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Autore: changeling    16/08/2017    1 recensioni
Doveva essere una cosa rapida.
Un giorno solo, dicevano, più e una settimana di osservazione. Cinquecento dollari per non fare niente.
Doveva essere per il bene della scienza, anche, ma a rimetterci sono stato io.
Quell'esperimento ha stravolto totalmente la mia vita, il mio mondo, me stesso!
La colpa, ovviamente, è tutta degli scienziati, e il giorno in cui mi capiteranno tra le mani saprò come rifarmi. Ma c'è un'altra persona che ritengo responsabile. E' la causa principale di tutti i miei problemi da quel maledetto giorno. E' insopportabile, intrattabile, odiosa e, con mio sommo sconforto, sempre con me.
E' l'unica persona di cui non posso liberarmi. Perché è nella mia mente.
...
Agh! Ma che cazzo!
Genere: Mistero, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Una pausa dalla storia principale per parlarvi un po' di Reese. Sono due capitoli un po' lunghi, ma spero che servano per chiarire i rapporti tra alcuni dei personaggi. Buona lettura :D
In ritardo, ma meglio tardi che mai, un grande grazie a PrincessMikuChan e Mr Apricot per le loro recensioni. "Favola Moderna" è dedicato a voi! 

#4_Reese
C'era una volta, tanto tempo fa, una principessa bella, ricca e viziata. Suo padre era il re delle testate giornalistiche dello Stato, sua madre una splendida donna invidiata da tutti, e c'erano un sacco di cose al mondo che desiderava, ma lei le otteneva sempre senza eccezioni. Nessuno le diceva mai di no, e in fondo perchè avrebbero dovuto? Non c'era nessuna ragione plausibile perchè la principessa non potesse avere tutto quello che voleva, tutti ne erano convinti, e lei in particolare. Non era cattiva, la principessa, solo molto, molto ingenua. Ma giunse il giorno in cui i suoi desideri rimasero inascoltati, per quanto lei gridasse e ordinasse e si lamentasse. A nulla valsero i suoi strepiti, di certo non a far voltare sua madre mentre, valigie alla mano, lasciava lei e suo padre per un altro uomo, nè a persuadere suo padre ad inseguirla e implorarla di restare. Solo anni dopo, la principessa capì che suo padre era un re, e un re non china mai il capo, che fosse per implorare qualcuno o per dare un'occhiata a chi era più in basso di lui. A quel punto, in effetti, la principessa aveva capito diverse cose di suo padre e del finto mondo fatato in cui era vissuta fino a quel momento, così aveva cercato di scappare via, sicura di potersela cavare da sola. La sua vita era impazzita quando aveva cominciato l'università: con i soldi di suo padre si era presa un appartamento e aveva organizzato centinaia di feste, distruggendo soprammobili ed oggetti costosi per poi farseli ricomprare; aveva frequentato decine di ragazzi diversi, regalando loro biglietti di concerti e partite, passando dall'uno all'altro come un'ape coi fiori; aveva vandalizzato l'università con il preciso intento di farsi scoprire e farsi costringere a ripagare i danni, tanto non si sarebbero mai sognati di espellerla.
In tutto questo mio padre non aveva mai fatto una piega, ed io ero andata avanti nella mia idiozia fino a che non avevo definitivamente esagerato. Non rapinai una gioielleria, nè cominciai a drogarmi. Non credo che mio padre mi avrebbe prestato attenzione nemmeno a quel punto, ma lui non ebbe nulla a che fare con l'ultima goccia che feci spillare. No, quello che ferii, più profondamente di quanto avrei mai potuto fare con un coltello, fu il mio migliore amico, Jordan. Eravamo ancora dei ragazzini, all'epoca, ed entrambi avevamo i nostri problemi, lui con i suoi genitori, in crisi per il suo coming-out, e io con... bè, tutto quello che ho già detto, ma in ogni caso Jordan era sempre stato dalla mia parte, portandomi a casa quando, ubriaca fradicia dopo una festa, non riuscivo nemmeno a stare in piedi, o quando avevo i miei isterici attacchi di pianto e mi disperavo di quanto facesse schifo la mia vita. Lui era lì, con una scatola di clinex e un abbraccio pronti per me. Quando avevo bisogno di lui, mi bastava girarmi per vederlo al mio fianco, ma un giorno, durante una delle mie crisi, lo avevo scoperto distratto. Fu come essere pugnalata alle spalle. E la sua terribile, orribile colpa, era che si era innamorato.
