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Autore: LaFormicaElettrica    14/08/2017    2 recensioni
Un modo di vedere il mondo un po' "particolare".
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prendo l'arancio marcito nel palmo della mano e lo osservo.

Mentre la metà inferiore della buccia mantiene ancora il suo vitale colorito arancione, su quella superiore è emersa questa formazione crespa, compatta e grigiastra, che sfuma sul bianco nel punto in cui va a incontrarsi con la parte ancora intatta del frutto, e forma un'aureola bluastra sul polo opposto.

Se lo lasciassi ancora un po' lì da dove l'ho preso, solo sul fondo macchiato di nero della fruttiera, il grigio arriverebbe a coprirlo completamente, come un'orribile malattia.

Si chiama muffa questa malattia. È una delle tante manifestazioni della morte, e come tutte le sue manifestazioni era già contenuta dentro l'arancio. È nel suo cuore da sempre, com'è nel cuore di tutte le altre cose.

Basta che queste cose vengano abbandonate, lasciate fuori dalla memoria delle persone per un po' di tempo, ed ecco che la morte inizia ad emergere sulla loro superficie, trasfigurandole lentamente.

Se alzo gli occhi posso vederla espandersi in macchie nere e circolari agli angoli dei muri, mentre se abbasso lo sguardo sul tavolo al centro della cucina, ingombro di stoviglie sporche, strette e accatastate le une sulle altre, posso vederla formare dei morbidi batuffoli bianchi sugli avanzi di cibo.

Anche queste mosche che mi ronzano intorno vengono dalla morte.

Le loro larve, nascoste negli avanzi di qualche bistecca, crescono nutrendosi proprio dell'abbandono, e proprio su ciò che è abbandonato, scartato da tutti gli altri, vanno a posarsi quando gli crescono le ali.

Tutto questo marcire, tutto questo proliferare di morte in questa casa, è opera mia. Io l'ho voluto.

 

Da quando il vecchio ha smesso di muoversi, iniziando a mischiare i confini delle sue membra con quelli della poltrona e annegando il suo sguardo nel bianco del muro della sua camera da letto, io, non sentendo più il peso dei suoi giudizi intorno ai miei gesti, ho smesso di curarmi di tutto.

 

Ogni tanto, per un riflesso difficile ad estinguersi, continuo a sentire come se il suo sguardo fosse ancora posato su di me.

Ricordo che quando mi fissava in silenzio era come se riuscissi a vedere, in fondo ai suoi occhi, il modo in cui la sua mente mi dipingeva.

Per lui ero nient'altro che questa creatura immonda, che si aggirava tra le sue pareti e i suoi mobili, sporcandoli senza neanche toccarli, come se la sua insopportabile presenza si espandesse come un'aura per metri, esalandogli fuori dai polmoni e dai pori della pelle.

Il vecchio passava gran parte del suo tempo a pulire, disinfettare e lucidare tutte le sue proprietà dopo il mio passaggio, rivolgendomi la parola quasi esclusivamente per ordinarmi di andargli a ritirare la pensione, di fare la spesa e di mettere le pantofole quando entravo in casa.

Tutto questo ovviamente finchè la morte non ha iniziato a crescere anche dentro di lui, riducendolo a quel sacco di carne inerte che ora è, capace a malapena di succhiare cibo frullato su da una cannuccia.

 

Del resto anche questo suo lento decomporsi è causa mia.

Anzi posso dire che è proprio su di lui che ho sperimentato e compreso per la prima volta il potere dell'abbandono.

Dopo la morte della mamma, attraverso questi anni, l'unico tipo di contatto che ho avuto con lui è stato tramite questi pochi ordini che mi impartiva. Lasciavo che i suoi comandi prendessero e manovrassero direttamente le mie gambe e le mie braccia, come se stesse parlando ad un automa, a uno strumento vuoto da cui la mia persona fosse uscita, rifiutandosi di rispondere all'appello.

È così, con questa mia assenza, che l'ho fatto ammalare.

 

Sfilo un coltello dal mucchio di posate accatastate sul ripiano della cucina, poi poggio l'arancio sullo stesso ripiano e lo taglio a metà. Raccolgo il bicchiere meno sporco dal tavolo e ci spremo dentro il frutto con le mani. Spremo entrambe le parti, sia quella buona sia quella marcia. Poi sempre dal tavolo raccolgo una cannuccia e la infilo nella spremuta.

Ora porterò la colazione al vecchio, poi andrò alla posta a ritirare la pensione e infine tornerò qui,

a sdraiarmi su questo pavimento, adagiandomi in questo spesso letto di polvere e lanugine grigiastra.

 

C'è stato un tempo in cui la morte mi terrorizzava. Avevo paura di vederla spuntare all'improvviso fuori dalle cose e dalle persone, squarciando il velo sottile della loro bellezza.

Ricordo che, fuori dalla finestra della mia stanza, appeso sul palazzo davanti a quello in cui vivo, per un lungo periodo c'era stato il manifesto gigante di questa modella in biancheria intima. Ricordo quanto spesso mi ritrovassi inquieto a pensare a quella ragazza, alla sua vita fuori dal cartellone, lontana da quei riflettori che avevano reso la sua pelle così lucida e tonica, che avevano ritagliato via la sua immagine dal mondo per elevarla al di sopra della sua putredine. La immaginavo mentre paseggiava lungo un marciapiede, sotto il sole, con la fibbia delle scarpe che le sfregava fastidiosamente contro il piede e una macchia di sudore che le si premeva viscida tra la maglia e la pancia, mentre i pensieri le brulicavano in testa confusi e incompleti, mentre si accorgeva che alcuni di questi pensieri, nel fondo della sua anima, iniziavano a marcire irreversibilmente.

Ricordo che poi, nei mesi, logorato con lentezza e costanza dalla pioggia e dal sole, anche quello stesso manifesto aveva iniziato a marcire.

Mi accorsi però di come il lento scolorire della pelle abbronzata della modella e il macerarsi della carta, che si rompeva aprendosi sulla lastra di metallo su cui era incollata, inaspettatamente mi dava piacere.

Capii che se la morte mi inquietava era perché, in fondo al mio cuore, credevo che la bellezza fosse una cosa che andasse conservata, che c'era della nobiltà e della giustezza nell'ossessiva cura che il vecchio aveva per i suoi mobili e il loro aspetto. Mi resi conto che forse la vera nobiltà è nel lasciare andare le cose. Nel liberarle dalle catene della decenza in cui le persone continuano a stringerle e farle decadere, come è naturale che sia.

È per questo che, quando verrò qui a sdraiarmi a terra chiuderò gli occhi e, nel silenzio, ascolterò il dolce decomporsi di tutte le cose, il loro lento, rilassato, inesorabile marciare verso la fine del mondo.

 

   
 
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