Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    17/08/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

“Certo, le riunioni del Consiglio sono aperte a tutti, teoricamente... Com'è ovvio, possono intervenire attivamente solo i membri aventi diritto, ma nulla vieta alla popolazione di assistere e sentire con le proprie orecchie quel che viene detto.” confermò il castellano Cesare Feo, guardando Giovanni Medici in modo tagliente e trattenendosi appena in tempo dal chiedere il perché di una simile domanda.

L'ambasciatore fiorentino viveva lì da mesi, ormai, eppure non si era mai nemmeno sognato di prendere parte a una delle riunioni, anche se, per via del suo ruolo, ne avrebbe avuto tutto l'interesse.

Dunque quell'improvvisa decisione di assistervi aveva lasciato Cesare di stucco e l'uomo non riusciva a nascondere la sua perplessità al Popolano, che, di rimando, non smetteva di sorridere pacato, come se stesse discorrendo del clima.

“E quante ore durano, queste riunioni?” chiese il fiorentino, appena il castellano ebbe finito di parlare.

“Dipende. Di norma tutta mattina, ma se ci sono cose molto serie da discutere possono durare fino a sera o anche solo una manciata di minuti.” rispose Cesare, sollevando le spalle con fare affettatamente annoiato.

Giovanni sospettava che quello non fosse solo un modo per dire che non lo si poteva sapere; da quello che aveva capito della Tigre, era probabile che lei davvero altalenasse tra quei due estremi.

Non faticava a credere che, se l'argomento all'ordine del giorno fosse stato particolarmente grave, la donna avrebbe potuto o ragionarci e specularci sopra tutto il giorno, oppure prendere la sua decisione in un batter d'occhio, senza chiedere conferme o consigli a nessuno.

Dopo aver ringraziato il castellano, Giovanni andò nelle sue stanze con la maggior rapidità che il suo passo ancora un po' incerto gli permetteva, e si diede una bella sistemata.

Si pettinò con cura i riccioli, benché quella mattina fosse impossibile domarli del tutto, e scelse degli abiti freschi e puliti, malgrado fossero un po' troppo leggeri per quella giornata fredda.

In un soffio, fu pronto per uscire. Si diresse senza indugio al palazzo dei Riario, dove si svolgevano le riunioni del Consiglio Cittadino e, calcandosi un po' in testa la berretta di seta rossa, sperò con tutto se stesso che il suo gesto non venisse frainteso da nessuno, dalla Contessa in primis.

Dopotutto, voleva solo vedere la donna che amava in uno dei suoi ambienti naturali.

L'aveva vista addestrarsi nel cortile coi soldati, l'aveva vista a caccia nei boschi, l'aveva vista mentre leggeva e commentava le opere letterarie che amava. Adesso voleva vederla alla guida dello Stato.

Quando arrivò nella sala del Consiglio – dopo essere passato attraverso ben tre perquisizioni che lo trovarono del tutto disarmato – Giovanni si rese subito conto che la riunione era iniziata in modo infuocato.

Fin da stare sulle scale, infatti, si sentivano le voci dei Consiglieri, con il loro forte accento romagnolo, e pure qualche colpo di quando in quando, come se i pugni sul tavolo fossero un semplice intercalare.

“Questa è una spesa inutile!” stava gridando uno, mentre il Popolano faceva il suo ingresso in sordina e si andava a mettere contro il muro, assieme ad altri che sembravano possidenti e cittadini di alto rango che, però, non facevano parte della rappresentanza che contava.

“La rocca di Ravaldino – fece un altro, fingendosi più conciliante – è già abbastanza sicura così. A che diavolo serve un mastio, lo possiamo sapere?”

Caterina, così immersa nella questione discussa da non vedere nemmeno il profilo di Giovanni accanto alla porta, stava ascoltando in silenzio.

“Un mastio è una spesa inutile. Avete già il fossato. Abbiamo comprato dei nuovi cannoni. Fate arruolare tutti i nostri contadini e lasciate che perdano i loro giorni ad addestrarsi per una guerra che non arriverà mai, mentre i nostri campi rimangono incolti o al massimo in balia delle maldestre cure di qualche povera donna...” riprese il primo, scuotendo platealmente il capo, mentre qualcuno applaudiva in segno di assenso: “Invece di giocare a fare il comandante, dovreste...”

“Come vi permettete?!” sbottò a quel punto Luffo Numai, alzandosi in piedi e guardando in cagnesco quello che aveva appena parlato.

“Un mastio non serve a nulla! Bloccate i lavori! Abbiamo già le porte, i rivellini, la rocca, il fossato..!” insistette un altro dei Consiglieri.

