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Autore: Adeia Di Elferas    16/08/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Cesare Riario setacciava il volto di sua sorella Bianca di sottinsù, con uno sguardo inquisitore che ultimamente non abbandonava quasi mai.

Quello che gli era appena stato detto lo aveva al contempo sorpreso e irritato. Non aveva ancora avuto il coraggio di chiedere a nessuno come fosse morto esattamente suo fratello Livio, ma quella mattina, essendosi trovato solo con sua sorella, che pareva l'unica tra i giovani Riario a essere davvero informata sui fatti, le aveva chiesto cosa ne sapesse.

Cesare sapeva che Galeazzo era rimasto nella stessa stanza di Livio quasi fino all'ultimo, ma il bambino non gli aveva voluto parlare di quel giorno funesto.

Similmente a come faceva la loro signora madre, il quasi undicenne Galeazzo, infatti, si era chiuso in un silenzio sacrale, quando si discuteva di certi argomenti e sembrava ben deciso ad andare avanti per la sua strada, senza rivangare troppo il passato.

Dunque non restava che chiedere a Bianca, che in effetti non lo aveva deluso e aveva riferito che Livio era morto, come si sapeva, per colpa dell'epidemia, anche se la malattia era stata molto aggravata dalle sue già molto precarie condizioni di salute, e che la loro signora madre era rimasta fino all'ultimo da sola con lui.

“Di certo l'ha confortato.” disse piano la ragazzina, che però si trovò a dover lavorare di fantasia, su quel punto: “L'avrà stretto a sé, gli avrà detto parole d'affetto...”

“Nostra madre?” chiese Cesare, con uno sbuffo beffardo e incredulo: “Figuriamoci! Io me la vedo, in un angolo, a guardarlo con occhio torvo mentre muore, pensando che si tratta solo dell'ennesima seccatura ricevuta come condanna per l'unione con nostro padre... Sì, si sarà messa lì a fissarlo, senza nemmeno avere un moto di...”

“Taci!” lo rimbrottò Bianca, cominciando a mettere a posto i libri che aveva sparso sulla scrivania in cerca di qualcosa di stimolante da leggere: “Nostra madre non è come la credi tu. Tu la vedi con il velo dell'odio, ma se ti sforzassi di guardare oltre..! Sei ingiusto. Di certo, ne sono sicura, ha abbracciato Livio fino alla fine. Non l'ha lasciato morire da solo.”

“Meglio una madre che ti è vicina quando sei viva, di una che ti abbraccia solo perché stai morendo.” ribatté con astio Cesare.

“Quando fai così, sembri Ottaviano.” lo riprese la ragazzina, senza più guardarlo.

Quella frase parve accendere qualcosa di molto spiacevole nel giovane, che si rabbuiò e abbassò la voce: “Io non sono come Ottaviano.”

La sorella smise per un momento di muovere le mani sulle copertine di pelle pregiata che stava fingendo di controllare. Il tono con cui Cesare aveva parlato le aveva messo i brividi. Per un momento, si era chiesta chi fosse diventato peggiore, tra lui e Ottaviano.

“Ah, sì? Sei diverso da lui? E perché? Solo perché preghi tutto il giorno?” rimbeccò Bianca, prendendo un volume a caso, l'ultimo che era rimasto fuori dallo scaffaletto.

“Hai la lingua troppo affilata, per essere una donna.” notò Cesare, risentito.

“Vattene in Duomo a dire i tuoi rosari, prete.” lo liquidò la ragazzina, che era stufa di prendere ordini dai suoi fratelli, Cesare primo fra tutti.

Il suo atteggiamento paternalistico da prelato la irritava sopra ogni altra cosa. Da quando Ottaviano era stato liberato ed era diventato un mezzo emarginato, Cesare sembrava essersi ammantato della responsabilità di tenerla sott'occhio, come un tempo faceva il fratello maggiore.

Era una guardia meno perentoria e meno aggressiva di Ottaviano, ma a Bianca stava stretta comunque. Benché riuscisse ugualmente a passare del tempo coi suoi amici – perché tali considerava la maggior parte dei soldati della rocca – Cesare era sempre dietro l'angolo a rimbrottarla, se si accorgeva dei suoi passatempi.

