma tua sorella, Hauk, metterebbe in fuga un intero manipolo di uomini come il generale. Forse è per questo che quella carogna leccaculo se l’è data a gambe.»
«Vecchio mio, la cortesia non è qualcosa di stretta proprietà imperiale. Va coltivata anche tra le strade. Sta zitto!» lo ingiunse, arrestandosi di botto.
Arci, per tutta risposta, mise mano alle due corte spingarde a doppia canna, le dita sugli acciarini pronte a innestare i proiettili di stagno imbevuti di veleni chimici, e acuì lo sguardo, sul chi vive. Ma per quanto silenzio si fosse creato intorno a loro, nessun suono ruppe la bolla di solitudine che li permeava.
Jude alzò un sopracciglio mentre Arci faceva spallucce e riacquistava la sua postura rilassata. «Selene ha fatto amicizie interessanti quaggiù.» Continuarono a dirigersi verso le colline nell’entroterra, dove i tetti a padiglioni erano più grandi e complessi, a volte si potevano studiare strutture con più ali, sempre più isolati dalle altre, con un grande complesso di parchi e giardini intorno. Le mura non erano alte, tanto quanto bastava per far scorgere solamente la chioma degli alberi dai tronchi esili; i portoni d’ingresso erano squadrati e robusti, molti era sormontati da bassorilievi, e sopra ogni cardine vi erano piccole statue raffiguranti animali alati o elaborati geroglifici con i nomi delle famiglie. «Molte donne di questi quartieri le hanno raccontato quanto è piacevole vivere sulle colline, dove la terra dovrebbe essere più arida e il caldo più afoso.»
«In effetti comincia a fare caldo» borbottò quello.
«Ma è un caldo strano. Umido e appiccicoso. Nulla a che vedere con l’afa delle estati di Bellapor.» L’altro annuì. Si appiattirono lungo un muro imperioso e iniziarono ad arrampicarsi verso la grande strada che saliva a monte dei colli. «Questo perché gli zaeim hanno trovato un modo per fabbricare l’acqua piovana. Ci sono delle ruote a spirali» gli spiegò con un po’ di fiatone, «talmente potenti da perforare il terreno, e grandi pale che raccolgono e incanalano l’acqua. Da come me le ha descritte Selene, sono di buona lega.»
Non aggiunse altro, non ce n’era bisogno. La strada curvò d’improvviso verso sinistra e davanti ai loro occhi apparve lo strano complesso descritto dalla fanciulla. Alte aste di ferro innalzavano pale enormi, le quali ruotavano a una velocità tale che le vibrazioni si ripercuotevano sul terreno. Grosse buche e strani tralicci risucchiavano l’acqua e la raccoglievano in grosse cisterne; altri cavi la portavano, a seconda del fabbisogno degli zaeim, in alto, dove le pale la catapultavano a folle velocità sul terreno verdeggiante. Un rumore sibilante, che perforava i timpani, percuoteva l’intera zona. Arci gli diede di gomito e indicò, storcendo il muso, verso le buche. Il capitano Hauk gli fece segno di attenderlo lì e si avvicinò di soppiatto all’impianto. Ogni cosa era fatta di diams, e quella strana lega sembrava indistruttibile. Il terreno era stato martoriato da qualcosa che lui non riusciva a vedere; grossi fori avevano ferito l’intera collina e gli avvallamenti tra quelle e le altre sue sorelle. La zona sembrava deserta, nessun uomo muoveva le macchine. Hauk si avvicinò con facilità, i sensi in allerta, e gettò uno sguardo alla buca più vicina. Era vuota. Il buco era talmente profondo che non si riusciva a scorgerne la fine. Stringendo i piccoli occhietti, si diresse verso quelle da cui proveniva lo strano rumore. Un fischio sottile e fastidioso si alzava dal pozzo e quando Jude vi avvicinò la testa, dovette ritirarla in fretta. Un syd era al lavoro nella fossa, a cavalcioni su uno strano aggeggio. Assicuratosi che quello non si accorgesse di lui, il pirata si appiattì controvoglia sul terreno e sporse un po’ il capo. Un aggeggio trivellava il suolo, scavando con voracità la terra. Non uno zampillo fuoriusciva dal foro, ma lui poteva sentire l’odore di terra bagnata stuzzicargli il naso. Si ritirò e diede un’occhiata veloce alle buche abbandonate, nella speranza di trovare una di quelle macchine inattive, per poterla studiare con tranquillità. Ne trovò una alla settima buca che controllò, al centro di quell’impianto. Gettò uno sguardo verso il confine della “fabbrica” e, assicuratosi che Arci non fosse troppo in vista, si calò con un salto nella fossa. Non era molto profonda, probabilmente era una delle più recenti. Si era accorto che le fosse più vicine alla città erano abbandonate e che il lavoro dei syd si spostava sempre più verso l’entroterra. Anche quella riserva d’acqua sarebbe finita prima o poi.