A quel punto, finalmente, la Contessa reagì. Infilò una dopo l'altra una serie di pesanti bestemmie che ebbero la capacità di zittire tutti.

Giovanni fissava Caterina a bocca aperta. Aveva sentito dire che la Tigre sapeva essere sboccata, all'occorrenza, ma sentirla con le proprie orecchie mentre sciorinava a quel modo ogni genere di imprecazione era tutta un'altra cosa.

Il fiorentino, però, non capì subito la reazione dei Consiglieri. Tra loro si era sparsa un'aura di terrore puro, che secondo lui non era del tutto spiegata da qualche frase blasfema.

Quello che l'ambasciatore ignorava era che, nell'immaginario comune dei forlivesi, quel genere di esternazioni da parte della Contessa era sempre e solo foriero di vendette, crudeltà, morte e repressioni.

Ogni volta che quella donna si lasciava andare a quel modo al turpiloquio, era molto probabile che qualcuno fosse in procinto di perdere la testa, nel senso meno metaforico del termine.

Ecco perché tutti rimasero muti, consci all'improvviso, e con un po' di ritardo, di aver passato il segno con le loro rimostranze.

La Leonessa avrebbe volentieri spedito i più insolenti tra i Consiglieri in cella, minimo per un paio di notti, ma non voleva cedere alla propria ira tanto facilmente.

Per di più, proprio mentre ricominciava a parlare, scorse accanto al muro Giovanni e, un po' per vergogna, un po' perché la strana influenza di quell'uomo si faceva sentire anche a quella distanza, i suoi toni si smorzarono nel dire solo: “Ma siete diventati tutti pazzi?”

Le sue parole riecheggiarono nella sala consigliare, immerse nel silenzio teso di chi si aspetta una punizione esemplare.

“Venezia, la Lega, Roma, Napoli, la Francia, perfino Milano.” elencò lentamente Caterina, restando seduta, le mani aperte sul tavolo e una linea severa sulla fronte: “Tutte loro voglio farsi guerra e la nostra terra farebbe a ciascuna di esse molto comodo. Sono tutte un pericolo, per noi!” proseguì, alzando pian piano i toni e fissando a turno tutti i membri del Consiglio: “Dite che la guerra è lontana, ma non è così! Come fate a essere tanto ciechi? L'Italia è un calderone che ribolle e manca poco, prima che questa o quella potenza facciano esplodere tutto! Arriveranno qui e se non sapremo difenderci, faranno povere, di noi! Arriveranno con cannoni moderni, artiglieria pesante, truppe scelte, e stavolta, statene ben certi, non cercheranno mediazioni!”

L'oratore milanese, che stava a poca distanza dal Medici che, pur avendolo visto, non l'aveva riconosciuto fino a quel momento, si schiarì la voce e fece un passo avanti, nel silenzio generale.

Nessun altro aveva osato interrompere la Tigre, ma l'uomo del Moro non pareva impensierito quanto gli altri dalla furia della Contessa: “Avete citato molti Stati che potrebbero distruggervi, far di voi polvere, come avete voi stessa detto, in modo molto evocativo...” fece l'uomo, con le labbra tirate in un sorriso falso e leggermente ironico: “Ma non vi ho sentita citare Firenze.”

Luffo Numai, che quel giorno si sentiva investito del prezioso incarico di difendere la sua signora e, al contempo, di cercare di arginare tutti gli interventi che avrebbero potuto farle saltare i nervi, si protese in avanti e gridò: “Come vi permettete?! Voi non potete parlare in questa sede! Voi siete qui solo come...”

Ma Caterina lo aveva zittito sollevando imperiosamente una mano: “Con Firenze – disse, a voce bassa e minacciosa – per il momento siamo in buoni rapporti. Come con Milano, dopotutto, o sbaglio?”

L'oratore fu tentato di far notare come, però, la donna avesse di fatto enumerato anche Milano tra le possibili minacce per Forlì e Imola, ma poi qualcosa, negli occhi verdi e furenti della Tigre, lo convinse a starsene zitto e annuire in silenzio.

La riunione durò ancora per un po', ma la questione delle spese militari era stata archiviata molto in fretta dopo le ultime lapidarie parole della Contessa.

Si era poi discusso della posizione di Faenza, il cui portavoce aveva cercato maldestramente di smentire le voci che volevano i Manfredi sempre più vicini alla causa veneziana.

Poi, però, si era abbandonata la politica e le tematiche legate alla guerra per passare a cose prettamente locali.