Il ragazzo sbuffò e, prendendo tra le dita il crocefisso che portava ormai sempre al collo, la salutò con freddezza: “Dio sia con te, sorella.”

Bianca lo guardò uscire, poi, quando fu certa di essere sola, si lasciò cadere sulla poltrona, stringendosi il libro al petto, e sospirò.

Non poteva dirsi del tutto contraria a quello che Cesare aveva detto della loro madre, ma non se la sentiva di attaccarla a quel modo. Non dopo tutto quello che aveva passato.

Si rendeva conto lei per prima della difficoltà provata dai fratelli maggiori ad accettare la loro signora madre per quella che era. Però, se fossero stati del tutto onesti, avrebbero potuto capire che in giro c'era di peggio e che quello che le avevano fatto era gravissimo e dovevano solo esserle grati, se non erano finiti appesi a una forca.

“Oh, madonna Bianca...” fece una delle cameriere, quando, entrando nella sala di letture, trovò la ragazzina assorta sulla poltrona.

Questa fece mostra di non essere infastidita e chiese: “Cercavate qualcuno?”

“Vostra madre, per la questione degli abiti di messer Livio...” spiegò la donna: “Sapete dirmi dove la posso trovare?”

Bianca era quasi sicura che sua madre fosse ancora chiusa nella stanza dell'ambasciatore di Firenze assieme a messer Medici.

Quando vi era passata davanti, aveva sentito delle voci, e così si era fermata a origliare, approfittando del fatto che non ci fosse nessuno in corridoio.

Dopo pochi istanti, tenendo l'orecchio contro il buco della serratura, per sentire meglio, sentì ridere e poi riconobbe nettamente la voce di sua madre mescolarsi a quella di Giovanni Medici.

Le sembrò, da qualche parola e frase spezzata, che stessero parlando di un uomo che si era finto muto per essere assunto come tuttofare in un convento e che poi era invece diventato l'amante di tutte le suore, badessa compresa. Le era parsa una cosa così campata per aria che, si era detta, doveva trattarsi della trama di qualcuno degli strani libri che il toscano aveva portato con sé.

Non volendo sentire oltre, era andata avanti a marce forzate e aveva cercato di non pensarci più.

Era abbastanza certa che non stessero facendo nulla di sconveniente, soprattutto perché il castellano Feo aveva detto di aver visto coi suoi occhi che il fiorentino non stava bene in quei giorni.

Malgrado ciò, l'inquietudine che l'aveva presa nell'immaginare altrimenti e nel pensare all'eventuale reazione non tanto, ormai, di Ottaviano, quanto di Cesare, l'aveva portata ad archiviare all'istante quell'informazione scomoda.

In più, doveva ammettere con sé stessa di non capire come potesse sua madre riuscire a ridere così di gusto, dopo tutto quello che avevano passato in quegli ultimi mesi. Anzi, a ben pensarci, erano anni che non la sentiva ridere così. O, ancor meglio, probabilmente non l'aveva mai sentita ridere così. Era come se tutti i suoi problemi non esistessero, come se non avesse perso da poco una sorella, una madre e un figlio. Come se non fosse ancora in lutto per Giacomo Feo, il grande amore della sua vita.

Così, alla domestica, Bianca disse solo: “Sta riposando e non vuole essere disturbata. Dite pure a me.”

La donna tentennò un istante, ma poi, visto il piglio serio e deciso che la ragazzina aveva assunto, si rivolse a lei come se si stesse rivolgendo a sua madre la Contessa.

Spiegò che gli abiti di messer Livio andavano spostati, dato che si stavano riorganizzando i guardaroba su ordine della Contessa, che, però, non aveva ancora dato disposizioni sugli averi del povero piccolo.

Dopo aver sentito la questione, Bianca decretò: “Tenete gli abiti ancora discreti per Galeazzo e per Sforzino, se ce n'è qualcuno che possa andare bene come misura o che si possa adattare facilmente e senza grosse spese. Gli altri, dateli pure ai meno fortunati.”

La cameriera fece un profondo inchino e, abbastanza sicura di non dover chiedere per forza conferma alla Tigre, ripartì alla volta della stanza che era stata occupata dal bambino per vuotarne la cassapanca una volta per tutte.