Per quanto non avesse una vita sregolata come la mia, a Jordan piaceva divertirsi, e non era mai stato a lungo con qualcuno. Con il senno di poi, probabilmente era colpa mia: doveva sempre starmi dietro per salvarmi dai miei impulsi auto-distruttivi, era ovvio che non avesse il tempo di avere storie serie, ma questa volta era diverso. Me lo diceva il mio tristemente acuto istinto femminile, e così lo osservai. Il ragazzo che gli piaceva non era gay. Era di un anno più grande di noi, faceva parte della squadra di nuoto, come Jordan, e non aveva quell'atteggiamento scostante e bigotto che gli altri ragazzi riservavano al loro compagno omosessuale, lo considerava suo amico. Era carino e gentile, e non aveva la minima idea di quanto Jordan fosse partito per lui. Così decisi di rimediare.
Come al solito diedi una festa. Era il modo migliore per raggruppare gente, e feci in modo che lui fosse invitato, insieme a buona parte della squadra di nuoto. Ci furono fiumi di birra e bottiglie su bottiglie di alchool, e quando lo invitai nella mia camera, assicurandomi che la gente ci vedesse, lui non fece resistenza. Jordan arrivò poco dopo, quando io ero già su di lui, e lui in avanzato stato di eccitazione. L'espressione che fece quando ci vide non la dimenticherò mai, e nemmeno tutto quello che mi disse quando, dopo anni di sopportazione, esplose: mi disse che ero una viziata e un'illusa, che pensavo di potermela cavare da sola, mentre in realtà non ero altro che una sanguisuga che andava avanti con i soldi del padre, che per conto mio non sarei durata una settimana, figuriamoci una vita. Mi disse che ero piccola, meschina e vuota, e da quel momento sarei stata anche sola. Se ne andò e non rimise mai più piede in casa mia.
Impiegai una settimana per cominciare a provare un minimo di senso di colpa, e meno di un mese per accettare che Jordan aveva ragione e che per conto mio non sapevo fare niente. Nel frattempo, la sua attrazione per il suo compagno di squadra divenne di dominio pubblico, e il tormento e la discriminazione nei suoi confronti si fece insostenibile. Il ragazzo che fino a quel momento lo aveva accettato cominciò ad evitarlo come tutti gli altri, e così come me, anche Jordan rimase solo. Resistette due mesi, poi cambiò numero di telefono e università senza più rivolgermi la parola.
Fu allora che capii quanto ero stata stupida, e quello divenne il mio punto di svolta.
Impiegai quattro anni a rimettermi in carreggiata. Il mio intuito era sempre stato sviluppato, ed ero curiosa per natura, così cambiai indirizzo, e mi misi a studiare giornalismo. Non nella mia vecchia università, ovviamente. Avevo fatto troppi passi falsi perchè i professori mi potessero prendere sul serio, e io avevo bisogno di giudizi critici, di persone che mi aiutassero a crescere. Al nuovo college, ogni volta che qualcuno mi chiedeva se ero la figlia di Harold Behive, io rispondevo che no, era un semplice caso di omonimia. Ebbi finalmente occasione di mettermi veramente alla prova, e nei primi tempi, come era ovvio, fallii miseramente. Una delle mie professoresse, però, vide qualcosa in me, e mi spinse ad andare avanti. Il primo articolo che mi portò una promozione fu sugli eccessi adolescenziali. Piano piano, scoprii una nuova me stessa. C'erano dei punti in comune con la vecchia Reese: i ragazzi, era uno di quelli, ma non ero più così superficiale nei miei rapporti, e con molti strinsi rapporti di amicizia invece che solamente fisici. Fu bello scoprire di esserne capace. Un'altra cosa che io e la vecchia me condividevamo era la necessità di stare in mezzo alle persone, di parlare, di comunicare, ma anche qui c'era qualcosa di diverso, perchè la gente non stava con me per i soldi di mio padre o per diventare qualcuno sfruttandomi, ma semplicemente perchè gli piacevo. Avevo scoperto una parte di me capace di essere genuina, simpatica ed onesta, soprattutto con me stessa. Questo provocò in me un cambiamento radicale, e per la prima volta in tutta la mia vita sentii di essere la persona che volevo, che ero nata per essere. La differenza più grande di tutte, tra la vecchia Reese e me, fu che tagliai completamente i rapporti con mio padre. Gli promisi che non gli avrei dato più fastidio, che non avrebbe più dovuto preoccuparsi delle mie spese o della mia presenza. L'unica cosa che gli chiesi, perchè veramente non potevo farne a meno, fu di preoccuparsi della mia retta scolastica, ma appena riuscii a trovare un lavoro cominciai a mettere da parte i soldi per restituirgli l'intero importo. Ci sono finalmente riuscita l'anno scorso, ma non credo che lui se ne sia accorto. Non credo che si sia accorto che sono proprio andata via, ma a me non importa più di farmi notare da lui.
Dopo essermi laureata cominciai a pubblicare qualche articolo qua e là, usando uno pseudonimo per assicurarmi di non essere favorita in alcun modo. Con il tempo, e tanta, tanta fatica, riuscii a farmi un nome come giornalista free-lance, ma ci volle ancora molto prima che cominciassi a scrivere usando il mio vero nome. Il lavoro aveva alti e bassi, ovviamente, periodi in cui non trovavo una storia nemmeno scavando nella spazzatura, ma mi sostenevo con altri impieghi provvisori. Non m'importava di faticare. Ero nella mia dimensione, mi prendevo la responsabilità delle mie azioni senza lamentarmi, ed ero finalmente una persona in grado di guardarsi allo specchio con l'anima in pace.
Era rimasta un'unica cosa che dovevo assolutamente portare a termine, ed era scusarmi con Jordan. Il mio nuovo ordinamento mentale mi aveva dato la forza di superare la vergogna e di presentarmi a casa dei suoi genitori per implorarli di darmi il suo numero di telefono. Non credo che Jordan gli avesse raccontato nei dettagli quello che era successo tra noi, ma loro avevano intuito lo stesso che io ero la fonte di tutti i problemi che aveva dovuto affrontare all'università, così l'unica risposta che ebbi da loro per un anno intero fu una porta sbattuta in faccia. Non era un periodo facile, quello, per me. Non c'erano storie su cui poter indagare, o articoli da pianificare, e i soldi stavano finendo. C'erano ancora quelli che avevo messo da parte per ripagare mio padre, ma mi rifiutavo di toccarli in alcun modo, così l'unica opzione che mi rimase fu andare alla ricerca di uno o più lavori. Fortuna nella sfortuna, fui presa al primo colpo come cameriera in un lounge bar per la mia estesa conoscenza linguistica e perchè, secondo il padrone, "avevo una bella presenza". Se quello che intendeva dire era che sapevo muovere i fianchi a dovere senza sembrare volgare, allora era vero. Facevo orari assurdi, dalle nove di sera alle cinque del mattino, ma i soldi erano buoni, e almeno riuscivo a pagare l'affitto. Non avevo idea, però, di quanta fortuna quel posto mi avrebbe realmente portato. Una sera ero particolarmente distrutta. Avevo dormito poco per andare ancora una volta dai genitori di Jordan, e ancora una volta ero stata mandata via. Di fatto, era una sorpresa che in tutto quel tempo non mi fossi beccata un ordine restrittivo, ma ero sicura che non avrebbe tardato ancora molto ad arrivare. Ero stanca, ero depressa, ed ero distratta, e quando lavori in un posto pieno di gente che si muove in continuazione, non era certo la condizione ideale. Barry, il padrone del locale, mi aveva già squadrata due volte da quando ero arrivata per il mio turno, ma fin'ora il suo unico commento era stato "vedi di fare qualcosa per quelle occhiaie". Non potevo perdere questo lavoro, ed ero decisa a tirare avanti a costo di trascinarmi con le unghie e con i denti, ma il mio corpo non era in linea con la mia volontà. Quando, nel locale affollato, qualcuno mi diede uno spintone, non riuscii a mantenere l'equilibrio sui tacchi a spillo come al solito, e rovinai disastrosamente addosso a qualcuno, rovesciandogli addosso due bicchiedi di champagne. Mi sentii morire, e non solo per l'imbarazzo. Il completo scuro del ragazzo a cui ero finita addosso era di ottima fattura ed evidentemente costoso, le scarpe ai suoi piedi erano di cuoio, italiane se avessi dovuto azzardare un'ipotesi. Non avevo alcun modo di rimediare al danno, nè di ridargli i soldi, anche perchè Barry mi avrebbe sicuramente licenziata. Dopo quasi quattro anni, fui presa dal panico e scoppiai a piangere.
-Ehi, ehi.- mormorò una voce maschile sopra di me. Ero abbastanza vicina per sentirla anche sopra la musica e il chiacchiericcio, ma non ero in grado di rispondergli o di scusarmi. Il tizio a cui ero andata addosso esitò un istante, poi mi strinse con delicatezza.
-Ragazzi, vi raggiungo dopo, ok? Credo che non si senta molto bene. Ci vediamo più tardi.-
Senza un'altra parola verso di me o i suoi compagni, prese a camminare fendendo la folla, guidandomi gentilmente. Si fece strada verso l'uscita di servizio, e pochi minuti dopo ci trovammo fuori nell'aria fresca del primo autunno. Mi aiutò a sedermi sugli scalini che scendevano nel vicolo e mi accarezzò la schiena finchè non mi calmai abbastanza da smettere di piangere e cominciare a scusarmi.
-S-scusi tanto, sono d-desolata, io... mi dispiace da morire, non volevo darle fastidio, non so cosa...-
-Ehi, tranquilla.- m'interruppe il ragazzo in tono comprensivo -A tutti capitano delle giornate da pianto. Mi dispiace che ti sia successo proprio in mezzo a questo casino.-
Alzai gli occhi e lo guardai in faccia per la prima volta. Anche nel mio stato di profondo disprezzo per me stessa, non potei fare a meno di notare che era uno schianto: capelli ondulati castano scuro, occhi caldi di un delizioso color cioccolato, naso dritto e zigomi alti, labbra carnose. Aveva il viso di un modello, e, a giudicare da quel poco che avevo involontariamente tastato standogli così vicina, anche il fisico. Io feci un rapido inventario di me stessa: ero in uniforme, tacchi a spillo, gonna a tubino nera, gilet nero, camicia bianca. Non il peggio del peggio, ma ero sicura che nella calca si fosse stropicciata, ed avevo anche il sospetto di aver copiosamente sudato. Avevo pianto, quindi, a parte gli occhi gonfi, probabilmente avevo strisce di mascara colato sulle guance, l'ombretto sciolto e il rossetto sbavato. I miei capelli erano raccolti in uno chignon quando avevo cominciato il turno, ma sentivo che alcune ciocche erano sfuggite alle forcine e mi ricadevano sulla schiena e ai lati del viso. In parole povere: ero un disastro davanti a un modello, e gli avevo rovinato i vestiti. Dov'erano le pale quando servivano? Volevo seppellirmi. Provai a nascondermi dietro il vassoio rotondo che avevo ancora in mano, ma nel sollevarlo guardai in basso, e alla luce del faretto sopra la porta di servizio riuscii a vedere il danno che avevo combinato in tutto il suo orrore. Mi coprii la bocca con una mano.
-Oh mio Dio!-
-Cosa c'è?... Oh, questo. Non preoccuparti, non fa niente.-
-Come... Cosa...? Oh cielo, io-io le rifonderò il danno!- Non avevo idea di come, ma il disastro che avevo combinato era veramente... disastroso. Ed ero diventata una persona matura che si prendeva le proprie colpe, quindi insistetti per pagargli almeno la tintoria, ma lui scosse la testa sorridendo.
-Il vestito è di mio fratello, e lo odia, quindi non credo che se la prenderà. Le scarpe si ripuliranno senza problemi.-
-Ma io...- provai ancora a insistere, ma il ragazzo mi mise un dito sulle labbra e io ammutolii.
-Nessun. Danno.- scandì. Mi guardò per assicurarsi che avessi capito. Annuii e mi tolse il dito dalla bocca.
-Bene. Allora, te la senti di tornare dentro? Non credo che ci abbiano visti con tutta la gente che c'è, ma non vorrei che il tuo capo pensasse che...-
-Oh, Barry! Quando saprà cosa ho combinato...!
-Ah! Sei recidiva. Non è successo niente.- ripetè per l'ennesima volta. Io lo osservai bene in viso, e vidi che era sincero. Sorrisi.
-Grazie.-
-Figurati- rispose lui. -Come ti chiami?-
-Reese.-
-Io sono Vincent. Pronta tornare in pista?-
Presi la mano che mi aveva teso e sorrisi. -Come sempre.-
  
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