Dentro il pozzo, acquattato sopra lo strano macchinario, il capitano Hauk ne studiò la strana forma: era a cono, con due grossi anelli tra cui un uomo si poteva facilmente sedere a cavalcioni, e terminava con una grossa punta che, se messa in azione, sarebbe stata in grado di perforare il fasciame di qualsiasi nave. Jude ghignò, prese nota dei particolari e s’issò fuori. Il sole caldo era più insostenibile a causa dell’umidità. Si asciugò la fronte con una mano guantata e lanciò nuovamente un’occhiata verso il muretto, in fondo al pendio. Un lampo si riflesse sulla maschera grigia di un alramadi prima che questi scomparisse dietro la pietra. Hauk rotolò a passo svelto verso valle e raggiunse Arci, il quale aveva già una mano sulla corta spingarda.
«È sparito, ma lo riprendiamo se…»
«Lascia stare. Se voleva lanciare l’allarme, lo avrebbe già fatto.» Gli piantò una grossa palmata sulla schiena che lo spinse in avanti di due passi. «Su, coraggio. Non avevi fretta di tornare su?»
«Sarà» borbottò quello una volta che furono sotto Crowsand, «ma io quello lì lo avrei fatto fuori. Non si sa mai.»
Jude tirò avanti, ignorando l’ombra deliziosa che il villaero proiettava sul quartiere, e si addentrò nuovamente tra i quartieri dei syd più poveri, quelli che vivevano sulla costa.
«Dove diavolo stai andando?» ringhiò come un cane ferito.
«A incontrare il nostro amico, che tu volevi uccidere.» Jude continuò a camminare e Arci dovette corrergli dietro per sentire le altre sue parole. «Ci parliamo, così fate conoscenza. E poi è ora di arruolarlo. Domani salpiamo via da qui.»
Arci sgranò gli occhi e si arrovellò per capire cosa lo sbalordiva di più: l’arroganza del capitano o l’idea di arruolare una maschera grigia. Tra le due, decise di iniziare a lamentarsi della seconda; alla prima, suo malgrado, c’era abituato.
 
 
Lo trovò lì, esattamente dove lo aveva lasciato. Una figura solenne di fronte alla sconfinata linea del mare. Eppure sulle sue spalle gravava un peso, Jude poteva scorgerlo dalla postura rigida con cui quello si ostinava a rimanere fermo lì, a un passo dall’ombra della torre dell’orologio, lo sguardo a perforare un segreto proibito.
Jude lo affiancò, lo sguardo in ammirazione verso quel tratto di mare che sfiorava il cielo, la sua casa. «Di un uomo mi affascina sapere solo una cosa» si voltò a guardarlo, «hai qualche rimpianto?»
Nessuna espressione poteva essere carpita da quella protezione di ferro, ma il pirata poté sentire il fiato raschiare il metallo, un suono che sembrava giungere da cavità di orrore. «Io non sono un uomo.»
Il capitano Hauk sorrise. Era pronto a quella risposta. «Oh, sì, ho studiato il caso della tua gente.» Scacciò la faccenda con la mano e un ghigno sotto la bandana. «Siete i reietti, la feccia della città. Nessuno vuole avere a che fare con voi e comunque servite ai loro giochi. Ma, è questo il punto, perché servire? Lascia sprofondare questo mondo nei suoi pantani di vana glorificazione di falsi dei e uomini avidi. Lascia che ti mostri il cielo, non ci sono limiti lassù.»
Le mani dell’alramadi scattarono come tenaglie verso il bavero del suo soprabito. «Straniero, fa arretrare la tua arroganza. Io ero destinato a essere ʻuomo avidoʼ prima di diventare niente.» Le sue mani ebbero un tremito che egli fu lesto a dissimulare dando una scrollata alla stoffa. «Vedi di riprendere la strada per l’arida terra azzurra, prima di essere dato in pasto alle fauci rabbiose di Akteìr.»