Bianca si lasciò ricadere senza forze sulla poltrona, lasciando da parte il libro.

Era certa che sua madre avrebbe fatto la medesima scelta. Occupandosene lei, le aveva solo levato un impiccio. E, in più, prendendosi di quando in quando quelle piccole responsabilità, sentiva di star imparando a essere una donna.

Magari non inflessibile e coraggiosa come sua madre, non altrettanto intraprendente e spregiudicata, ma abbastanza sicura di sé da poter gestire il ruolo che il fato le avrebbe assegnato.

Dopotutto, non aveva intenzione di guidare eserciti in battaglia o conquistare altri Stati. Le bastava saper badare a una casa e a una famiglia. E in quello, forse, sarebbe stata capace anche di superare sua madre.

 

“Dieci castelli! Dieci!” esclamò Rodrigo, entusiasta, mostrando la lettera al suo segretario e poi a tutti gli altri porporati presenti: “Già dieci castelli sono caduto sotto la spada implacabile di mio figlio Juan!”

Ascanio Sforza, che in quei mesi aveva guadagnato parecchi chili, forse per via dell'evidente depressione che l'aveva colto dopo i turbolenti mesi che l'avevano visto anche prigioniero del papa a Castel Sant'Angelo, fu l'unico dei presenti a fare una smorfia, invece di congratularsi con Sua Santità per i successi di suo figlio.

Alessandro VI, il cui sorriso entusiasta ancora non era scomparso dal largo volto, puntò gli occhi rapaci verso il milanese. Le iridi di Rodrigo si erano raggelate e non avevano più nulla della gioia con cui aveva acclamato le vittorie di Juan.

“Che c'è, Sforza?” disse irritato, chiedendosi che mai l'avesse indotto a liberare quello scomodo Cardinale.

Ascanio scosse il capo, come a dire che non c'era assolutamente nulla, ma il Santo Padre, ormai, aveva la pulce nell'orecchio e così, con un imperioso gesto del braccio, mise a tacere gli altri religiosi presenti nella saletta, che ancora vociavano e tessevano le lodi del giovane Juan, e si rivolse di nuovo ad Ascanio, con maggior autorevolezza: “Vi prego di mettermi a parte delle vostre perplessità, Cardinale Sforza.”

L'uomo, pentitosi già di aver lasciato trasparire i propri pensieri, si schiarì la voce e disse, con una certa cautela: “Vostro figlio è stato senza dubbio abile...” cominciò.

“Abile! Per Dio, se lo è stato! E che diamine!” sbottò il Borja, subito seguito da un codazzo di motti di approvazione dei porporati che ben si guardarono dal criticare la sua mezza imprecazione.

“Tuttavia...” continuò lo Sforza, tenendo lo sguardo basso e una mano stretta a pugno sul petto.

“Tuttavia..?” lo incalzò a quel punto il papa, sorpreso nel vedere come il milanese si ostinasse a parlare malgrado tutto.

“Tuttavia lasciarlo avanzare con tanta facilità potrebbe essere anche solo una tattica del nemico. Se ci si pensa, è strano che lo abbiano lasciato correre tanto velocemente fino a Bracciano. Gli Orsini non sono stolti. Bartolomea Orsini ha un cervello fino e suo marito Bartolomeo d'Alviano ne è il braccio armato. Credo sia un errore sottovalutarli così. Io ci vedo dietro un piano preciso.” disse Ascanio, tutto d'un fiato.

Alessandro VI restò zitto un momento, ma quando si accorse che tra i porporati di Roma cominciava a serpeggiare una vaga inquietudine, volle interrompere sul nascere i loro ragionamenti.

Era chiaro che lo Sforza non aveva parlato a vanvera. Il suo dubbio pareva più che fondato e il papa si accorse che anche lui l'avrebbe subito pensata così, se non fosse stato accecato dall'orgoglio genitoriale che lo rendeva miope anche dinnanzi all'evidenza.

Lo sapeva benissimo che la sorella di Virginio Orsini era una donna senza scrupoli, capace di qualsiasi cosa, perfino di sacrificare metà delle sue terre pur di salvare il nome della propria famiglia. E quel testone di Bartolomeo d'Alviano l'avrebbe seguita anche all'inferno, soggiogato com'era a lei.