Innanzitutto si era discusso dell'arrivo del sale, ma nemmeno uno dei Consiglieri fece cenno al ruolo avuto dal Medici in quella transazione.

Giovanni ebbe il sospetto che nessuno, a parte forse Luffo Numai e pochi altri eletti, sapesse che lui c'entrava qualcosa.

Da un lato quella cosa lo aveva un po' indisposto, pensando che si trattasse di un segno di ingratitudine. Anche se non era stato tanto difficile, il Popolano aveva comunque dovuto mettere in gioco il suo buon nome e correre il rischio di dover poi pagare di tasca propria un debito contratto da altri.

Mentre, però, la Contessa fissava le date per le prossime questue aperte alla popolazione, Giovanni si trovò a riflettere meglio su quel fatto e finì per essere contento che la Tigre non avesse sbandierato il suo ruolo nell'ambito dell'acquisto del sale.

Forse era da illusi pensarlo, ma facendo così era come se la Contessa avesse tacitamente ammesso che quello fattole dal Popolano era solo un favore personale. E a quel punto, per il fiorentino diventava un punto d'orgoglio sapere come l'avesse accettato in fretta e di buonagrazia.

Quando finalmente il Consiglio fu sciolto, Giovanni fu tentato di attendere la Leonessa per discorrere un po' con lei, ma aveva visto lo sguardo rapace dell'oratore di Milano puntarsi prima su di lui e poi su di lei con troppa insistenza.

Allora, sperando che Caterina non travisasse, preferì accodarsi agli altri e lasciare la sala mentre lei ancora discorreva serratamente con il suo cancelliere e con Luffo Numai.

Mentre ritornava verso la rocca, fendendo l'aria che si era fatta veramente algida, Giovanni si mise a pensare, ricalcandosi il cappello in testa, che quella che aveva visto in sala di Consiglio era una Caterina molto diversa da quella che aveva trascorso con lui gli ultimi giorni a leggere e ridere.

Il modo in cui aveva gestito le turbolenze e lo scatto improvviso che l'aveva portata a bestemmiare come un rozzo mercenario erano state tra le cose che avevano colpito di più il fiorentino. Si sentiva di nuovo un po' intimidito da quella donna, ma anche irresistibilmente attratto da lei.

Vederla ruggire in mezzo a tutti quegli uomini che la criticavano, che la dileggiavano perfino, e la sfidavano più o meno apertamente, aveva indotto il Popolano a chiedersi quanti lati di lei ancora non conoscesse.

Una cosa era sicuro di voler fare – e mentre attraversava il ponte diretto verso l'interno di Ravaldino si ripromise che avrebbe fatto del suo meglio per arrivare al suo scopo – ovvero sapere e arrivare a conoscere tutto di Caterina. Senza tralasciare nulla, nessun dettaglio, nessuno spigolo, nessun'ombra.

 

Francesca Dal Verme, col suo consueto fare mellifluo, allungò il sinuoso collo verso la spalla di Bianca Giovanna per osservare meglio le carte che teneva in mano e fece un suono gutturale di sorpresa: “Ma che carte da gioco particolari...”

La figlia del Moro, intenta a perdere l'ennesima partita del pomeriggio, si trattenne a stento da gettare gli occhi al cielo per l'esasperazione.

Odiava quando qualcuno si metteva alle sue spalle e le guardava le carte. Aveva sempre il sospetto che quel qualcuno lo facesse solo per suggerire al suo avversario le mosse migliori per metterla alle strette, come se già non fosse abbastanza in difficoltà per conto suo.

Anche se Francesca Dal Verme, per sua stessa ammissione e avendone data anche dimostrazione pratica, non sapeva vincere nemmeno contro un inetto, a Bianca Giovanna dava comunque l'impressione che le stesse sbirciando solo per metterla in difficoltà.

“Vi piacciono?” domandò la Sforza, con un sorriso candido, voltandosi verso la Dal Verme e portando al petto la mano per nascondere meglio le sue carte: “Me le ha regalate la Duchessa Beatrice, la moglie di mio padre.” spiegò la giovane.

La dama di compagnia che stava giocando con lei le fissò ancor più ammirata, mentre l'espressione di Francesca era rimasta immutata, come se la milanese non avesse nemmeno aperto bocca.

“Le ha disegnate lei personalmente, di comune accordo con mio padre.” disse Bianca Giovanna, quasi sulla difensiva.

Odiava il modo insinuante che la Dal Verme aveva di parlare e di fissarla poi in silenzio. La faceva sempre sentire come sotto processo.