Jude tese prontamente un braccio alla sua sinistra. «Sta’ calmo.»
La stretta si fece serrata.
«Ehi, maschera grigia» lo apostrofò con la bava alla bocca il secondo in comando, l’arma già ben piantata verso il suo cranio fermata solo dall’ordine del capitano, «vedi di ritirare le corna. Così come sono adesso sono un facile bersaglio, latta avariata.»
Il capitano sbuffò con un’espressione di scuse sul viso. «Arci, il secondo in comando della mia nave. I suoi modi lasciano a desiderare, ma la sua mira è una vera chicca.» Con una minaccia velata e movimenti misurati, riacquistò la sua amata libertà. «Selene mi ha parlato di questo, non pensavo fossi uno dei ʻcaduti in disgraziaʼ. Destinato a grandi cose, eh? Come salpare per l’onorevole distesa blu?»
L’uomo piegò il capo di lato. Il suo collo si stava sgranchendo, i suoi muscoli erano un fascio di nerbi irati. «Uomo del cielo, tu bestemmi. Akteìr ha avvelenato le acque che ci circondano, e intanto la mia terra muore. Tanta acqua, e non poterla bere a causa del demonio che continua a perseguitarci, nonostante Iilah ci protegga con la sua luce.»
«O-oh, santa martire dei bordelli. È pazzo!» non riuscì più a trattenersi Arci. «Vuoi arruolare un pazzo. Chiedo la raccolta!» sbraitò con gli occhi di fuori e le mani preda di un attacco di convulsioni.
«Non essere stupido, vecchio mio. La raccolta lasciala a quelli che razziano senza dignità anche le tasche dei mendicanti» roteò gli occhi. «Il nostro amico sa quello che gli hanno detto. Ora ci parlo io.» Tornò a concentrarsi sul giovane, il quale non aveva pensato neanche per un attimo di abbandonare la sua postazione di vedetta. «Qui tutti hanno un compito. Perché tu te ne stai qui, a guardare il mare?» gli chiese. Non ricevette risposta, ma non gli serviva. Continuò: «Non sei arrabbiato? Non vuoi risentire i raggi del sole toccare il tuo viso?» Il fiato, dentro la maschera, ruggì come un leone in gabbia, nolente. Jude assaporò la vittoria. «L’acqua avvelenata è sempre stata salata. Ci sono corsi d’acqua, però, dove questa scorre limpida ed è buona da bere. Ci sono luoghi in cui Iilah non affoga tutto nella luce e c’è l’ombra, che non è nera, ma è fatta di pezzi di sole molto piccoli. Non vuoi vederli?»
«Il buio è il regno di Akteìr. Demonio chi osanna la sua terra» cambiò posizione, adesso in guardia da quelle infide parole.
«Oh, adesso basta, Hauk. Senti, maschera grigia» lo pungolò con la bocca della spingarda, «qui si crepa dal caldo, ed è quella stramaledetta luce, che non dà tregua, la causa. Il mare dà pesci, qualche tentacolo troppo grosso che rischia di rompere la prua delle navi, a volte una bella sirena con la coda che è meglio uccidere perché non ci puoi fare altro. Di certo, se non gli togli il sale, lui non ti toglie la bile. Quindi tieniti ferro» indicò con l’indice e il medio la maschera, «luce» le puntò verso il cielo, «e idiozia. Di scrofe, a bordo, ne abbiano già. Grazie.» Fece per girare sui tacchi, poi si ricordò di aggiungere: «Tu vedi solo di non seguirci più. La tua stupida maschera mi ha accecato un occhio.»
Il capitano Hauk afferrò l’amico da una spalla e si concentrò per non strozzarlo sul posto seduta stante. «Pensa alla mia offerta, uomo dal grande destino» non poté fare altro che concludere. Quante volte si era ripromesso di non portarsi dietro Arci quanto contrattava un affare? «Ormai, per te, qui, c’è solo quella maschera, non puoi toglierla. Con me vedrai molto più di quello che io possa dire a parole. Persino il mio amico qui non potrebbe raccontarti tanto.» Strattonò il suo secondo con tanta voglia di sballottolarlo, ma Jude non perse la sua naturale grazia. «Sei un ragazzo intelligente, hai visto cosa voglio» sorrise. «Se vuoi, sai dove trovarmi.»
Il pirata sfiorò il suo tricorno a mo’ di saluto e si trascinò dietro l’amico. Contò e arrivato a cinque la voce del ragazzo lo fermò. Meno del previsto, ghignò. «Sì?»
«Portare una maschera, ripetersi che sei niente, non funziona. L’uomo resta comunque uomo. E ci sono diversi tipi di uomini-che-sono-niente dietro le mascher: molti si annullano nel lavoro, altri cercano disperatamente un modo per risalire, anche se non c’è. Io non ero quello che ti ha seguito» concluse.
Il capitano Hauk stridette la mascella di ferro. «Hai ragione, un uomo resta un uomo. E tu, che tipo di uomo sei?» Con tranquillità, tornò verso la sua nave. Adesso però i suoi piccoli occhietti erano vigili e la sua mano guantata, ancora aggrappata al corsetto di Arci, si strinse con fare cospiratorio, maledicendo la fiducia riposta in quella gente maltrattata. Arci aveva provato a dirglielo, ma lui aveva dimenticato che non tutti riversano il proprio odio verso il giusto bersaglio.
Senza darlo a vedere, Jude si stava già preparando al peggio.
 
 
«Capitano, capitano.» La voce di Spike, il pirata che sulla Marsadde se ne stava sempre sulla coffa o arrampicato sopra qualche sartia, si catapultò ai suoi piedi appena Hauk fu salito sul villaero, incapace di stare fermo, zigzagando come un insetto a destra e a sinistra. «Capitano, brutte cose ho veduto, capitano.»
L’uomo aveva una benda sopra un occhio, ma solo perché era stato costretto da Arci a portarla. La palpebra che nascondeva aveva un fastidiosi tic che innervosiva il suo secondo. Ora tutto il corpo dell’uomo era un’irritante contrazione nervosa. «Spike, vieni al punto.»
«Ho veduto lontano, con l’occhio calmo, e poi l’ho aiutato un poco con quello coperto. Non c’era mastro Arci e ho pensato di vedere meglio, così che è bene. Ma male, capitano» si mangiò le mani dall’agitazione.
Arci lo afferrò dalla cinghia. «Giù le braghe o sputa anche sangue, idiota. Che hai visto?» domandò diretto.
«Madame Selene è stata presa» strepitò. «Ohi, capitano, ho veduto troppo bene…»
«Chi? Dove? Come? E Perché?» domandò con tono imperioso e sguardo attento, gli occhi neri che mandavano fulmini e invocavano tempesta.
Spike sembrò tremolare come colpito da una scossa. Rispose: «Quelli delle navi sono sbucati sulla terra e l’hanno ghermita, portando via anche una maschera grigia. Persone strane con respiratori d’oro e senza valvole d’ossigenazione. Sono spariti dentro la torre dell’orologio. Il perché… oh, capitano, non lo so, ma l’ho scorta poco fa su una scialuppa di quelle navi» si agitò.
Arci lo surclassò con il suo tono iroso e una bestemmia pronta sulla punta della lingua bucherellata. «E cribbio, se quella strega non mi farà perdere i capelli. Avevo giusto pensato di appendere la corda di salvataggio al chiodo. Senti, capitano, riguardo a legarla…»
«Ottima idea, Arci» sorrise il pirata, un pugno che frantumava il vuoto, «ci servono corde. Chiamate i pescatori del villaero, ci serviranno per una pesca speciale. Bait è riuscito a trovare un modo per spostarci almeno un po'?»
«Sì, capitano» gli urlò qualcuno.
Hauk inspirò, pensando a quale maniera fosse quella migliore. Poi rise, sorprendendo tutti. C’era una sola via che un uomo come lui poteva percorrere, e anche in quello Selene aveva avuto ragione. «D’accordo uomini. Tutto è dove deve essere. Adesso in posizione. Andiamo all’arrembaggio!»
 
 
 
 
Le molle della sedia cigolavano fastidiosamente. Il metronomo sopra la scrivania, ereditato insieme a tutto il resto dell’arredo dal pirata, era un costante ticchettio che scandiva il tempo a tutto: degli stralci passati sopra il ponte di coperta, delle canzoni stonate che giungevano dalla cucina, dei barili caricati nella stiva; della sua vita, del tempo infinitesimamente esiguo che gli restava, di quel maledetto tarlo che stava rodendo la sua coscienza. Il metronomo era nero, con gli ingranaggi a vista e le rifiniture placcate in oro di basso carato rappresentanti putti e donne ignude. I simboli parevano provenire dalle Terre Estinte e raccontare storie che non erano più conosciute da essere umano vivente.
Moris Lautner si chiese per quale motivo un pirata dovesse avere un metronomo nella sua cabina. Ma Jude Hauk non era un pirata qualsiasi, no, troppo semplice sarebbe stato il lavoro del generale altrimenti. Il capitano della Marsadde era un nemico giurato della corona di Midra, contrabbandiere e malvivente che rubava e saccheggiava le navi dei loro alleati o delle Congreghe delle Isole Minori, le cui fonti di ricchezza sembravano infinite; era anche un uomo d’onore e con una visione, dedito alla libertà che si era costruito nei cieli e protettore delle persone che amava e rispettava, e con le quali aveva contratto un debito.
No, per il generale era diventato davvero difficile dargli la caccia, anche perché non ne conosceva più un motivo valido.
Qualcuno bussò alla porta della cabina di comando.
«Avanti» si aggiustò nella sedia cigolante.
«Signore» entrò un subalterno. Si avvicinò al tavole e gli tese un rotolo di pergamena sigillato con il simbolo reale di Midra. «Un messaggero l’ha appena portato per voi» scattò quello, salutandolo.
Il generale aprì la missiva e iniziò a scorrere le poche righe vergate sopra. A ogni frase che leggeva il cipiglio rossiccio si arcuava sempre più e i muscoli facciali si tendevano, impietriti.
«Brutte nuove, signore?» osò chiedere il marinaio.
Moris Lautner giunse all’ultimo rigo e saltò sulla sedia. Strinse la mano a pugno, tanto che la pergamena si accartocciò. «Potete andare, ufficiale Sartez.»
Il marinaio salutò e uscì velocemente dalla cabina.
Il graduato della marina di Midra serrò le mani dietro la schiena, onde evitare movimenti bruschi e impulsivi, e si affacciò alla vetrata alle sue spalle, la quale si gettava direttamente sul ponte di comando. Da lì poteva vedere il nostromo del suo equipaggio appoggiato comodamente contro il timone, a guardare i marinai lucidare il ponte e sbrogliare le vele. In un attimo di melanconia, il generale pensò di star tenendo in tiro la nave per il ritorno del pirata. Scrollò il capo e tornò a rileggere la nuova missione assegnatagli dal comando della marina. Il pirata Johanne aveva scoperto, durante uno dei suoi liberi vagabondaggi per cielo, un piccolissima flotta di vascelli e zeppelin, sfuggiti al controllo reale, che aveva sedimentato tra gli alberi cavi sopra Falknear. L’uomo si era insospettito e, dopo accurate ricerche, fatte in nome dell’alleanza che lo legava alla regina, aveva scoperto che erano per lo più fuggiaschi e ribelli che si preparavo a fomentare una ribellione tra le colonie e le città più periferiche del regno. Così sua maestà invocava il suo intervento per distruggere, ancora una volta, quel popolo ingrato che minacciava la serenità del regno.
Ogni parola della missiva era una pallottola di piombo conficcata nello stomaco per il generale, il quale s’appoggiò con un braccio contro il vetro e pose sopra la fronte, preoccupato. La sua regina lo stava allontanando da lei, tenendo in conto i consigli e i pensieri di un pirata, e ignorando le sue riflessioni sulla corte e il popolo. Elzeth era una sovrana dal pugno di ferro, che serviva il regno ma che non aveva mai camminato veramente tra le sue strade. Poteva vivere in nome della nazione – e la sua regina viveva solo per essa sin dentro il suo cuore, solo lui sapeva quanto aveva sacrificato – ma questo non le permetteva sempre di fare la cosa giusta. Era anche una donna orgogliosa e testarda: non si sarebbe fatta abbindolare dal pirata, ma non avrebbe arretrato di un passo dalla decisione presa.
Chiamò nuovamente l’ufficiale Sartez e ordinò di preparare la partenza, poi restò nuovamente solo, dalla sua privilegiata posizione, a vedere i suoi uomini in fermento.
Il generale Moris Lautner pensò che era strano per uno del suo rango salpare in missione reale con una nave pirata sequestrata, ma visto il peso che gravava nel suo animo e ciò che si prestava a fare, non poté non pensare che quell’accoppiata era quantomeno adeguata alla situazione. Egli, dopotutto, si prestava ad assalire un piccolo agglomerato di uomini che avevano appena assaggiato la libertà. Quella stessa libertà che lo aveva reso prigioniero di un vortice contrastante di doveri e responsabilità.
   
 
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