Malgrado ciò, prima che qualche Cardinale giungesse alla logica conclusione a cui era arrivato anche lo Sforza, Rodrigo esclamò: “Quale tattica e tattica! Voi parlate per pura invidia! Non digerite il fatto che ormai i grandi condottieri d'Italia non si chiamano più Sforza, ma Borja!”

Siccome il pubblico presente non sembrava troppo convinto, il papa decise per una mossa abbastanza plateale.

Si alzò, passò accanto al milanese e disse con tono confidenziale, ma a voce sufficientemente alta da farsi sentire da tutti: “Starei attento a parlare così liberamente se fossi in voi. Con tutti i dubbi che abbiamo ancora a riguardo della vostra persona... Un Cardinale che porta uno stemma di famiglia su cui spicca l'aquila imperiale...”

Lo Sforza deglutì a fatica, la bocca secca e la lingua impagliata, già vedendosi ritornare nelle umide celle di Castel Sant'Angelo e quando Alessandro VI gli fu ormai alle spalle, ancora avvertiva lo sguardo del pontefice fisso su di lui, in tono di chiara minaccia.

“Avete visto mia figlia da qualche parte?” chiese stancamente il papa, guardando di sfuggita il suo segretario.

“Credo sia nel parco...” disse quello, con un inchino servile, accodandosi a Sua Santità che stava lasciando la sala.

“Con questo freddo? Povera Lucrecia, starà congelando...” sospirò Rodrigo: “Meglio che vada a porgerle un mantello in più da mettere sulle spalle...”

 

Era ancora abbastanza presto, doveva essere da poco passata l'alba. Il sole era pallido e il freddo si stava facendo pungente, eppure alla rocca di Ravaldino la vita pulsava già frenetica, come se tutti quanti volessero, con quell'improvvisa solerzia, riparare alla pigrizia riemersa nei due giorni che avevano fatto seguito alle nozze di Simone Ridolfi e Lucrezia Feo.

Caterina era appena uscita dalla sala dove aveva mangiato qualcosa in fretta per colazione, ed era subito stata bloccata dal Capitano Mongardini.

L'uomo, dopo essersi passato con fare un po' incerto la lingua sui piccoli denti bianchi, la fissò un momento e poi disse: “Non vorrei importunarvi, mia signora, ma i nostri soldati cominciano a farsi irrequieti.”

“Come mai?” chiese la Contessa, sinceramente sorpresa.

In quegli ultimi due giorni doveva ammettere con se stessa di essersi chiamata abbastanza fuori dagli affari di Stato.

Aveva passato quasi per intero le sue giornate assieme a Giovanni Medici, che, finalmente, si stava riprendendo.

Avevano trascorso il loro tempo in pace e tranquillità, ristorandosi e rifuggendo tutti i problemi e i cattivi pensieri che li inseguivano quotidianamente. Avevano letto ad alta voce pezzi della Commedia di Alighieri, qualche novella del Decameron, divertendosi a commentarle per trovare quella che piacesse di più a entrambi, e poi avevano anche indugiato su alcune raccolte di poesie latine di cui avevano fornito ciascuno la propria traduzione e interpretazione.

In orari in cui era sicura di non incontrare nessuno o quasi, la Tigre era sgattaiolata fuori dalla camera dell'ambasciatore per andare nelle cucine e procurarsi un po' di cibo e acqua per entrambi e quando era stata troppo stanca per leggere o chiacchierare, si era coricata accanto a Giovanni che, ben contento di averla vicina, l'aveva accolta con gioia al suo fianco.

In tutta onestà, Caterina poteva dire di non essersi mai sentita più calma e rilassata come in quel paio di giorni.

Il fiorentino si era man mano ripreso sempre di più e i suoi dolori, quella mattina, erano pressoché svaniti.

A sentir lui, non si trattava di una delle sue crisi peggiori, ma solo di un breve intermezzo che per un caso fortunato non era sfociato in un attacco forte come gli altri.

“La vostra presenza – aveva detto la sera prima l'ambasciatore, in uno slancio di galanteria – mi ha di certo giovato molto più dei salassi e degli intrugli dei dottori.”