Non si sentiva ben accetta in casa propria, e questo era terribile. Bobbio ormai era sua per matrimonio, eppure da quando era in quella città non aveva fatto altro che sentirsi un'intrusa indesiderata.

Senza contare che, da qualche giorno, aveva spesso forti dolori di pancia e si vergognava da morire a stare male in casa d'altri. Perché anche se quel palazzo ormai era suo e di suo marito, e di nessun altro, coi due fratelli Dal Verme sempre alle calcagna Bianca Giovanna non si sentiva per nulla a casa propria.

Tanto per togliersi un po' d'impiccio, la figlia del Moro prese il calice di vino che le era appena stato portato e ne sorbì un brevissimo sorso. Ecco, anche quello aveva un sapore strano. Era acidulo e restava attaccato alla gola.

Bianca Giovanna avrebbe voluto lamentarsene apertamente almeno con suo marito, ma non osava farlo. Le avrebbe detto che parlava così solo perché quel vino era fatto con l'uva dei vigneti dei Dal Verme. L'avrebbe accusata di essere una donnicciola pettegola e noiosa.

E così, standosene zitta, la Sforza bevve ancora un pochino, ma smise, prima che una smorfia le si dipingesse in volto in risposta all'amarezza di quella brodaglia.

Francesca, i cui occhi avevano seguito con attenzione il tragitto del calice fino alle labbra della milanese, lasciò cadere l'argomento delle carte e passò al tempo atmosferico. Si prodigò molto nel trovare frasi di disappunto per la gelata di quella notte, dicendo che solo a Bobbio doveva far così freddo in quei giorni.

“Di certo nella vostra bella Milano – fece, rivolgendosi alla Sforza – non sarà ancora gelato nemmeno una volta. E così a Voghera.”

Nel sentire la giovane donna citare uno dei feudi che sarebbero stati suoi di diritto, Bianca Giovanna avvertì un sinistro brivido sulla schiena, ma non lo diede a vedere e continuò la sua partita senza speranza, mentre la Dal Verme iniziava a far paragoni con l'autunno e l'inverno precedenti.

 

Filippo dei Rossi puntava, con un certo distacco, i suoi occhietti incavati su Francesco Gonzaga che stava finendo di vestirsi con gli abiti a lutto.

Il Marchese aveva da pochi giorni fatto sì che la moglie ritornasse a Mantova per riprendere in mano le redini dello Stato, dato che il momento era troppo delicato per lasciare le decisioni a un cancelliere, eppure si vedeva benissimo che la sua mente era ancora concentrata sull'affascinante Isabella e sul tempo che avevano trascorso assieme.

“Le barche sono pronte?” chiese Francesco, sentendo lo sguardo di Filippo puntato contro la schiena come la punta di una spada.

Il Rossi annuì in silenzio e poi aggiunse: “Il fiume è tranquillo. Possiamo cominciare la traversata appena siamo pronti.”

“Giacomaccio e Piero Gentile hanno già preparato i loro uomini?” si informò il Marchese, allacciando l'ultimo schiniere di cuoio scuro.

Aveva deciso di vestirsi di nero, per il viaggio verso Chioggia e poi verso Venezia, in segno di rispetto per la morte di Ferrandino d'Aragona. E anche per la morte di suo zio, Giovan Francesco Gonzaga, benché fosse morto ormai da quasi tre mesi.

In realtà, però, per Francesco quegli abiti a lutto erano solo dedicati a sua figlia Margherita, quella bambina che non aveva mai potuto stringere tra le braccia.

'Questa inutile guerra mi ha tolto pure questo...' pensò tra sé, mentre rivedeva come in sogno gli occhi velati di lacrime di sua moglie.

Mentre Filippo stava per rispondergli, la tenda d'ingresso del padiglione si aprì all'improvviso con uno svolazzo e fece capolino Febo Gonzaga, i cui abiti sgargianti e raffinati poco si intonavano con il campo militare.

Francesco lo guardò appena. Non lo sopportava più. Era stato lui a dargli un impiego sicuro, quando era ancora giovane e nessuno era interessato a lui. Se n'era fregato del fatto che fosse solo un figlio illegittimo di suo zio Giovan Francesco, senza sostanze e senza titoli, e se l'era messo al fianco. E poi, alla prima occasione, Febo aveva accettato l'incarico di ambasciatore da Venezia.

“Quando partiamo?” chiese quello appena arrivato, avvicinandosi al parente.

Aveva il fiato corto e gli zigomi sporgenti erano arrossati per il freddo. A differenza di Francesco, lui non portava segni di lutto, nemmeno in rispetto a suo padre. Anzi, sembrava più intenzionato che mai ad arrivare a Venezia sfoggiando i tessuti variopinti e preziosi che aveva acquistato proprio da mercanti della Serenissima.