Mongardini si torse le mani l'una nell'altra e alla fine disse: “Vedete, girano strane voci sulla fonte da cui avete preso i soldi per il sale. Voci consistenti. I nostri soldati temono che la loro paga ci andrà di mezzo.”

“E perché mai temono una cosa simile?” si irrigidì la Tigre.

“Alcuni membri del Consiglio dicono che presto, forse addirittura stamattina, si potrebbe votare in tal senso. Dicono che vogliate ridurre gli stipendi. Dimezzarli, perfino.” spiegò il Capitano, mentre alle sue spalle passava Cesare Riario, vestito di nero e con un rosario in mano.

La Contessa guardò di traverso il figlio, che non alzò nemmeno un occhio su di lei, proprio come se non esistesse, ma tornò subito a concentrarsi su Mongardini: “Dunque, per prima cosa rassicurate le truppe: non ho alcuna intenzione di fare tagli alla loro paga. I soldi per il sale li ho già e non mi serve pescare nelle tasche dei soldati che difendono il mio Stato. L'esercito è sempre stato uno dei miei maggiori interessi e la sua fedeltà nei miei confronti mi ha permesso di essere ancora qui, oggi, viva e in salute. Non potrei mai tradire i soldati a questo modo.”

Mongardini ringraziò: “Sapevo che non avreste commesso un simile errore.”

A quel punto, Caterina lo congedò e poi si mise a cercare almeno uno dei suoi Consiglieri. Avrebbe voluto tornarsene subito nella camera di Giovanni, dove lui l'attendeva per proseguire nelle loro letture, ma la ragion di Stato, ancora una volta, la reclamava tutta per sé.

“Numai!” chiamò, con rabbia, quando vide la testa canuta dell'uomo voltare l'angolo.

Fu contenta di trovarlo assieme a Cesare Feo. I due uomini stavano discutendo di conti e tasse, tanto per cambiare, e il castellano stava ribadendo che i profitti giunti dalle vendemmie di Fortunago non potevano in alcun modo essere utilizzati in modo diverso da quello che la Contessa aveva deciso.

“Mia signora, buongiorno.” la salutò Luffo, mentre anche Cesare faceva un mezzo inchino.

“Che storia sarebbe mai questa, che io voglio abbassare lo stipendio dei miei soldati?” chiese la donna, senza girarci intorno.

Numai schiuse le labbra, incassando appena le spalle, con un'espressione colpevole che fece intendere alla Leonessa di aver fatto centro al primo colpo: “Ecco, se ne discuteva un paio di giorni fa... Sarebbe una buona cosa, per lo Stato. Dopotutto, le nostre truppe non sono realmente file specializzate, né corpi particolarmente ben armati. Non siamo neppure in guerra, dunque non servono gratifiche particolari... Noi stiamo versano alle soldatesche un salario che supera di gran lunga quello medio di...”

“I salari dei soldati non si toccano.” lo interruppe Caterina, capendo che il suo Consigliere era mosso da reale buona volontà, ma da altrettanta ingenuità in materia: “I soldati vanno pagati con la stessa moneta con cui li abbiamo pagati fino a ora. Così facendo preveniamo la povertà di molte famiglie e facciamo circolare denaro.”

Cesare Feo stava annuendo, mostrandosi del tutto d'accordo con lei, mentre Luffo Numai teneva il capo chino, non dissimile da uno scolaro intento a prendersi una lavata di capo da parte di un precettore molto severo.

“Senza contare che – soggiunse la Tigre – il mio potere ormai si basa quasi esclusivamente sulla fedeltà dell'esercito, e solo un esercito ben pagato è un esercito fedele.”

Dopo quell'ultima aggiunta, il Consigliere non trovò altro da dire e fece per congedarsi, senonché la donna lo bloccò e chiese: “Avevate messo questa decisione all'ordine del giorno del Consiglio di oggi?”

Luffo annuì. La Contessa si sforzò di non trovarvi nulla di male. Forse era davvero mosso da un sentimento patriottico, che lo aveva portato a valutare quella possibilità. Tuttavia, il fatto che una simile decisione venisse messa all'ordine del giorno proprio quando da lei non si presentava al Consiglio da un paio di giorni, aveva qualcosa di strano.

“Ebbene, cancellate subito questo punto.” ordinò la Leonessa: “Se in sala consigliare ve lo sentirò anche solo accennare, prenderò seri provvedimenti.”

“Presiederete il Consiglio, questa mattina?” chiese Numai, accigliandosi.

Non erano affari suoi, ma gli era parso che, dal matrimonio di Lucrezia Feo e Simone Ridolfi, i due sposini non fossero gli unici ad aver deciso di chiudersi in una camera e tagliare fuori il mondo.

Aveva creduto che la Contessa stesse facendo altrettanto, in compagnia dell'ambasciatore di Firenze, e che non sarebbe uscita dal suo piccolo mondo segreto almeno fino a che non l'avessero fatto anche il tracotante Ridolfi e la sua fresca moglie.

“Certo.” assicurò Caterina, che già vedeva sfumare l'ipotesi di starsene con Giovanni a leggere, chiacchierare e conoscersi meglio ancora qualche tempo: “Non lo vedete? Questo Stato è come un cavallo selvaggio. Se mollo le redini anche solo per un attimo, basta un nonnulla per farlo imbizzarrire e scappare chissà dove.”

 

Ottaviano Manfredi, svegliatosi di soprassalto e trovatosi, con sua grande sorpresa, nella casa che lo stava ospitando da qualche giorno, provò a mettersi in piedi.

Era stato lasciato poco oltre l'ingresso e, dal cerchio alla testa che aveva e dal tanfo di vino e vomito che si sentiva addosso, probabilmente era reduce da una delle tante notti brave in cui il figlio del suo benefattore soleva trascinarlo.

Non che fosse necessario pregarlo, per indurlo a largheggiare in simili occupazioni. Il vino e la compagnia che si poteva trovare nelle taverne di malaffare, erano per il Manfredi l'unico modo per sfuggire a tutti i suoi dispiaceri e fantasmi.

Mentre si alzava, puntellandosi a fatica contro il muro, sentì una piccola fitta al fianco e così, con lo sguardo un po' annebbiato, malgrado la luce prorompente di quel giorno di fine autunno che entrava dalle finestre, controllò che tutto fosse in ordine.

Trovò la sua giubba – dai colori chiari, imprestata dal padrone di casa, in modo da non costringerlo a portare i propri colori e i propri stemmi, vista la sua condizione di fuggiasco – squarciata di lato e scura di sangue.

Con una smorfia, cercò di raggiungere la stanzetta che gli era stata assegnata e, una volta dentro, ben felice di non aver incontrato neppure l'unica serva che lavorava in quel misero palazzetto, si levò il giubbetto imbottito e si guardò meglio.

La camicia chiara che portava sotto era parimenti aperta e finalmente poté vedere la fonte del rosso che aveva imbevuto la giacca. Si trattava poco più che di un graffio. Era una ferita molto superficiale, ma anche molto lunga.

Non sanguinava più, ma Ottaviano, istintivamente, la tamponò con la manica, finendo per togliere solo un po' di sangue secco.

Mentre faceva quel movimento ritmato e spento, si ricordò, a spezzoni, quello che era accaduto quella notte.

Si passò con lentezza la punta dell'indice su quella nuova ferita, che ancora un po' bruciava e che sarebbe presto diventata una cicatrice, come tutte le altre. Ormai ne era tappezzato. E ben poche, purtroppo, erano dovute ai campi di battaglia.

Anche quella era solo l'ennesima medaglia che attestava la sua capacità di sopravvivere alle risse da osteria; la sua innata scaltrezza nel sottrarsi all'ultimo al colpo mortale di un coltello. O di uno stiletto, a giudicare dal profilo affilato di quel lungo taglio.

Sbuffando tra sé per il dolore al capo e il senso di ottundimento che lo strano risveglio gli aveva messo addosso, Manfredi si ravviò i lunghi e attorcigliati capelli biondi, si tolse la camicia rovinata e si buttò sul letto ancora sfatto dal giorno prima.

Di una cosa, malgrado la sua sconfinata fiducia nelle proprie doti da rissaiolo di paese, era ormai certo: se non avesse trovato, e presto, un esercito da comandare, sarebbe morto in un tafferuglio da ubriaconi ben prima di poter rivedere anche solo da lontano le mura della sua Faenza.

 
   
 
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