I suoi occhi tradivano l'impazienza di chi non si fida più dei propri compagni di viaggio e non vede l'ora di tornarsene in un porto sicuro.

“Appena avranno smontato il mio padiglione.” rispose Francesco, passandogli accanto e affibbiandogli una spallata.

Febo incassò in silenzio e si dovette anche sorbire un'occhiataccia da parte di Filippo dei Rossi che, con il suo sguardo pesto, sembrava sempre un Cristo in croce.

 

Achille si tormentava le mani graffiate e tagliate dal freddo senza trovare pace. Novembre era il peggiore dei mesi per fare la guerra, lo sapeva. Non avrebbe voluto per nessun motivo tirarla tanto in lungo.

Ma che altro poteva fare, però?

Era stato superbo. Aveva creduto che la sua esperienza bastasse. Si era indebitato fino al collo per pagare i mercenari che ora stavano al suo comando, ma Civitella non apriva le porte a nessuno e suo fratello Palmerio era ancora in grave pericolo.

Tiberti si era reso conto anche troppo presto che i soldati che aveva potuto permettersi coi suoi soli risparmi non erano sufficienti a quell'impresa, né come numero né come abilità, e temeva di continuo un intervento da parte dei faentini, che avrebbero di certo preso Palmerio per giustiziarlo per aver dato disturbo alla pace dello Stato.

“Che cosa intendete fare, adesso?” chiese il suo attendente, un ragazzetto sveglio, ma troppo esile per poter diventare un vero guerriero.

Achille, i cui occhi erano ancora rivolti alle mura di Civitella, sulle quali incessantemente passavano ronde armate fino ai denti, scosse il capo e non disse nulla.

Sapeva che un modo c'era, e avrebbe risolto tutto. Però forse non aveva il coraggio di fare quel passo. Aveva troppa paura di essere frainteso e di vedersi rifiutare l'aiuto che gli serviva.

Avrebbe potuto contrarre altri debiti e pagare dei mercenari migliori? Forse, ma non in tempi brevi e nel suo caso il tempo era cruciale.

Avrebbe potuto abbandonare suo fratello al suo destino, sperando che i nemici fossero clementi con lui e allo stesso modo lo fosse anche la giustizia faentina? No, non avrebbe mai potuto.

E allora non gli restava altro da fare. Non aveva scelta se non rischiare di perdere la faccia e tutto quello che aveva faticosamente costruito nel corso degli anni.

Con il respiro che si faceva affannoso, Tiberti guardò ancora una volta la città e poi il suo attendente.

Alla fine, con un filo di voce annunciò: “Attaccheremo ancora una volta. Se falliremo di nuovo, mi preparerai un cavallo veloce.”

“Dove andrete?” chiese il ragazzo, corrucciandosi e sperando che il suo comandante non volesse scappare.

Lo stimava troppo e non avrebbe sopportato di scoprire che l'indomito soldato che aveva preso come esempio di vita era in realtà solo un vile codardo.

“Se l'attacco dovesse fallire – spiegò Achille con la lingua impastata e le mani scosse da un lieve tremito – andrò a Forlì a chiedere aiuto alla Tigre.”

L'attendente restò con la bocca mezza aperta e Tiberti lo scosse con una breve pacca sulla spalla.

Il giovane deglutì e diede segno di essersi ripreso: “Lei vi aiuterà?” chiese.

Achille si rabbuiò, ricordandosi le parole con cui aveva strappato alla sua signora il permesso di partire e si sentì già colmo di imbarazzo e insicurezze, ma quando parlò all'attendente lo fece con una certa padronanza di sé: “Lo spero.”

Tuttavia, mentre si ritirava nella sua tenda per ristudiare le mappe cittadine in vista dell'ultimo attacco, Tiberti sprofondò in uno stato di attonito scoramento.

La Leonessa di Romagna era una donna molto categorica. Gli aveva detto fin da subito che lei con quella guerricciola tra signorotti non c'entrava nulla. E Achille non aveva nulla da offrirle, se non la propria vita e la propria eterna devozione, in cambio di un esercito.

'Dio ti prego, fa' sì che lei mi aiuti' pregò in silenzio Tiberti, davanti alla cartina aperta in terra.

Poi si ricordò di quello che lui stesso aveva detto della Sforza, ovvero che anche il diavolo aveva paura di lei.

E a quel punto si rese conto che pregare non gli sarebbe servito poi a molto.

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas