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Autore: Elis9800    17/08/2017    4 recensioni
[...]
Nulla pareva aver più un senso, una parvenza di significato…
Senza di lui.
Senza colui che più lo conosceva al mondo.
Senza colui che lo aveva visto crescere fin da quando riusciva a ricordare.
Senza… Iwa-chan.
[...]
“Come puoi credere di potertene andare via così?!"
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Hajime Iwaizumi, Takehiro Hanamaki, Tooru Oikawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota iniziale: la lettura delle dj della Gusari hanno influenzato la storia in alcune (per nulla poche) parti. 
Siete avvisati, troverete il suo zampino sparso qua e là.
 
 


 

Perfetti sconosciuti...?





Il cielo era plumbeo, privo di stelle.
Non che fosse una novità, non scorgere gli astri celesti a Tokyo. Quella notte, comunque, era particolarmente buia.
Le consuete luci artificiali che contraddistinguevano la capitale nipponica, considerata una delle città più tecnologiche al mondo, parevano perdere d’intensità.
Sembravano più fioche, più flebili.
Come se, all’improvviso, l’intero firmamento fosse stato ricoperto da una misteriosa patina invisibile, una pellicola trasparente capace di sfocare l’orizzonte.
Un tulle impenetrabile in grado di offuscare l’intera realtà…
Un velo di lacrime trattenute che, costrette a non scivolare lungo le guance, colmavano i suoi occhi, impedendo alle pupille nere di compiere il loro dovere, non consentendogli di distinguere alcunché.
Forse, però, non era così importante riuscire a discernere ciò che il ragazzo avesse davanti al viso.
Forse, il suo unico desiderio era fuggire da quel mondo troppo reale, troppo vivido… celandolo con forza.
Del resto, cosa era davvero importante, se lui non era al suo fianco?
Un rumoroso singhiozzo strozzato risuonò nel salone semi vuoto, rimbombando a causa di un eco fastidiosamente invadente, capace di palesare la solitudine che quell’ambiente emanava.
Una mano affusolata e pallida si appoggiò lentamente alla grande vetrata dell’appartamento, da cui svettavano gli immensi grattacieli cittadini e il traffico che scorreva inesorabile lungo le strade, venti metri più in basso.
Poco importava se la superficie vitrea fosse glaciale e la temperatura della casa non fosse migliore di quella esterna, dove il vento dell’autunno inoltrato sferzava i rami dei radi alberi, posti ai lati dei marciapiedi urbani.
Il freddo era diventato una consuetudine, per lui.
Non aveva, tuttavia, meramente perso quella determinata sensibilità fisica, no, no.
Erano le viscere, ad esser gelide.
Gli organi interni, il sangue che gli scorreva nelle vene, il cuore.
Era un freddo che lo attanagliava dall’interno, che non gli consentiva di respirare, parlare, mangiare, pensare lucidamente.
A nulla serviva imbacuccarsi di coperte pesanti, vestiti termici, sciarpe di lana.
Il gelo non cessava.
L’unico modo che sembrava acquietare temporaneamente quel suo stato d’ipotermia, pareva essere indossare una felpa.
Una grande, fin troppo grande per lui, felpa verde.
Una felpa che emanava un calore familiare. Un odore fin troppo conosciuto.
Era apparentemente strano che non sentisse più freddo, perché non indossava mai nulla, sotto di essa. Nemmeno i boxer, alle volte.
Era solo il suo corpo a contatto con quella stoffa vissuta.
Solo la sua epidermide contro il fantasma della pelle di chi aveva indossato quell’indumento in precedenza.
Tooru strinse la mano sinistra in corrispondenza del cuore, afferrando i lembi di tessuto fino a imprimerseli quasi dentro il petto.
Non sapeva ancora cosa ci guadagnasse, da quel contatto disperato.
Non sapeva bene cosa ottenesse, stringendo su di sé quella felpa, quell’unica reliquia che gli era rimasta di lui.
Non sapeva nemmeno se fosse effettivamente rimasto il suo profumo, in quelle vesti, o se, invece, non se lo fosse già impresso interamente addosso. Se non fosse solo la sua immaginazione, una sorta di “effetto placebo” per placare il suo dolore.
Eppure, non poteva proprio farne a meno.
Non riusciva a non rispettare quella sorta di rituale, Tooru Oikawa, quello stato di limbo in cui aveva ancora la sensazione di percepire il corpo dell’altro su di sé, il contatto meraviglioso delle loro pelli, delle loro mani, delle loro bocche…
Una lacrima silenziosa riuscì finalmente a sfuggire dalla morsa che l’aveva costretta nella palpebra tremante, inumidendo la guancia che di rosato pareva aver perso ogni traccia, depositandosi sul parquet con un impercettibile “plic”. 
Se avesse avuto la facoltà di parlare, quel pavimento, si sarebbe decisamente lamentato per tutte le volte che quelle goccioline tremanti erano piovute su di lui.
Ma non gliene avrebbe fatto una colpa. Non ne avrebbe avuto il coraggio, guardando il viso smunto del giovane dai bellissimi capelli fluenti color cioccolato. Capelli che, però, andavano via via perdendo volume, afflosciandosi sulla fronte pallida, vinti dalla forza schiacciante di gravità.
Visto dall’esterno, in quel momento, chiunque avrebbe stentato a riconoscere il famoso Oikawa Tooru, modello di rinomate riviste giapponesi.
Era conosciuto per i maliziosi e smaglianti sorrisi, gli occhi vispi dal colore tanto acceso, i tratti quasi femminei e delicati come un bocciolo di rosa e un fisico asciutto e slanciato, tonico ma non volgare.
Un’immagine che non combaciava con l’ancora gradevole, certo, ma notevolmente più opaco ragazzo dalle sclere iniettate di sangue, lo sguardo vacuo, la pelle screpolata e il torso fin troppo magro.
Le truccatrici lo avevano rimproverato fin troppo spesso e i miracoli che erano state in grado di creare con il trucco, erano ormai limitati. Si era beccato anche pesanti ramanzine dai suoi superiori, i quali avevano anche minacciato di buttarlo fuori, ribadendo che non sarebbe stato difficile, per loro, rintracciare un altro bel faccino in giro per la città: i candidati facevano letteralmente la fila, per ottenere il suo posto.
Eppure, a Tooru non importava.
Nulla pareva aver più un senso, una parvenza di significato…
Senza di lui.
Senza colui che più lo conosceva al mondo.
Senza colui che lo aveva visto crescere fin da quando riusciva a ricordare.
Senza colui che si era portato via un pezzo della sua anima.
Senza il possessore di quella felpa così grande da lasciargli scoperte gran parte delle clavicole sottili.
Senza… Iwa-chan.
Senza Hajime.
La fronte del castano sbatté improvvisamente contro il vetro, non riuscendo a sopprimere un tremito incontrollabile.
Si morse il labbro, già segnato dalla quantità di volte, ormai, in cui i suoi denti vi si fossero ficcati a sangue negli ultimi mesi.
Cercare di scacciare quei pensieri era completamente inutile. L’aveva sperimentato sulla sua stessa pelle.
Tentare anche solo di allontanare quelle emozioni opprimenti, dolorose quanto una lama affilata di coltello contro il petto… era impossibile quanto pensare di dimenticarlo.
Come poteva?
I singhiozzi solitari di Tooru si acuirono mentre la schiena era curva, come se avesse dovuto sopportare un macigno pesantissimo.
Come poteva sperare di rimuovere Hajime dalla sua testa?
Come poteva pensare di rinchiuderlo semplicemente in uno scompartimento della sua mente, dopo averlo accompagnato per tutta la vita?
Come poteva credere…
“Hajime…”
Pianse.
Pianse, contorcendo lo stesso viso che Iwaizumi aveva definito, superando l’imbarazzo, bellissimo.
Pianse, permettendo a piccole rughe di dolore d’insinuarsi nella sua pelle altrimenti perfetta.
“Come puoi credere di potertene andare via così?!”
Eccolo il chiodo fisso, l’urlo inespresso che gli echeggiava nella mente e lo dilaniava dall’interno, lentamente e inesorabilmente.
Come poteva anche solo credere, Hajime, che fosse possibile abbandonarlo dopo una vita passata assieme, dopo anni e anni di rimproveri, incoraggiamenti, confessioni, pianti, risate, complicità… seguiti da impacciati abbracci, timidi baci, inesperte carezze… culminate in passionali notti d’amore che gli avevano fatto toccare il cielo con un dito?
Come poteva pensare che Tooru fosse in grado di continuare ad andare avanti senza la roccia portante della sua vita? Senza il pezzo di cuore che si era portato via?
Come… come diavolo avrebbe potuto continuare a vivere?
Il petto del ragazzo si contrasse e le mani strinsero ancor di più la felpa che Hajime aveva dimenticato a casa sua una notte… oppure che Tooru gli aveva rubato un giorno dal suo armadio, chissà.
Era semplicemente impossibile.
Non che non ci avesse provato, ad accettare quella decisione…
Non che non avesse provato a pensare razionalmente, ripetendosi che quella relazione non avrebbe potuto durare per sempre… l’amore sarebbe terminato, forse, un giorno…
Eppure, Tooru era ancora maledettamente innamorato di Hajime.
Era ancora legato con un filo invisibile al cuore di quel ragazzo...
Che, però, l’aveva lasciato.
L’aveva lasciato sei mesi prima.
Sosteneva che, continuando in quel modo, si sarebbero privati di esperienze nuove, fondamentali per la loro crescita personale.
Continuare a stare insieme dopo un’intera vita in cui non si erano pressoché mai separati, avrebbe reso loro impossibile comprendere davvero se quella fosse la scelta che entrambi volessero. Capire se, in realtà, il loro rapporto altro non fosse che una consuetudine, iniziata da bambini e scandita dalla mera abitudine.
Sarebbe anche potuto sembrare un ragionamento coerente… ma non si era trattata, tuttavia, di una decisione ponderata o ragionata da ambedue le parti.
Per Tooru, era stato come un fulmine a ciel sereno.
Una rottura netta, definitiva, senza possibilità di rimanere in contatto…
Poiché Hajime era subito partito qualche giorno dopo in giro per il mondo, seguendo il gruppo di colleghi della facoltà d’Antropologia, finanziati grazie ad un progetto dell’Università, con l’intenzione di studiare da vicino le culture più variegate del globo, immergendovisi direttamente e in prima persona.
Nessun messaggio, nessuna chiamata, nessun incontro.
Dopo 21 anni, il cui tempo massimo in cui non si fossero sentiti equivaleva forse ad una settimana, Hajime era sparito per sei mesi. Sparito…
Per sempre dalla sua vita…?
Il respiro del ragazzo si fece sempre più irregolare, come se faticasse persino a inspirare aria e consentirle l’accesso ai polmoni.
Era qualcosa che non riusciva ancora a concepire.
Era come se si trattasse solo di un brutto sogno; come se, da un giorno all’altro, Hajime sarebbe tornato da lui con quel sorriso sghembo in volto e, con quegli occhi più verdi di un prato irlandese, gli potesse sbuffare in faccia che era tutto uno scherzo e che lui era un idiota credulone per esserci cascato.
Ci aveva sperato davvero… ma il trascorrere del tempo inesorabile aveva impedito la realizzazione di quell’illusione.
Alzò lentamente la testa, fissando nuovamente l’orizzonte di Tokyo, ancor più sfuocata ai suoi occhi rossi, grondanti lacrime salate.
Non riusciva a capirlo.
Non riusciva a comprendere tutti quei perché.
Che cosa fosse mai passato per la testa del suo migliore amico d’infanzia prima e amante dopo.
Cosa diavolo l’avesse convinto a spingerlo in quel baratro immane di sofferenza.
Perché non poteva certo immaginare che Hajime non intuisse il suo stato attuale. Sarebbe stato come… realizzare, improvvisamente, che chi avesse avuto a fianco per così tanti anni, fosse stato cieco…
Fosse stato… un perfetto sconosciuto.
Quel pensiero era quello che faceva più male.
Strinse i pugni e si rimise in piedi a fatica, incamminandosi verso il letto dell’altra stanza, infiacchito da quel turbinio di pensieri.
Gli mancava, pensò, buttandosi sul materasso e accovacciandosi in posizione fetale, coprendosi più che poté con la felpona verde, alzandosi anche il cappuccio ingombrante in testa.
Gli mancava da morire…
Era un’emozione tanto dolorosa da non riuscire nemmeno a qualificarla.
Non si poteva illustrare con esempi concreti.
Non si poteva descrivere a parole il vuoto che sentiva nel petto ogniqualvolta respirasse, come una voragine incolmabile nella sua gabbia toracica.
Ecco: era come se un’esplosione l’avesse dilaniato a metà; come se avesse perso un braccio, una gamba, un occhio, metà cuore, metà cervello…
Come pensare, dunque, di sopravvivere in tali condizioni?
Tooru non lo sapeva, realizzò scivolando in un sonno che, almeno per qualche ora, l’avrebbe distratto dalla sua condizione di totale straniamento dalla realtà.
 
L’ultima cosa che percepì distintamente, fu l’odore che il cappuccio di Hajime ancora emanava di lui.
All’allargarsi delle narici, due lacrime scesero involontariamente dalle palpebre chiuse.
 
 
Un anno e mezzo dopo
 
 
Sbatté la portiera dell’auto verde mezza scassata del suo collega più grande, che aveva acconsentito di buon grado a riaccompagnarlo a casa, sebbene non avesse garantito il massimo del comfort per i minuti che avrebbe trascorso su quel ferro vecchio.
Casa, eh…
Hajime, dopo aver salutato l’amico con un cenno della mano e aver udito il motore ruggire lamentoso prima di decidersi a rimettersi in moto, guardò la vecchia abitazione al piano terra, abbandonata decisamente a sé stessa
Sospirò rumorosamente, trascinandosi l’enorme zaino che reggeva sulle spalle e che ne aveva viste davvero di tutti i colori. Un po’ come i suoi piedi, carichi di vesciche e ferite dovute ai tanti chilometri percorsi in 730 giorni.
Le chiavi girarono a fatica nella toppa, ormai arrugginita per non essere stata usata per tutto quel tempo e, aperta la porta, lo accolse un fetore nauseante di chiuso. Aveva rifiutato l’offerta della signora dal viso gentile, che svolgeva abitudinariamente le pulizie in casa, di continuare a mantenere l’ordine almeno una volta a settimana. Sarebbe stato uno spreco di soldi inutile, a suo dire, e, dato che non vi abitava nessuno, tanto valeva sistemare tutto una volta tornato.
Se fosse tornato, per l’esattezza.
Sì, Hajime aveva anche pensato di stabilirsi altrove, almeno per un po’.
All’inizio del suo viaggio intorno al mondo, alla scoperta di luoghi e culture tanto differenti dalla sua con il gruppo universitario, aveva persino pensato di fermarsi in quelle terre, magari trasferircisi per qualche anno.
In fondo, il suo lavoro futuro avrebbe sicuramente richiesto spostamenti continui, quindi perché rimanere attaccati alla propria terra d’origine così infantilmente?
Cosa aveva da perdere?
Cos’era che avrebbe potuto trattenerlo in Giappone come una corda invisibile e inscindibile?
Voleva bene alla sua famiglia, ma non era certamente quella, a fungere da vincolo…
Tooru.
Pensare a quel nome, e conseguentemente al suo viso delicato e vivace, gli provocava sempre, sempre, un’intrattenibile scossa elettrica al petto.
Hajime scosse energicamente la testa, liberandosi del peso opprimente sulla schiena e incamminandosi alla cieca verso la finestra del soggiorno, spalancandola con uno strattone e udendola scricchiolare pericolosamente.
La flebile luce di quel giorno nebbioso mostrò ad Hajime un soffitto in cui aracnidi d’ogni dimensione avevano costruito la loro reggia. Si sarebbe dovuto rimboccare le maniche per pulire tutto quel porcile…
Dando una rapida occhiata all’intera casa, una zona giorno comprendente cucina e tinello e altre due stanze rappresentati bagno e camera da letto,  si disse che, forse, l’idea di pagare la signora delle pulizie almeno una volta a settimana avrebbe evitato di far diventare quel luogo, già vecchio,  un nido d’insetti d’ogni genere.
Non che gli piacesse davvero, quell’appartamento scrostato in periferia.
Apparteneva ai suoi nonni materni, trasferitisi nell’Hokkaido anni addietro, che avevano preferito non mettere in vendita l’immobile nel caso in cui fosse stato impellente un trasferimento nella capitale. In tal modo, avevano acconsentito più che volentieri a far soggiornare il nipote, che, così, non avrebbe dovuto accollarsi le spese ingenti di un affitto ma limitarsi, invece, al solo pagamento delle bollette. Non poteva dunque lamentarsi delle condizioni di quella casa… nonostante desiderasse vivamente potersi trasferire al più presto.
Anche per quella ragione ci aveva seriamente pensato, anzi, ne era stato fermamente convinto, agli inizi del suo viaggio. Terminare gli studi non sarebbe stato così impossibile all’estero e avrebbe solamente giovato alla sua tesi di laurea.
Allora, perché non l’aveva fatto?
Perché non aveva dato retta a quel desiderio, a quella voglia di ricominciare da capo, di costruirsi una nuova vita, libero da ogni vincolo?
La risposta era sempre, sempre quel singolo nome.
Un nome che l’aveva tormentato durante il sonno, durante le scarpinate sui monti, durante le nuotate nell’Oceano.
Un nome che pareva essere inciso a fuoco nel suo cervello, sulla sua pelle.
Un nome proveniente da un passato che non poteva cancellare.
Un nome che si era dovuto trattenere dal pronunciare, nelle notti passionali trascorse con altre donne.
Un nome che avrebbe voluto sussurrare mentre ammirava l’Aurora Boreale con il viso nascosto nella pesante sciarpa di lana e le mani fasciate dai guanti… che, invece, avrebbero voluto solo stringere il suo palmo niveo, magari riscaldandolo con il proprio calore.
Lampi a ciel sereno, sprazzi di una vita passata che gli facevano perdere lucidità per qualche istante, prima di costringersi a strizzare prepotentemente gli occhi e a guardare avanti, verso la vita vera, verso un futuro vero. 
Aveva lasciato Tooru due anni prima. La loro storia… era terminata.
Si era gettato alle spalle la loro relazione per poter, volutamente, aprire nuove strade davanti a sé, nuove prospettive da esplorare, da scoprire.
Non avrebbe potuto continuare a rimanere statico, immutato per sempre.
Non avrebbe potuto… rischiare che il suo rapporto con Tooru fosse unicamente dovuto all’abitudine, alla mancanza di ulteriori possibilità. Avevano sempre vissuto assieme, quindi, forse… il loro stare fisicamente e sentimentalmente uniti era solo una conseguenza della loro interazione troppo opprimente, troppo schiacciante.
Come poteva davvero affermare, Hajime, di amare più d’ogni altra cosa Tooru, se non aveva ancora compiuto esperienze differenti in vita sua? Se non era mai… stato con nessun altro o altra?
Era anche questo, ciò che lo preoccupava fortemente.
L’amico d’infanzia pareva esser l’unico ragazzo, l’unico maschio, ad attrarlo fisicamente, annullando quindi la possibilità di una sua presunta omosessualità. Se n’era reso conto già da tempo, certo… influendo negativamente sui suoi già pressanti dubbi sul considerare la loro relazione come un proseguimento innaturale del loro affetto.
Era stato necessario, rompere con Oikawa. Necessario per entrambi.
Insomma, chissà quante milioni di possibilità avrebbe avuto, quello schianto di ragazzo, senza lui intorno? Chissà quante opportunità lavorative e relazionali avrebbe potuto incontrare, senza il costante pensiero di avere lui a fianco come una palla al piede…
Nonostante proclamasse tali frasi con convinzione, però, il cuore di Hajime doleva terribilmente, ogniqualvolta provava a immaginare Tooru nelle braccia di qualcun altro. Magari mentre… qualcuno lo possedeva come solo lui aveva fatto prima.
 
Il getto d’acqua gelida della doccia, pulita minuziosamente prima di entrarvi per evitare di rischiare qualche strana malattia dovuta alla polvere e alle incrostazioni di muffa, lo riportò alla realtà.
Quei pensieri erano sicuramente dovuti al comunissimo “Vorrei che gli ex mi appartenessero per sempre”; tutto qui. Quella malsana gelosia nei confronti di qualcuno puramente immaginario, altro non era che la manifestazione di possesso che il cervello umano rivendica nei confronti di qualcosa che è stato nostro.
Semplice, banale.
Nulla di preoccupante.
 
Mentre frizionava i capelli con un asciugamano pulito, si guardò distrattamente allo specchio sopra il lavandino.
L’abbronzatura era diventata una costante nel suo corpo, causata da tutte quelle camminate sotto il sole; il suo torso, invece, non era mai stato tanto tonico.
Si rese conto, con amara ironia, che viaggiare e scarpinare per ben due anni di fila irrobustisse molto più il corpo che qualsiasi altro estenuante allenamento quotidiano di pallavolo. Lo temprava alla fatica e al dolore. Insomma, era ciò che di meglio potesse esserci, per Hajime, votato per natura all’attività fisica.
Stava continuando a osservarsi in modo abbastanza disinteressato, ma non appena posò lo sguardo sul suo collo leggermente piegato… un’immagine fulminea apparve davanti ai suoi occhi chiari, facendogli accelerare il battito cardiaco e strozzare il respiro.
Vi era lui in quell’identica posizione, capelli e corpo umidi dalla doccia… e una bocca.
Una bocca carnosa e sinuosa premuta contro la sua pelle.
La bocca di Tooru, che gli mordeva giocosamente l’epidermide olivastra e sensibile, lasciandovi segni più che eloquenti mentre la mano affusolata gli carezzava l’addome già allora scolpito. Anch’egli era nudo; avevano appena terminato di lavarsi assieme, dopo essersi punzecchiati tutto il tempo a causa dello spazio eccessivamente ristretto del box, a differenza, invece, della fin troppo enorme doccia dell’appartamento di Tooru, dall’altra parte della città.
Sebbene la maggior parte delle volte in cui s’incontravano preferissero di gran lunga recarsi nella casa del castano, capitava che, qualche volta, finissero anche in quella di Hajime, il quale, costretto a sopportare le lamentele infantili del suo fastidioso compagno su quanto fosse piccola e squallida quell’abitazione, finiva per metterlo a tacere con qualche scappellotto sulla nuca o bacio improvviso, in base al suo umore.
 
Un grugnito strozzato riuscì a sfuggire alla bocca del moro, che chiuse gli occhi con forza e si piantò le unghie nei palmi delle mani.
Perché diavolo gli stava tornando così spesso in mente quel dannato?
Perché, da quando aveva rimesso piede a Tokyo qualche ora prima, la sua presenza pareva essere onnipresente?
Pareva vederlo ovunque, Hajime: nel bar che lui e il suo collega avevano superato precedentemente in auto, in cui i due fidanzati erano soliti incontrarsi prima dei rispettivi impegni mattutini per un caffè, o una tazza di cioccolata calda nel caso di Tooru; nella marca del suo shampoo preferito alla vaniglia promosso da un enorme cartellone pubblicitario, che gli rendeva i capelli castani anche più profumati del normale; nel negozio d’arredamento in cui Oikawa l’aveva trascinato tempo addietro poiché desideroso di comprare qualcosa di coordinato per entrambi e lui aveva dovuto fingere di rimanere assolutamente indifferente, quando il ragazzo aveva scovato due tazze dal fondo di un ripiano, una puntellata da tante teste d’alieno e un’altra con il logo di Godzilla, sorridendogli raggiante… e causandogli l’aumento della temperatura alla vista di quel sorriso disarmante, facendolo cedere anche alla tentazione di baciare le sue labbra perfette, godendo del sussulto di sorpresa nel viso del compagno, subito tramutato in un mugolio soddisfatto.
 
Si rivestì nervosamente e uscì dal bagno.
Si trattava soltanto di stress eccessivo. Era normale che ritornare nella città in cui aveva vissuto a lungo con il suo ex ragazzo l’avrebbe fatto sentire strano, no?
Era normale, normale, continuava a ripetersi mentre apriva il suo zaino e iniziava a svuotarlo dalle cose che si era portato durante il lungo viaggio. Impegnarsi in un’attività lo aiutava a non pensare, garantendogli di compiere qualcosa di puramente meccanico.
Trascorse così una buona mezzora… finché non trovò in mezzo ai vestiti un ciondolo. Un ciondolo contenente una pietra di luna.
Hajime abbozzò un sorriso.
Sachi gli aveva regalato la collana che portava al collo ogni giorno come ricordo della loro breve ma intensa relazione.
Poggiò il gioiello all’estremità del piccolo specchio accanto all’attaccapanni dell’ingresso e si soffermò a guardarlo per qualche minuto.
Quante volte l’aveva osservato, sul collo della giovane collega universitaria: quando correva per i paesaggi nuovi che stavano esplorando per la prima volta e gli saltellava sul petto impazzito; quando si piegava in avanti per prendere qualcosa dall’enorme zaino che portava sulle spalle, quasi più grosso di lei, e le ondeggiava davanti al viso; quando le baciava il seno piccolo ma grazioso, nelle notti in cui si abbandonavano al piacere, e fungeva da ostacolo al raggiungimento dei capezzoli chiari.
I ricordi di quei momenti assieme erano delicati, gli lasciavano un sorriso lievemente nostalgico sulle labbra.
Stava bene, con quella ragazza: sveglia, intelligente, entusiasta ai limiti del possibile, capace di trascinare anche lui, il più serioso della compagnia, in avventure e situazioni d’ogni genere. Ricordava bene la sensazione dei suoi capelli biondo miele fra le dita, lisci e sottili; era capace di rilassarlo sempre. Lei l’aveva notato subito, a suo dire: aveva adorato fin dal primo momento quello sguardo serio, quegli occhi verdi tanto intensi e, a dir suo, un po’ inquieti; quei lineamenti duri, eppure capaci di rilassarsi se solo si conquistava la sua fiducia.
Lui, invece, aveva apprezzato quella figura esile ma atletica, quegli occhi scuri dalla sfumatura nocciola… nonostante avesse sempre, sempre cercato di non dar peso a quella sensazione di pressante, opprimente malinconia, quasi sconfinante nella tristezza, mentre li guardava…
Perché non erano i suoi, di occhi.
Non si trattava di quel marrone cioccolata che tanto l’aveva irretito, gli aveva fatto perdere il controllo, l’aveva fatto crollare…
No.
Quella era Sachi…
E andava benissimo così com’era. Era una ragazza perfetta, dolce e gentile, capace di farlo star bene.
Però…
Non era stato in grado di accettare la proposta di rimanere in Australia con lei.
La collega si era detta entusiasta di quella cultura e desiderosa di rimanere in quel paese altro tempo per poterlo studiare meglio, culminando probabilmente in una bellissima tesi di laurea... e aveva chiesto ad Iwaizumi di rimanere lì con lei. Gli aveva chiesto di condividere un alloggio assieme, di continuare a studiare come avevano sempre fatto fino a quel momento… consolidando la loro relazione, insomma.
E lui… beh, era stato colto da un senso d’oppressione.
Nonostante fosse quello che avesse inizialmente programmato, cambiare vita, conoscere persone nuove… era stato invaso da un senso di soffocamento.
Le voleva bene, certo… ma non era pronto. Non era pronto a intraprendere una nuova relazione stabile così presto, aveva detto.
Alla sua giustificazione, lei aveva annuito, il volto velato di dispiacere, ma, con estrema comprensione, si era sfilata dal collo quella collana e gli aveva solo chiesto di non dimenticarla, una volta tornato a casa. E lui aveva promesso, sorridendole un po’ forzatamente. Le aveva scoccato un ultimo sguardo… e aveva colto qualcosa nell’espressione della ragazza che, però, non era riuscito a cogliere.
Era… una triste rassegnazione? Una sospirata consapevolezza?
Non sapeva dirlo.
Era però convinto che, fondamentalmente, le sarebbe mancata… no?
Avevano vissuto fianco a fianco per ben due anni ed avevano iniziato a “frequentarsi” l’anno prima. Era impensabile non sentirsi triste…
Eppure, non v’era alcun senso di pesantezza nel suo petto, alcuna difficoltà respiratoria nel ricordare il suo viso. Era perché non si vedevano da appena un mese, da quando l’aveva lasciata in Australia? Era passato troppo poco tempo per minacciare i sintomi della mancanza…?
Doveva essere così, si disse, rassettando il disordine ancora in giro per casa e spalancando cassetti e ante per sistemarvi i vestiti ancora in giro…
Fino a quando il cuore non gli schizzò in gola.
Le iridi verdi erano fisse all’angolo dell’armadio noce della sua stanza da letto.
Una sciarpa bordeaux era abbandonata lì, solitaria.
Non apparteneva a lui, questo era certo. Non aveva mai indossato nulla di quel colore in vita sua…
Con la mano inspiegabilmente tremante, afferrò quel lungo pezzo di stoffa e se lo rigirò fra i palmi. Era morbido cachemire, un tessuto che aveva visto spesso indosso a una certa persona…
Una fragranza terribilmente familiare gli inebriò le sinapsi.
Inconsciamente, Hajime se la portò vicino al viso, ispirandone meglio l’odore.
Di colpo, una vagonata di frammenti di ricordi si riversò in lui come una scarica elettrica.
Quell’essenza dolce e delicata, tanto simile a un profumo artificiale eppure appartenente a una specifica epidermide rosata… fu un pugno allo stomaco.
Una coltellata al petto. Una martellata in testa.
Era più di quel che potesse sopportare.
Allontanò la sciarpa da lui e la rigettò nell’armadio, chiudendone l’anta con uno scatto.
Doveva calmarsi dannazione, pensò con il cuore che gli rimbombava ancora nel petto.
Era… passato tempo… non… avrebbe dovuto fargli ancora quell’effetto il suo profumo, no?
Le palpebre di Hajime si socchiusero e si prese la testa con le mani.
Era ridicolo.
Era stato per via due anni cercando di non pensare a Tooru, per cercare di costruirsi una nuova vita, per cercare di compiere un favore ad entrambi, credendo che la loro storia potesse facilmente disgregarsi se non si fossero continuati a vedere, puntellando quindi l’unico punto costante del loro rapporto, ovvero l’assidua frequenza… e adesso?
Adesso perdeva nuovamente la testa alla sola vista di una fottutissima sciarpa?!
No, era semplicemente ridicolo, concluse, buttandosi pesantemente sul letto.
Aveva la testa a pezzi e aveva bisogno di dormire. Era stato un viaggio stancante… un lunghissimo viaggio stravolgente, per la sua mente e per il suo corpo.
Eppure, realizzò indistintamente, perdendo lucidità mentre le palpebre gli si chiudevano, vinte dalla stanchezza…
Niente di ciò che aveva visto, provato e realizzato in quegli anni… l’aveva mai scosso così tanto nelle viscere, nell’anima… come il sentimento che sentiva di aver provato per Tooru Oikawa.
 
E… se avesse sbagliato tutto?
 
Il sonno tolse ad Hajime la possibilità di rifletterci.
 

 
***
 

“Un’altra ancora, Oikawa-kun!” fu l’esclamazione squillante del fotografo dagli enormi occhiali Gucci mentre immortalava il giovane in una seducente e al tempo stesso sobria posa, gli occhi cioccolato socchiusi e le labbra distese in un sorriso ammiccante. Indosso, solo un paio di jeans Calvin Klein, teorici protagonisti di quel set fotografico.
“Sei perfetto, Tooru-chan, sorridi così!” fu lo squittio di un’altra fotografa che scattava di profilo.
I muscoli facciali di Tooru erano indolenziti, ma non vi fece caso. Ormai, era diventata un’abitudine, quella di sorridere sempre in maniera falsata.
Non appena i due ebbero finito la loro opera, gli fu consegnata la solita vestaglia bianca che era destinata a tutti i modelli, ma lui scosse la testa, continuando ad assumere quell’espressione stucchevole.
Aveva posato anche con molto meno addosso, non sentiva il bisogno di coprirsi per così poco.
Due ragazze, probabilmente addette al trucco assunte da poco considerando che il modello non rammentava i loro volti, lo guardavano con occhi sognanti e ridacchiavano maliziose.
Come alle frasi d’apprezzamento per le sue caratteristiche fisiche, da parte di fotografi e delle agenzie di moda, aveva fatto l’abitudine anche a quelle reazioni adoranti, provenienti sia da uomini sia da donne.
Salutò il personale dello studio fotografico e, dopo essersi ricomposto, uscì fuori nel tardo pomeriggio nebbioso cittadino.
Ispirò l’aria carica di pioggia e smog e rilassò il volto, stanco di tutte quelle espressioni tirate.
Ciò che rimase, strappando quella maschera fittizia… pareva esser il fantasma dell’Oikawa Tooru che tutti conoscevano.
Lavandosi dalla faccia il fondotinta, l’illuminante e tutte le altre diavolerie che la sua ormai fedele truccatrice utilizzava su di lui per farlo apparire al meglio, erano visibili due occhiaie profonde che ormai erano un tutt’uno con il suo viso. Nonostante dormisse quasi regolarmente setto/otto ore a notte, il suo volto pareva rifiutarsi di assumere un colorito più sano.
Ma Tooru aveva fatto l’abitudine anche a quello.
Aveva fatto l’abitudine… a vivere una vita a metà.


Affondando le mani nelle tasche del trench scuro, si diresse a passo lento verso il bar all’angolo in cui si recava spesso appena terminati gli scatti fotografici. Ormai lavorava presso agenzie di moda e riviste come modello e fotomodello praticamente ogni giorno, richiesto in tutto il Paese, e il guadagno era tanto elevato da essere considerato come un lavoro professionale a tutti gli effetti. Per la pallavolo… beh, aveva ritagliato del tempo settimanalmente per allenarsi con la squadra universitaria, di cui ormai frequentava essenzialmente solo qualche lezione al mese, ma lo faceva puramente per mantenere allenato il corpo, divenuto ormai la sua unica fonte di sostentamento.
Non che avesse sostituto l’interesse per l’essere fotografato con quello per lo sport che aveva sempre adorato fin da bambino…
Solo che, semplicemente, lavorare come modello non gli richiedeva alcuno sforzo.
Non si doveva impegnare, non doveva studiare fino all’esaurimento, non doveva pensare a nulla.
Doveva solo assumere una maschera diversa, a seconda del tema scelto dalla rivista, e rimanere zitto e fermo a farsi immortalare.
Fine.
Un impiego perfetto per chi, come lui, aveva ormai perso la capacità di concentrarsi per più di due secondi su qualcosa senza che la sua mente cominciasse a vagare libera e senza freni, soffermandosi su pensieri e volti tristemente conosciuti.
Non era cambiato poi un granché, da quella sera di un anno e mezzo prima.
 
Sospirando stancamente, spinse la porta a vetri e salutò con un cenno la cameriera riccia, che oramai lo conosceva, e si sedette nel solito tavolino vicino alla vetrata.
Osservò le persone passeggiare pigramente lungo le vie semi affollate della città, le luci dei lampioni che illuminavano i volti dei passanti.
Poté scorgervi le emozioni più disparate: tranquillità, rabbia, tristezza… amore.
Il cuore parve sprofondare non appena adocchiò una coppietta mano nella mano, lei che sussurrava qualcosa all’orecchio di lui e quest’ultimo che rideva con gli occhi che brillavano, prendendole poi il viso con le mani e scoccandole un leggero bacio sulle labbra.
La ragazza con in mano il vassoio contenente la sua cioccolata calda lo scosse da quella visione che gli torturava il cuore già straziato.
Ringraziò e prese la bevanda tra le dita congelate, rigirandosi la tazza di ceramica fra i palmi.
Non seppe quanto rimase in quella posizione. Non stava nemmeno fissando qualcosa in particolare: il suo sguardo vagava dal liquido scuro e denso ai tavolini di vimini del locale fino al ricamo colorato della gonna della signora seduta poco lontano da lui, totalmente assorta nella lettura.
Da quanto non riusciva a leggere un buon libro senza immaginare la sua vita al posto di quella dei protagonisti? Da quanto non riusciva a vedere un film senza piangere a dirotto per ore?
Da quanto… aveva smesso di essere Oikawa Tooru per trasformarsi in quella creatura amorfa che anche lui stentava a riconoscere?
Che domanda banale.
Dopo aver risposto velocemente a un sms, accettando un po’ di malavoglia l’invito a uscire propostogli dai suoi compagni di squadra, si decise a bere la cioccolata che teneva in mano prima che diventasse del tutto fredda.
Il sapore forte e leggermente dolciastro del cioccolato gli invase le papille gustative… eppure, l’aroma che un tempo gli avrebbe fatto leccare le labbra pareva stemperato con un retrogusto quasi amaro; qualcosa che non gli lasciava gustare la bevanda come avrebbe dovuto.
Sorrise amaramente, stropicciandosi gli occhi offuscati con una mano.
 
Quanto diamine si era portato via, Hajime Iwaizumi?
 

 
***
 

Dopo tre giorni dal suo arrivo, Hajime pareva essersi quasi riabituato ai ritmi della caotica metropoli nipponica.
Aveva ripulito la casetta da cima a fondo e si era finalmente deciso a uscire per andare a fare riformamento di vivande e cianfrusaglie varie.
Tornando dal supermarket, distante circa dieci minuti a piedi dalla sua abitazione, s’imbatté nell’edicola gestita da un affabile vecchietto, da cui si era recato spessissimo in passato per acquistare quotidiani e qualche rivista di viaggi che lo aveva particolarmente colpito.
Si fermò per salutarlo e si sorprese nello scoprire che l’anziano signore lo riconosceva ancora, nonostante fossero passati ben due anni e la sua memoria non doveva essere più ferrata come un tempo.
Mentre il giornalaio lo aggiornava sulle ultime novità del quartiere, “La figlia della pescivendola è scappata con il figlio del panettiere lì in fondo, senti che roba!”...
L’occhio gli cadde involontariamente su alcune riviste di moda esposte in prima fila.
Trattenne il fiato e sgranò gli occhi, non appena vide in copertina Oikawa, sorridente e ammiccante all’obbiettivo, con indosso solo dei jeans sbottonati.
Afferrò il giornaletto d’istinto, senza far caso al fatto che il vecchietto lo stesse squadrando sorpreso.
“T’interessa la moda, figliolo? Non lo avrei mai detto” borbottò, grattandosi i lunghi baffi bianchi.
Iwaizumi si scosse, distogliendo lo sguardo da quel corpo apparentemente perfetto che tante, troppe volte aveva toccato, accarezzato…
“No… è che mi sembrava di conoscere il modello, tutto qui” grugnì con la voce sorprendentemente incrinata, posando bruscamente quell’oggetto come se si fosse scottato.
Il vecchietto rise rocamente, tossendo poi per grattarsi la gola.
“Non sarebbe strano, ragazzo! Questo qui è molto famoso, sai? Ogni settimana esce una rivista rinomata sempre nuova con lui in copertina, sempre diversa! Deve avere tantissimi contatti, è richiestissimo” spiegò il signore, sorprendendo Hajime per la conoscenza d’informazioni come quelle.
A quella rivelazione, comunque, il moro rimase interdetto e una sensazione fastidiosa e dannatamente familiare gli attanagliò lo stomaco.
“E… sa se, ecco, appare sempre in… questo modo?”
Iwaizumi si rese conto che la sua domanda suonasse piuttosto infelice. Insomma, cosa diamine avrebbe potuto pensare il vecchietto?
Quest’ultimo, comunque, non vi fece poi tanto caso e, anzi, sembrò capire al volo cosa intendesse il moro.
“Intendi se lo fotografano sempre mezzo nudo? Ah, anche peggio, giovanotto. Ormai mi sono abituato a vedere le sue immagini, ci sono parecchie ragazzine qui in zona che comprano la rivista solo per vedere lui. Ci impazziscono letteralmente! Gli fanno indossare di tutto: dagli smoking firmati alle sole mutande. Tutto questo macello per pubblicizzare delle dannate mutande, capisci?”
Il vecchietto pareva esser davvero in vena di parlare e dibattere su quell’interessante discorso, ma Hajime aveva la testa da un’altra parte.
Non aveva idea che Tooru avesse iniziato a lavorare così seriamente come modello. Due anni prima si trattava solo di un lavoretto part-time che gli impiegava massimo tre giorni a settimana, tanto per guadagnare qualcosa…
E, soprattutto, non aveva idea che Tooru avesse mai avuto intenzione di posare mezzo nudo. Okay che era sempre in cerca di ammirazioni e consensi, però sapeva quanto gli desse fastidio che…
D’un tratto, la consapevolezza che lui non avesse più diritto di decidere sulla vita dell’altro lo bersagliò in pieno.
Lui l’aveva lasciato, ergo, Oikawa era libero di vestire e non vestire come preferiva.
 
Mentre ringraziava il giornalaio e s’incamminava verso casa, ammise che, fondamentalmente, non poteva sorprendersi.
Non aveva avuto, né aveva voluto ottenere, notizie del ragazzo per ben due anni.
Non sapeva come stesse né cosa facesse.
Si era ripromesso di non farsi più sentire, almeno per quel biennio di lontananza.
Rimanere in contatto sarebbe stato del tutto inutile: avrebbero sicuramente continuato a influenzarsi a vicenda.
Tuttavia… dentro di sé, nonostante continuasse a sopprimere, a soffocare quel barlume di coscienza… essa gli urlava di essere meramente un codardo, incapace di affrontare una seconda volta Tooru… per paura…
Paura di cosa?
Paura di non riuscire a parlargli?
Paura che gli scoppiasse a piangere davanti, mostrando tutta la sua vulnerabilità?
Paura che non reggesse alla vista di quegli occhioni meravigliosi, in cui amava perdersi?
“Maledizione, basta!” si urlò mentalmente il ragazzo, aprendo la porta con un calcio frustrato.
Solo mentre stava per entrare, si accorse che la cassetta della posta fosse piena.
Sbuffando irritato, introdusse la mano al suo interno e pescò almeno una ventina di buste bianche quasi tutte uguali, probabilmente comunicazioni di qualche tipo e le buttò alla rinfusa, senza prestarvi attenzione, sul tavolo della cucina.
Le avrebbe aperte dopo aver sistemato la spesa e cucinato qualcosa di commestibile.
 

La sua intenzione, però, venne miseramente infranta dal suono del campanello di casa.
Piuttosto sorpreso che qualcuno potesse fargli visita alle due del pomeriggio, aprì la porta, trovandosi di fronte Hanamaki Takahiro che gli sorrideva sornione.
Dopo un attimo di smarrimento, il volto di Hajime si distese finalmente in un sorriso e abbracciò l’amico, che gli batté sonoramente la mano sulla spalla, dicendogli qualcosa come “Bentornato, pellegrino del mondo!”
“Appena mi hai scritto che fossi tornato non ho resistito alla voglia di venire per darti un’occhiata, dopo ben due anni di assenza” spiegò il ragazzo, ancora all’ingresso.
“Ti ho lasciato qualche giorno per ricollegarti con il mondo ma ora, amico, è il momento di uscire!” esclamò, afferrando il moro per un braccio e strattonandolo fuori.
“Ma dove vuoi andare a quest’ora?!” grugnì Iwaizumi con lo stomaco che gli brontolava.
Makki ridacchiò, udendo quel suono.
“A mangiare qualcosa di decente, mi sembra ovvio! Dobbiamo festeggiare il tuo rientro!” cantilenò l’ex schiacciatore laterale, afferrando la giacca dall’attaccapanni del ragazzo e trascinandolo nella sua macchina.
 
Dopo essere arrivati in una trattoria lì vicino e aver ordinato ogni sorta di pietanza potesse saziare lo stomaco di Hajime, piuttosto desideroso di cibo tipicamente giapponese dopo anni in cui sperimentava ogni tipo di cucina diversa, i due iniziarono a chiacchierare e a raccontarsi le novità degli ultimi anni.
Nonostante non si fosse tenuto in contatto essenzialmente con nessuno, Takahiro era un suo caro amico ed era capitato, qualche volta, che i due si telefonassero per sapere come stessero, soprattutto negli ultimi tempi.
“Quindi, da quel che ho capito, ti sei fidanzato” concluse Iwaizumi, notando che, per una buona decina di minuti, Makki non aveva fatto altro che rispondere a dei messaggini con un gran sorriso stampato in faccia.
Quest’ultimo sbuffò, per poi sorridere nuovamente sornione.
“Eh sì. Ormai sono cinque mesi. Credo… che mi piaccia veramente molto” snocciolò scrollando le spalle, quasi si dovesse giustificare per qualcosa.
Hajime non comprese subito quell’atteggiamento.
“Invece, ricordo di aver capito, da una delle nostre chiamate mentre eri in giro per il mondo, che tu, ecco, ti sei dato da fare” azzardò cauto.
L’ex ace deglutì il boccone di ramen fumante prima di borbottare qualcosa.
“Ho avuto, ecco, una storia con una mia collega universitaria. Siamo stati insieme per un anno, circa… insieme in quel senso, ecco” precisò imbarazzato il moro.
Mettere al corrente l’amico dell’esistenza di Sachi lo rendeva piuttosto nervoso.
Makki annuì, pensieroso.
“L’amavi?” chiese a bruciapelo, facendo bloccare la forchetta  di Hajime a mezz’aria.
Dato che non arrivò risposta alcuna, Takahiro tentò ancora, genuinamente curioso.
“Ne eri innamorato, o è stato solo uno svago, Iwaizumi-kun?” sibilò ironico.
“Non è stato solo un passatempo” sbottò il moro seriamente irritato.
Alla faccia perplessa di Makki, aggiunse, quasi mormorando “Tenevo molto a lei… solo, ecco, non so se il mio si potesse definire amore”.
Quella confessione sorprese tanto Hanamaki quanto lo stesso Iwaizumi.
Non aveva mai espresso quei dubbi ad alta voce e nemmeno lui, prima di quel momento, si era soffermato eccessivamente ad analizzare il rapporto che lo legava alla ragazza.
Non sapeva perché non l’avesse fatto prima…
, invece, che lo sapeva.
Era certo che quel sentimento… non potesse competere con un altro; con un altro legame che, però, tentava continuamente d’offuscare.
Takahiro, per contro, si limitò ad annuire grattandosi i capelli corti. Era arrivato il momento di porre la fatidica domanda, quella che aveva dovuto tener ben chiusa nella sua bocca sigillata.
“Ti sei sentito con Oikawa, in questi anni?”
Eccola, la coltellata definitiva.
Hajime si prese qualche lungo secondo per rispondere.
Improvvisamente, era come se quell’unico monosillabo gli costasse una fatica immensa.
Forse… il barlume del rimorso si stava iniziando a far sentire.
“No, mai” pronunciò, asciutto.
Makki non disse nulla, si soffermò soltanto a terminare il suo pasto, annuendo quasi distrattamente.
“Come sta?”
Il sussurro velato di emozioni inespresse arrivò alle orecchie dell’ex schiacciatore che alzò la testa, guardandolo con semi rassegnazione. Conosceva fin troppo bene quello scorbutico per sapere che stesse impazzendo dalla voglia di ottenere qualche informazione in più, ma che fosse troppo orgoglioso per richiederle.
Decise comunque di accontentarlo. Iwaizumi, in fondo, funzionava così.
“Meglio. Non posso certo dire che se la passi egregiamente, ma ha compiuto diversi passi avanti e ora ha una brillante carriera nel mondo della moda, quello stronzetto vanitoso. Sembra che, adesso, non abbia più ricadute… ma, in caso contrario, saremmo sempre pronti ad aiutarlo a rimettersi in piedi. Issei, soprattutto, gli è stato molto accanto, durante il ricovero” spiegò Makki e stava per proseguire nel racconto, quando i suoi occhi si scontrarono con la faccia sconcertata di Iwaizumi, il quale aveva lasciato cadere il boccone dalla forchetta che stava per portarsi alla bocca.
“Ricovero?... Di cosa stai parlando, Hanamaki?” riuscì ad articolare il moro, totalmente confuso da quelle frasi apparentemente sconnesse.
Il ragazzo si rabbuiò per un momento, mordendosi il labbro inferiore, indeciso sul da farsi.
“Takahiro, per favore, dimmi cos’è successo” chiese Hajime ormai implorante, cogliendo l’esitazione dell’amico di fronte a quelle rivelazioni.
Il ragazzo dai capelli chiari annuì sospirando, stropicciandosi gli occhi con le dita.
“Credevo che lo sapessi” iniziò, scoccando, suo malgrado, un’occhiata di profondo biasimo al moro che la incassò a testa bassa, non osando fiatare.
“E’ vero che mi avevi comunicato che non avresti avuto intenzione di sentirti con lui, ma pensavo che… almeno per quanto concernesse la sua salute, qualcosa te ne importasse ancora” continuò, prendendo un sorso d’acqua.
“Se ci fosse stato Issei ti avrebbe sicuramente incenerito con lo sguardo. Lui ha sempre avuto un occhio di riguardo per il Captain, non trovi?”
Quell’improvviso cambio di rotta disorientò maggiormente il moro.
“Vorrei che la smettessi con i tuoi giochetti e andassi al sodo, Hanamaki” sbottò, arrivato quasi al limite.
“Calma, Iwaizumi” ribatté tranquillo Makki, alzando le braccia in avanti.
“In fondo, te ne sei infischiato per due anni; cosa cambia, adesso, un minuto in più o uno in meno?”
La voce canzonatoria scosse il ragazzo nel profondo, raggiungendo il senso di colpa represso e invitandolo a fuoriuscire di colpo dal luogo in cui Hajime l’aveva seppellito a forza.
“Abbiamo dovuto portare Oikawa in una clinica privata, per cercare di non diffondere troppo la voce. Non mangiava più, era praticamente anoressico. Ci ha fatto… prendere un bello spavento” sospirò il ragazzo con enfasi.
Gli occhi verdi dell’ex ace continuarono a rimanere fuori dalle orbite.
“Quanto… quanto tempo è rimasto lì?” chiese con la voce incrinata.
“Due o tre settimane; il tempo necessario per riprendersi e per convincere i medici del suo ristabilimento completo. Aveva perso parecchio peso ed era molto debole… soffriva di emicranie continue e cali di pressione, a detta dei dottori” spiegò Takahiro.
Iwaizumi fissò il tavolo di legno scuro per alcuni interminabili secondi.
“Quanto tempo fa è successo?” si limitò a chiedere sommessamente.
Makki sembrò pensarci su qualche secondo, poggiando il mento nella mano chiusa a pugno.
“All’incirca un anno e mezzo fa… per l’esattezza, sei mesi dopo che tu l’hai…” non terminò la frase, rivolgendo all’interessato uno sguardo piuttosto eloquente.
All’esterno, la facciata di Hajime pareva impenetrabile. Si limitò ad annuire appena, sguardo ancora rivolto verso il tavolo.
Dentro di lui, però, stava imperversando una feroce tempesta. Non sapeva nemmeno più se fosse dovuta al cuore in subbuglio, ai crampi dello stomaco, all’intestino attorcigliato, ai polmoni che si rifiutavano di assumere ossigeno.
Sapeva solo che si sentiva uno schifo totale come mai gli era successo prima.
“L’ha… superata?” sussurrò con un fil di voce, sorprendendo lui stesso per la capacità delle sue corde vocali d’emettere ancora qualche suono.
Makki alzò leggermente le sopracciglia e arricciò le labbra.
“A volte fa ancora qualche capriccio… ma, nel complesso, è nettamente migliorato. Sembra esser nuovamente in grado di gestire la sua vita”
Non seppe inizialmente il motivo, ma quella frase scosse Iwaizumi dall’immobilità.
“Vuoi dire che quell’idiota, in balia di se stesso, non riesce a tirare avanti?”
Hanamaki rise, una risata sprezzante che fece rizzare i peli sulle braccia di Hajime.
“A volte stento davvero a riconoscerti, Iwaizumi. Sono tuo amico, va bene, ma tengo anche ad Oikawa. E credimi se ti dico che, da come ti sei comportato, sembra che tu non conosca per nulla quel ragazzo. Che non sappia… quanto abbia bisogno di un sostegno”
Le ultime parole furono pronunciate sommessamente, come se non volesse che nessun altro le sentisse. Come se fossero un segreto che nemmeno l’interessato sapeva lui conoscesse.
“Io… volevo solo che divenisse più autonomo… volevo solo che la nostra vita potesse prendere una piega diversa dalla sola strada a senso unico che aveva intrapreso” confessò infine il moro qualche minuto dopo, evitando lo sguardo indagatore dell’altro.
“Solo che hai omesso le conseguenze, amico. Comunque, sono fatti tuoi e non pretendo giustificazioni. Non sono certo io, quello che ne ha bisogno” rispose Makki, scoccandogli un’occhiata veloce e alzandosi dalla sedia, andando a pagare il pranzo di entrambi.
 


Le parole di Hanamaki gli risuonavano ancora in testa mentre passeggiava distrattamente per le strade di Shibuya, cercando di evitare la folla pomeridiana.
Aveva quasi dimenticato quanti giovani potessero esservi in quel quartiere a qualunque ora della giornata e, di conseguenza, il motivo per cui non fosse affatto un assiduo frequentatore del luogo. Tuttavia aveva bisogno d’aria e l’idea di ritornare in quella casetta periferica e squallida non gli andava per nulla. Preferiva di gran lunga stare a contatto con la folla, magari ammirando nuovamente i sobborghi della città e i piccoli angolini nascosti che non tutti avevano la fortuna di conoscere.
Inoltre, aveva bisogno di svuotare il cervello. Far sbollentare il suo animo tormentato.
La notizia di Tooru ricoverato per anoressia l’aveva totalmente sconvolto.
Insomma, era possibile che quel tipo avesse sempre la passione dell’autodistruzione?
Non aveva imparato nulla, in tanti anni di vita?
Si sedette fiaccamente in una panchina vicino a un’area verde, guardando il cielo divenire via via più scuro. Poco dopo, due ragazze di circa sedici anni si sedettero vicino a lui, parlottando e ridacchiando fra loro.
“Non trovi anche tu che sia troppo figo?”
“Altroché! Il suo viso è così simile a quello di un angelo… e poi ha un fisico bellissimo!”
“Per non parlare del sorriso! Non pensi che sia la cosa più pura che tu abbia mai visto?”
Il ciarlare delle ragazzine di fianco lo infastidiva parecchio e stava quasi per alzarsi se non avesse buttato un occhio alle due, notando che le loro mani fossero colme di parecchie riviste… e il centro del loro interesse altro non fosse che Oikawa Tooru.
“Nell’intervista dell’ultimo numero del magazine ha rivelato che adora da impazzire i panini al latte! Ma ci pensi, che cosa dolce?” esclamò la tizia alla sua destra con tono sognante.
Che cosa mai ci sarebbe di così tanto dolce in un tizio di 1.84 metri cui piacciano i panini al latte? Proprio Hajime non lo capiva.
Guardando, attento a non farsi vedere, le foto del ragazzo, comunque, appurò che i famigerati chili persi durante il ricovero fossero stati recuperati. Il suo corpo era slanciato e tonico come sempre, dalla forma invidiabile.
Probabilmente si era ripreso, si disse Iwaizumi alzandosi e incamminandosi verso casa, stanco adesso anche di tutto quell’incessante chiacchiericcio di sottofondo.
Per lavorare così attivamente presso tutte quelle agenzie di moda sicuramente non poteva essere depresso. E poi, sorrideva in modo smagliante a tutti gli obbiettivi…
Possibile che la sua maschera fosse divenuta così tanto perfetta?
Okay che aveva sempre avuto la maledetta abitudine di esibire una facciata fittizia… ma quello era troppo anche per lui… no?
Colmo di dubbi che stavano via via ritornando a galla, scalpitando per fuoriuscire dalla scatola nera in cui erano stati rinchiusi, Hajime si avviò inquieto verso la sua abitazione.
 

 
***
 

“Cazzo!” imprecò il moro, allontanando la padella con uno scatto e succhiandosi d’istinto il pollice.
Si era ustionato con l’olio bollente con cui avrebbe voluto tanto cucinare una pasta saporita che aveva comprato durante la sua veloce permanenza in Italia.
Si era distratto poiché perso nei suoi pensieri, per l’ennesima volta.
E per l’ennesima volta, il protagonista indiscusso era un certo castano con gli occhi da cerbiatto.
Dopo aver immerso il dito nel getto gelido del rubinetto, spense il fuoco, sbuffando.
Gli era passato improvvisamente l’appetito.
Si sedette davanti al tavolo ancora intonso d’oggetti che vi aveva scaricato in quei giorni, passandosi le mani sui capelli.
Che doveva fare?
Il senso di colpa si era insinuato in lui come un veleno e i rimasugli di un sentimento mai andatosene via del tutto stavano facendo capolino nel suo cervello, oltre che nel suo animo.
Con che faccia si sarebbe potuto ripresentare a Tooru dopo tutto quel tempo?
Cosa diavolo avrebbe dovuto dire a quel modello dai lineamenti perfetti?
Oikawa doveva odiarlo. Sarebbe stato giusto e se lo sarebbe meritato. Non si poteva non odiare qualcuno che non si faceva sentire per anni…
Anche se, a dir la verità, era ciò che Hajime sperava.
Desiderava che il ragazzo lo detestasse con tutto se stesso. Sarebbe stato decisamente più facile, per lui, continuare su quella strada…
E poi, in fondo, se Oikawa non aveva mai tentato di mettersi in contatto con lui, doveva essere per quella ragione. O perché, fondamentalmente, avesse fatto l’abitudine alla sua assenza.
Era orgoglioso, certo, eppure Iwaizumi sapeva che per qualcosa cui tenesse, il setter avrebbe potuto sbattere la testa nel muro più e più volte…
Un nodo si formò all’altezza del suo stomaco.
Questo significava, naturalmente, che lui non valesse la pena, per Tooru. Non dopo che, per colpa sua, per colpa sua maledizione, era finito in clinica…
Ma perché si sentiva così devastato, da quel pensiero?
Non era ciò che lui stesso aveva voluto per loro?
Non aveva desiderato la loro rottura?
Perché diamine l’aveva lasciato, allora, se nel profondo del cuore sentiva che l’attaccamento nei suoi confronti era tanto forte? Più forte del desiderio di sperimentare cose nuove, conoscere gente inaspettata, intraprendere nuove relazioni?
Un moto di rabbia lo pervase e un lamento d’ira gli sfuggì mentre gettava a terra tutto ciò che si trovasse sopra al tavolo.
Sentiva che gli scoppiava la testa, che i pensieri accumulati per troppo tempo, celati e rinchiusi a forza per troppo tempo, lo stessero consumando.
 
Per tenere le mani impegnate in qualcosa, cominciò a raccogliere gli oggetti sparsi sul pavimento… e lo sguardo gli cadde sulle buste ancora sigillate trovate dentro la cassetta della posta.
Le raccolse e le scorse velocemente tutte, grugnendo irritato…
Quando la mano si sbloccò a mezz’aria, paralizzata.
C’era una busta… una busta color crema, più spoglia delle altre.
Era priva sia di francobollo sia di mittente. Vi erano scritte solo tre parole, sul retro del foglio.
“Per Hajime Iwaizumi”
Quella grafia… quel maledetto stile arzigogolato…
“Tooru…”
Il sussurro incredulo fu proferito dalle labbra di Hajime senza che nemmeno quest’ultimo se ne accorgesse.
Abbandonò letteralmente tutto ciò che stringesse ancora tra i palmi e, lasciandosi cadere sul pavimento del soggiorno, con mani tremanti squarciò la lettera.
Vi erano alcuni fogli dello stesso colore della busta, emananti un leggero odore di vaniglia, scritti a mano, nella medesima calligrafia capziosa e raffinata che tante volte aveva visto all’opera.
Con il cuore impazzito che gli tartassava il petto e la sudorazione a mille iniziò la lettura, fermandosi già per riprendere fiato e stropicciarsi gli occhi al primo rigo.
Ciao Hajime
“Cazzo, glielo devo. Devo… voglio leggere questa fottutissima lettera, voglio avere un qualche tipo di contatto con lui” implorò il ragazzo a se stesso, mettendo definitivamente da parte ogni forma di auto impedimento che lo aveva forzato nei precedenti due anni.
 
“Ciao Hajime,
non so se leggerai mai questa lettera.
Non so nemmeno perché sto scrivendo a qualcuno che, probabilmente, non farà ritorno in questa casa mai più.
A qualcuno che non vuole più vedermi.
Però lo sto facendo lo stesso… apparentemente senza una ragione. Chissà, forse ci spero davvero che tu, un giorno di chissà quale anno, riuscirai a leggere queste parole; riuscirai a ricordarti chi fosse per te, Oikawa Tooru.
Perché io ero qualcosa per te, Iwa-chan?
Io… ho mai contato veramente qualcosa, per te?

Ho tante domande, Iwa-chan.
Così tante che potrebbe scoppiarmi la testa se mi mettessi a contarle tutte, a esaminarle tutte.
Ci sono troppi perché… troppi perché cui non riesco a dare una risposta.
C’è solo buio.
Solo una maledetta ombra che non arrivo a illuminare, che non arrivo a scoprire.
Ho quasi perso la ragione nel chiedermi che cosa avessi combinato per farti andare via, sai?
Ho vagliato ogni ricordo, ogni momento nostro nel cercare di carpire anche un misero dettaglio che mi avrebbe potuto far comprendere che ci fosse qualcosa che non andava.
Eppure… non ho trovato nulla.
Nulla, capisci?
E io… io non riesco a dormire, Hajime, con questa consapevolezza.
Con la consapevolezza che non c’era nulla che non andasse, fra noi.
Però, ancora più doloroso è il pensiero che il mio amore per te fosse così accecante da non rendermi conto che lo stesso non valeva per te, Iwa-chan.
Che la persona di cui ero innamorato non fossi tu… ma un perfetto sconosciuto.
Una mera idealizzazione.
Allora ho ricordato, ho ricordato e ho svuotato tutti gli scompartimenti della mia memoria per trovare te, per trovare il bambino serio e diligente che mi aiutava a rialzarmi quando inciampavo nelle scale troppo alte, allora, per la mia piccola statura.
Per trovare il ragazzino che mi difendeva quando qualcuno mi prendeva in giro per l’orribile apparecchio che portassi ai denti, non esitando a ricorrere anche alla violenza, sebbene si proclamasse un amante delle regole.
Per trovare l’adolescente che mi ha fatto comprendere, dolorosamente, che non fossi più solo, che dovessi fare affidamento anche sugli altri per tirare avanti.
Per trovare il ragazzo cui tante volte ho alzato la palla, il ragazzo brusco e musone che mi riprendeva sempre in allenamento e in partita, ogniqualvolta mi buttassi giù o quando scherzassi troppo con qualche fan.
Per trovare l’uomo con cui ho fatto l’amore per la prima volta, l’uomo che mi ha baciato e accarezzato con dolcezza, fissando i suoi meravigliosi occhi verdi nei miei…
Per trovare Hajime, l’Hajime con cui ho condiviso una vita intera.
Hai finto per tutto questo tempo, Iwa-chan?
Erano… tutte bugie, tutte menzogne quelle che abbiamo passato?
Erano falsi i tuoi rari i ti voglio bene? I tuoi centellinati ti amo?
Oppure… sei semplicemente cambiato…?
Onestamente, non saprei spiegarmi né l’una né l’altra motivazione.
Ti voglio chiedere una cosa, Iwa-chan.
Anche se fosse stato tutto finto… anche se tutto ciò che abbiamo condiviso per te non significasse nulla… è davvero possibile che qualcuno con cui, volente o nolente, hai trascorso gran parte della tua vita, possa semplicemente sparire?
Davvero non t’importa più se l’altro sia vivo o morto?
Se stia bene, se sia ricoverato per qualche strano motivo o se si sia messo una corda attorno al collo?
E’ così semplice cancellare qualcuno dalla propria testa?
Vorrei conoscerlo anch’io, questo segreto…
Anzi, no.
No, io non voglio.
Io non voglio dimenticare, Hajime.
Non posso dimenticare…
Perché tu sei dentro di me.
Sei parte di me, inscindibile.
Potrai pensare tutto ciò che vuoi, potrai dire che sono uscito fuori di testa… ma io credo che sia impossibile.
Ti sei portato via metà della mia anima, Iwa-chan.
E io credo proprio di avere una parte di te, racchiusa da qualche parte.
Magari non molta. Magari solo un singolo pezzettino…
Ma qualcosa c’è. Te lo posso garantire.
 
Non voglio rimproverarti, Iwa-chan.
Avrai avuto le tue ragioni per agire in questo modo… ragioni che, nonostante non possa capire, come ti ho già detto, rispetto.
Non ti cercherò, proprio come tu desideri.
Lascerò che tu viva la tua vita…
Ti lascerò fidanzarti, sposarti, avere una famiglia e tanti piccoli bambini. Magari con gli occhi verdi e il musone, mentre i capelli e il portamento saranno della tua bella moglie.
 
Ti chiederai perché, sicuramente.
Ti chiederai per quale motivo non ti odi, ne sono sicuro.
Beh, non posso odiare la persona che amo, no?
Certo, non posso dire di non avercela con te, Iwa-chan.
Per colpa tua ho perso un bel po’ di chili, sai? Anche se avrai certamente reso contenta la mia dietista…
Non ti odio, Hajime, anche se dovrei.
Dovrei odiarti, perché il pensiero di te è così intenso e forte da impedirmi di concentrarmi su qualcosa per più di due secondi.
Dovrei odiarti, perché tutte le volte che ho fatto sesso con un altro uomo… ho sempre avuto te, in mente. Le tue mani, le tue labbra… te dentro di me, non gli altri.
Dovrei odiarti perché non esiste termine di paragone, con te. Niente mi fa provare più emozioni, gioia, felicità… perché le ho sperimentate nel loro culmine tutte con te, Iwa-chan.
Eppure… nonostante tutto questo… io non ce la faccio a odiarti.
Non ce la faccio, perché dovrei rinnegare tutto ciò che eravamo, tutto ciò che siamo stati.
E, anche se è una cosa a senso unico… anche se a te ormai non interessa più…
 
Hajime, io ti amo.
Ti amo da morire, ti amo così tanto da non riuscire a vivere.
Sei sempre stato con me… sei sempre stato al mio fianco… sei sempre stato lì a pormi quella tua mano forte per aiutarmi a rialzarmi…
Come puoi pretendere che riesca a farcela, senza di te?
Non perché io non m’impegni, Iwa-chan. Non sono più un quattordicenne testardo e desideroso di autodistruzione, se lo stai pensando…
Semplicemente, siamo vissuti sempre insieme come se fossimo una cosa sola.
Senza di te, è come se fossi dilaniato in due.
Non potrà tornare tutto come prima e non potrò più riottenere una vita normale.
Semplice.
 
Ho provato a smettere di amarti, Hajime, davvero.
Ci ho provato.
Ho sperimentato di tutto, anche ciò che più reputi dissoluto e sregolato.
Eppure ho tentato.
Non ricordo nemmeno più da quanti uomini mi sia fatto scopare, pur di avere un’alternativa.
Eppure… tu rimani l’unico.
Rimani il mio Iwa-chan, l’eroico cavaliere che mi tira sempre fuori dai guai.
Forse è per questo che non riesco a smettere di essere innamorato di te, Hajime.
Forse sono ancora legato a un’immagine che non esiste più.
 
Oggi è ormai un anno e mezzo che te ne sei andato.
Da un anno e mezzo che non ti vedo.
Da un anno e mezzo che non odo la tua voce.
Dopotutto, è nel tuo stile non farti più sentire dopo una rottura.
Non ci parleremo più, Iwa-chan?
Probabilmente.
Forse ci incontreremo qualche volta per strada, se non ti trasferirai per sempre in un altro paese.
Distoglierai subito lo sguardo, vero? Lo farai e te ne andrai a passo veloce… mentre io rimarrò lì, impalato senza muovere un muscolo, costringendo i miei occhi a trattenere le lacrime.
A volte credo di averle esaurite… penso che il dolore mi abbia prosciugato tutto il possibile… e invece no. C’è ancora qualcosa da spremere, dentro di me.
Ma non sono qui per dirti quanto abbia sofferto.
In realtà non c’è uno scopo preciso nella scrittura di questa lettera che non leggerai mai…
E’ solo uno sfogo, un mezzo liberatorio con cui poter dar spazio ai miei sentimenti repressi.
E’ dura tenersi tutto dentro, Hajime.
E’ dura tenersi dentro che ti amo e trattenersi dall’urlarlo a tutto il mondo, finché non raggiunga anche le tue orecchie.
Perché tu adesso non sei qui.
Non sei qui accanto a me.
E non lo sarai più.
Forse, doveva andare tutto così.
Forse, è stato egoistico poter credere di vivere una vita insieme, perdutamente innamorati, eh, Iwa-chan?
Sì, deve essere proprio così.
 
Ah, un’ultima cosa, Iwa-chan.
Sono stato io a scegliere la mia vita.
Sono stato io a decidere di rimanere al tuo fianco.
L’abitudine, la routine… non c’entrano per un cazzo.
Se avessi voluto lasciarti perché mi fossi reso conto che non ti amassi abbastanza, l’avrei fatto.
Ma tu sei la persona con la quale ho scelto di trascorrere la mia esistenza. La persona con la quale crescere, maturare, invecchiare.
Ci vedevo già, sai, noi due in un loft in montagna, proprio come piace a te: due poltrone davanti al camino e le nostre mani stanche intrecciate. Alle pareti le innumerevoli foto dei tuoi viaggi in cui, forse, mi avresti portato, qualche volta.
Adesso, invece, davanti a me ho solo il vuoto.
La vita che vedo davanti a me…
E’ un semplice buco nero.
 
Ti auguro che la tua sia piena di colori sgargianti.
 
Con infinito e straziato amore,
                                                                                                                                              -Tooru.
 

 
 
 
Una perla d’acqua s’infranse contro il foglio sottile di carta, sbavando leggermente l’inchiostro nero che vi era sopra.
Le lettere erano sbiadite, offuscate dalla patina trasparente che velava le iridi chiare di Hajime mentre le mani stringevano ancora la lettera.
Non seppe per quanto rimase immobile, pietrificato in quella posizione.
Registrò a malapena le lacrime che gli rigavano le guance bollenti, manifestazione di tutto ciò che risiedeva dentro di lui come una pentola a pressione, pronta a scoppiare.
Ed esplose quando il ragazzo si alzò di scatto, stringendo i fogli di carta tra le dita tremule e corse via da quell’abitazione, sbattendosi la porta alle spalle, ricordandosi a malapena di afferrare le chiavi di casa.
Doveva correre. Doveva correre, prima che potesse pentirsene.
Doveva correre più veloce che poteva.
Doveva andare da lui.
Contava solo quello, in quel momento.
Il suo cervello era come in black out mentre scavalcava il cancello della casa di fronte per arrivare prima, tagliando due strade inutili.
Doveva correre, perché era un fottutissimo idiota.
 

 
***
 

Il fischio del bollitore lo riportò alla realtà, facendolo alzare di scatto dall’unica poltrona rimasta nel salone e permettendogli di abbandonare la rivista che il suo capo lo aveva obbligato a leggere.
Non solo era uno dei modelli più desiderati e richiesti del Paese, ma l’agenzia per cui lavorava in quel momento aveva richiesto che lui desse un sincero parere sulla sistemazione delle foto nel magazine.
Come se a lui fregasse qualcosa, pensò sbuffando, trascinando i piedi avvolti dalle pantofole blu verso la cucina.
Attento a non scottarsi, lo avrebbero ucciso se si fosse presentato con l’ennesima bruciatura alle mani, versò l’acqua bollente nella sua tazza con gli alieni preferita, mescolandovi il tè alla menta. Si chiedeva se non fosse un masochista ad utilizzare la tazza che aveva comprato assieme ad Hajime, coordinandola a quella di Godzilla per lui.
Chissà se vi beveva ancora il suo caffè…
Scuotendo la testa per non pensarci, si risiedette nella medesima posizione di prima, gambe al petto e braccio ad avvolgersi le ginocchia mentre sorseggiava la bevanda calda.
Non c’era troppo freddo, eppure il tè caldo fu rinfrancante, per il ragazzo.
Forse era per colmare il fresco alle gambe nude, coperte solo fino a un quarto di coscia dalla felpona verde tanto familiare e amata.
Si trattava di una delle tipiche serate malinconiche: né troppo tristi, fortunatamente, ma nemmeno definibili allegre.
Tooru, in quei momenti, amava stare solo a casa, sorseggiando una bevanda rilassante e magari vedendo un film che si sposasse con il suo stato d’animo.
Uscire… era divenuto troppo faticoso.
Avrebbe dovuto sforzarsi continuamente di divertirsi e i suoi muscoli facciali risentivano già delle ore passate a sorridere falsamente davanti alle macchine fotografiche. Non che non fosse mai allegro, con gli amici: solo, non riusciva mai ad esser pienamente felice.
Solo pochissime persone conoscevano la reale condizione della sua mente, tra cui i compagni del liceo Issei e Takahiro, che avevano cercato di rimetterlo in piedi durante il periodo del ricovero in clinica.
Fortunatamente, l’accortezza dei due e del personale medico aveva fatto in modo che la notizia che Oikawa Tooru fosse finito in una struttura riabilitativa a causa di un esaurimento e della conseguente anoressia, non trapelasse mai all'esterno. Sarebbe stato un guaio se all’agenzia con la quale aveva stretto un connubio lavorativo fosse giunta tal informazione. Era già stato abbastanza difficile recuperare tutti quei chili perduti inventandosi spiegazioni coerenti...
Non era certo colpa sua se il cibo non lo allettava più come un tempo.
 
Il trillo del campanello lo colse di sorpresa e per poco non gli fece versare il tè addosso. Quelli sì che sarebbero stati guai…
“Chi cavolo è a quest’ora?” mormorò tra sé e sé infastidito, poggiando la tazza sul tavolo di marmo della cucina e abbassandosi più che poté la lunga felpa che, ormai, usava come pigiama praticamente ogni notte, confermando la sua teoria sull’essere dannatamente masochista.
“Chi è?” brontolò dalla porta bianca.
Nessuna risposta.
Sbuffando, Tooru credette che si trattasse del silenziosissimo ragazzo dell’appartamento sotto il suo, venuto a restituirgli un pacco che il postino aveva recapitato a casa sua quella mattina mentre lui non c’era e che l’inquilino sottostante aveva preso in consegna al posto suo. Veder aprire bocca a quel tizio era un avvenimento davvero raro.
Sistemandosi velocemente le frange castane sulla fronte, aprì la porta in modo flemmatico, sbottando un “Grazie del disturbo, puoi appoggiarlo lì”.
 
 
Se Oikawa avesse mai provato la sensazione di rimanere fulminato, l’avrebbe sicuramente paragonata a quel singolo frangente.
Imprevedibile, incontrollabile, improvvisa.
Il cuore smise letteralmente di battere, il sangue cessò di affluire nelle vene e l’ossigeno si rifiutò di accedere nei polmoni e arieggiare il cervello, totalmente scollegato dalla realtà.
Gli occhi gli si spalancarono fino a fargli male, le pupille si allargarono coprendo gran parte dall’iride cioccolata.
Non riuscì tantomeno a controllare il tremore che colpì le mani, le gambe, le spalle.
Era… un’allucinazione?
Stava sognando?
“Tooru”
Fu un sussurro appena percettibile.
Le labbra non si mossero nemmeno e il volume della voce era tanto basso da far dubitare che fosse stato emesso alcun verso…
Eppure, quel suono era già stato udito dai timpani sensibili del castano.
E fu quello a fargli realizzare che Hajime Iwaizumi fosse davvero lì davanti a lui.
 
 
Non aveva pensato a cosa dire.
A malapena si era reso davvero conto di star correndo a perfidiato verso l’appartamento di Tooru.
Aveva anche dato per scontato che l’avesse trovato lì, come se una possibilità sua uscita serale non facesse parte di quel piano improvvisato.
I suoi neuroni parevano decisamente aver smesso di funzionare come avrebbero dovuto…
Ed ebbero un ulteriore cortocircuito appena si trovò davanti Oikawa Tooru.
 
Aveva aspettato qualche istante prima di bussare a quella porta familiare, giusto il tempo di riprendere fiato e rimettere a posto le viscere in subbuglio.
Le sue nocche tremanti avevano picchiettato sul legno prima ancora che potesse fermarle, seguendo unicamente quell’istinto soppresso con forza che altro non gli urlava,gli urlava da ben due anni, di aver compiuto una cazzata.
Ma lui era stato troppo sordo per ascoltarlo. Troppo stordito dalla voglia di cambiamento, dalla voglia di novità, dalla sicurezza di star facendo qualcosa di giusto per entrambi… per capire quanto fosse in torto. Per comprendere quanto fosse sembrato un’altra persona, agli occhi di colui che più amava.
Un perfetto sconosciuto, per utilizzare le sue parole.
Era vero.
Era innegabile.
Era come se avesse preso il sopravvento una parte di lui che non credeva di conoscere, concedendogli più spazio del necessario… fino a giustificare tutti i suoi gran casini.
Eppure, non era bastato. Anche dando corda a quell’Hajime voglioso di libertà e innovazione… alla fine, era giunto sempre al medesimo punto.
Alla stessa certezza di sempre.
Alla certezza di non poter vivere in modo sano, senza di lui.
L’aveva imparato a sue spese, sebbene con troppe difficoltà e ostacoli… provenienti solo da se stesso.
Poiché era lui che si tappava gli occhi; era lui che si rifiutava di ammettere l’evidenza… ovvero che scorgesse Tooru in ogni cosa che lo circondava.
Sempre.
Ed erano state solo le parole di Tooru, quei simboli che erano stati impressi nero su bianco in un momento di sfogo, a farlo rinsavire del tutto. A stroncare ogni tentativo di auto giustificazione.
Eh sì, era stato un codardo.
Un codardo che aveva avuto bisogno dell’ennesimo aiuto da parte di Oikawa.
Appariva come il più fragile fra i due… ma in verità, Tooru possedeva ben più coraggio di quello che Iwaizumi avrebbe mai potuto anche solo sognare.
Se non fosse stato per quella lettera, che ora stava stringendo con così tanta forza nella sua mano… come avrebbe agito, Hajime?
Non lo sapeva.
Forse, le cose sarebbero dovute andare soltanto in quel modo. Solo l’aiuto di colui che conservava parte della sua essenza, l’avrebbe spinto nella direzione giusta.
In quel momento, comunque, non aveva il tempo di soffermarsi su quei dettagli.
Voleva solo guardare quel ragazzo.
Desiderava solo imprimersi nuovamente a fuoco nella mente quei lineamenti delicati che apparivano terribilmente sconvolti.
Riuscì a focalizzarsi sui suoi occhi.
Cazzo, quanto gli erano mancati.
Quanto li aveva sognati, quanto li aveva agognati, si rese conto improvvisamente, osservando quelle iridi brune e calde tanto sgranate, macchiate da segni violacei sotto le orbite.
Capì di aver perso la facoltà di deglutire poiché la gola gli divenne arida come un deserto.
 
Tooru lo guardava come se avesse appena scorto un alieno.
I suoi occhi schizzavano impazziti dai capelli scuri e ispidi, alla mascella dura e scolpita, alle labbra sottili e socchiuse, alle palpebre spalancate… ed ebbe la tentazione istantanea di buttarsi fra le sue braccia, gettarsi su quei muscoli possenti e affondare il volto nell’incavo della sua spalla, piangendo tutte le lacrime che conservava ancora in corpo…
Tuttavia, doveva trattenersi.
Serrò i denti e strinse i pugni, cercando di non tradirsi con qualche espressione facciale implorante.
Si era esercitato tanto ad apparire imperturbabile, no?
Non poteva nuovamente uscirne dilaniato.
Non aveva idea del perché Iwa-chan fosse spuntato a casa sua dopo anni e anni…
E poi, vide nel suo grande palmo olivastro una lettera.
La riconobbe all’istante.
Il labbro inferiore iniziò a tremare inconsapevolmente, ma la bocca rimase ancora sigillata.
Hajime notò che il ragazzo aveva adocchiato i fogli nella sua mano.
Temendo che Tooru avesse potuto pensare che la sua intenzione fosse meramente discutere di quel contenuto inopportuno, smise di perdere tempo inutilmente.
Ne aveva sprecato fin troppo.
Chinò la testa e abbassò lentamente le ginocchia fino a toccare il pavimento lucido e duro con le rotule.
Davanti a sé riusciva solo a scorgere il marmo delle mattonelle e le pantofole blu di Oikawa. Ma era meglio così, altrimenti non sarebbe riuscito a spiccicare parola.
Con il cuore che gli premeva per fuoriuscire dalla gola, Iwaizumi cominciò a parlare.
 
“Non ho scusanti. Non ho giustificazioni. Sono solo… un idiota. Un grandissimo idiota che si è perso due anni della nostra vita assieme. Un idiota che ha preferito cercare altrove la felicità che invece aveva proprio sotto il naso, trascurandola. Un idiota che ti ha fatto stare male, così male che… cazzo, mi strapperei la lingua a morsi. Un idiota che ha trascurato i tuoi stati d’animo, i tuoi bisogni. Un idiota che ha deciso arbitrariamente cosa fosse giusto e non, ignorandoti. Come se non ti conoscessi… come se fossi uno sconosciuto. Mi hai descritto bene, Tooru. Lo sono stato. Lo sono stato e non ho scuse. Patetico, vero…”
S’interruppe per un istante, stringendo tanto i pugni da conficcarsi a sangue le unghie nella carne e sospirando rumorosamente, con la voce che diventava sempre più incrinata.
“Non avevo capito un cazzo. Non avevo compreso quanto ti avessi ferito… finché non ho letto questa” sussurrò, sollevando la mano che stringeva la lettera ormai tutta stropicciata.
“Non avevo capito quanto stessi sbagliando, quanto stessi perdendo, quanto…”
Faticò a reprimere un singulto.
“Quanto ti amassi profondamente. E quanto tu mi amassi” concluse, ingoiando una lacrima salata.
“Sono stato… orribile. Mi ripugno e non realizzo ancora come tu riesca a non odiarmi… perché sono stato un pezzo di merda. E la cosa tremenda, è che non me ne sia reso nemmeno conto. Sapevo che mi mancavi, sapevo che la mia esistenza fosse più vuota, senza di te… ma ho preferito continuare, non facendomi minimamente sentire, chiuso nel mio fottutissimo orgoglio del perseguire ciò che mi fossi prefissato. Tooru, io…” smise per un attimo di parlare, riprendendo fiato.
“Mi dispiace. Mi dispiace così tanto…”
La sua schiena era scossa dai tremiti e le sue guance erano roventi. Non riusciva a trattenersi: doveva far fuoriuscire tutte le emozioni represse per troppo tempo, assieme a tutto l’odio che aveva accumulato inconsciamente per se stesso.
Una mano grande e calda si strinse sulla sua spalla e un’ombra ingombrante calò su di lui.
“Basta. Basta, Hajime…”
Il tono incrinato del giovane persuase Iwaizumi ad alzare lentamente lo sguardo.
Tooru aveva i grandi occhi cioccolato pieni di lacrime e le labbra che tremavano convulsamente.
“Sei qui. Sei qui, adesso…” sussurrò singhiozzando, inginocchiandosi davanti al moro e avvolgendogli le braccia intorno alla schiena possente.
Hajime era in trance, come se ancora non sapesse cosa fosse giusto fare.
“Tu… ti fidi ancora di me…?” sibilò quasi sconvolto, respirando suo malgrado l’odore dei capelli vellutati del ragazzo.
Tooru si scostò e guardò il moro dritto negli occhi, nonostante le lacrime continuassero a scendere imperterrite dalle palpebre.
“So che sembra assurdo, Iwa-chan… certo, ho paura che possa succedere di nuovo… ed è per questo, che ti chiedo di promettermi una cosa.”
Tossicchiò per schiarirsi la gola, asciugandosi parte delle lacrime con il dorso della mano.
“Promettimi che non mi abbandonerai di nuovo. Che non… mi lascerai di nuovo… in questo modo. Io non voglio che tu continui a stare con me se dovessi non amarmi più… ma ti chiedo solo di… non farlo più così”
Il sorriso che assunse Tooru era tanto triste da far contorcere il cuore di Hajime in una morsa tremenda, impedendogli di respirare per qualche secondo.
“Puoi parlarmi… puoi dirmi tutto, Iwa-chan. Avremmo potuto… affrontare assieme il problema… magari avrei anche potuto capirti… ma così… mi rendi tutto molto più difficile” disse sforzandosi di ridacchiare, stringendo fra le mani la nuca del moro.
Quest’ultimo scosse violentemente la testa e circondò il viso del castano tra le mani, così in fretta da farlo sussultare e arrossire per il contatto tra le pelli.
“Non ne ho bisogno, Tooru. Non ho alcuna intenzione… di lasciarti di nuovo” ringhiò.
Gli occhi erano di fuoco e la rabbia contro se stesso stava acuendosi nuovamente.
“Ti amo. Ti amo più di ogni altra cosa al mondo… e ora posso affermarlo con certezza. Non posso vivere in maniera completa, così come non puoi farlo tu. Io… non ti abbandonerò mai più. Non ti farò più del male, Tooru. Non voglio… che tu stia più così” sussurrò con gli occhi nuovamente lucidi.
“Se mi permetterai di rimanere nuovamente al tuo fianco, io giuro… di non deluderti più. O almeno, cercherò di applicarmici con tutto me stesso” aggiunse mestamente.
Aveva capito fin troppo bene che le situazioni, le persone… non potessero mai esser date per scontate. Che le promesse, inaspettatamente… siano difficili da mantenere. Ma non impossibili.
Il respiro caldo del castano si scontrò con la sua bocca.
“Va bene, Iwa-chan...” mormorò.
Aveva capito. Non c’era molto da dire, in quel momento. Sapeva solo che Hajime Iwaizumi era lì, inginocchiato davanti a lui e con le lacrime agli occhi. E non aveva bisogno di conoscerlo da una vita per comprendere quanto enormemente pentito fosse. Quanto si detestasse, per ciò che gli aveva causato. E lui, che continuava ad amarlo immensamente già da prima, non poteva certamente rimanergli indifferente.
“Voglio che tu stia con me. Vorrei che tu… mi accompagnassi in questa vita, non importa ancora per quanto a lungo…” aggiunse, poggiando la fronte sulla sua.
Il cuore di Iwaizumi fece un balzo. Improvvisamente l’ossigeno aveva ricominciato ad arieggiare i suoi polmoni.
“Posso davvero…? Mi vuoi ancora, nonostante…?”
“Sì che ti voglio, Hajime. Te l’ho già detto, no? Non riesco a immaginare persona diversa, al mio fianco. Pregi e difetti inclusi… anche enormi difetti inclusi” ridacchiò sommessamente stringendolo ancor di più fra le braccia.
“In fondo, Iwa-chan, non sei uno sconosciuto. Sei solo il solito bestione che si tiene tutto dentro per arginare il problema, evitando di parlarne con me. Avremmo potuto prenderci una pausa, se avessi voluto… ci sarei stato malissimo, ovvio, ma almeno avrei evitato di perdere la testa interrogandomi sul reale perché delle tue azioni. Però, adesso non voglio parlarne. Voglio solo stare qui con te…” mormorò affondando il volto fra le pieghe della sua giacca, inspirando quella fragranza virile che aveva disperatamente ricercato nel suo indumento per tutto quel tempo.
 “Questa… è la mia felpa?” chiese interdetto Iwaizumi, spostando proprio lo sguardo su ciò che stesse vestendo il castano.
Tooru fece il primo sorrisetto malizioso della serata, sebbene fosse ancora un po’ offuscato dalle lacrime che gli inumidivano le guance rosate.
“La riconosci, Iwa-chan? La indosso molto spesso, sai…”
Poi abbassò gli occhi, mordicchiandosi le labbra.
“Volevo che il tuo odore si fondesse con il mio… oltre ad avere la sensazione di percepire la tua pelle a contatto con la mia” confessò un po’ rosso in viso, tornando ad alzare lo sguardo.
Hajime sentì la temperatura corporea salire vertiginosamente.
“E, nel frattempo, immagino sempre le tue mani toccarmi, Iwa-chan…” sussurrò poi, avvicinandosi ancor più al moro e inarcando la schiena, lasciando scoperta una porzione abbondante di collo e delle clavicole sottili.
“Dio, quanto mi sei mancato” sussurrò Hajime prima di afferrare il ragazzo dalla vita e stringerselo addosso, annullando ogni distanza tra le loro labbra.
Un fuoco arse i sensi di entrambi, scuotendoli come una scarica elettrica.
Due anni. Era da due anni che le loro bocche non si univano. Erano due anni che non assaporavano il sapore dell’altro, perdendosi nel contatto tra le loro pelli, affondandovi i denti, suggendole con ardore. Erano due anni che le loro lingue non danzavano assieme.
Le mani di entrambi si mossero inconsciamente, posizionandosi in un puzzle perfetto di cui conoscevano ormai ogni incastro a memoria: quelle di Iwaizumi a stringere la vita sottile di Tooru e quelle di Oikawa a circondare la nuca e i capelli di Hajime, tirandoglieli piano.
I respiri erano affannati, ansimanti; le pelli bollenti.
“Iwa-chan…”
Il mugolio di Tooru ruppe quel silenzio costituito da sospiri pesanti, avvolgendo con le lunghe gambe scoperte il corpo di Iwaizumi e sfregando il cavallo dei suoi boxer contro quello dei jeans dell’altro. Il rigonfiamento era piuttosto eloquente.
La mano del moro calò sulle natiche del ragazzo, stringendole con forza e provocando al giovane modello un sospiro concitato.
“Apri sempre così la porta agli sconosciuti?” sussurrò l’ex ace all’orecchio del setter, insinuando le sue dita all’interno dei boxer.
“Ti scandalizzi per così poco, Iwa-chan? Sai che ho posato anche quasi nudo per alcune riviste?” rispose malizioso, mordicchiando il labbro inferiore del ragazzo.
“Sì, lo so” rispose quello con un grugnito leggermente infastidito, provocando l’ilarità nel castano che strinse ancor di più le gambe intorno alla sua schiena.
“Iwa-chan, sai che siamo ancora nel pianerottolo?” sibilò poi all’orecchio dell’altro non appena sentì le sue falangi massaggiare il solco fra le i suoi glutei.
Non vi fu alcuna risposta, ma Iwaizumi si alzò dalla scomoda posizione assunta sul pavimento e sollevò Tooru sulle sue braccia, causandogli un mezzo urletto.

Il percorso fino alla camera da letto fu breve, ma piuttosto intenso.
La bocca di Oikawa non smetteva di succhiare e mordere avidamente il collo del moro, lasciandovi marchi violacei piuttosto eloquenti mentre le sue mani erano occupate a sfilargli la giacca di dosso.
“Iwa-chan… voglio guardarti, spogliati, dai” borbottò Tooru con le guance rosse dopo essere stato posto a sedere sul letto, tenendo gli occhi fissi sulle mani di Hajime che si premuravano rapide a togliersi la maglietta e i jeans.
Il suo sguardo rimase come incantato ad osservare la bellezza del suo Iwa-chan.
Temeva davvero di non poterlo vedere, toccare, baciare più…
Le guance di Iwaizumi s’imporporarono per come il ragazzo lo stava fissando, divorando ogni centimetro della sua pelle.
Si avvicinò piano al materasso e i polpastrelli del castano furono subito su di lui, esplorando quelle carni con reverenza e un po’ di remore, accarezzando ogni muscolo, ogni articolazione, ogni avvallamento d’epidermide.  
Hajime si pose sopra il ragazzo sdraiato sul letto, lasciandosi toccare, approfittando della posizione per godere d’ogni singolo tratto di quel viso meraviglioso. 
Le mani di Tooru si spostarono sulla sua schiena, stringendogli poi il sedere nudo, avvicinando la bocca al suo petto e baciando ogni singola porzione di pelle che trovasse sotto il naso, infilandovi i canini aguzzi ogniqualvolta scopriva epidermide più morbida.
Un sospiro più pesante degli altri abbandonò le labbra di Iwaizumi.
Senza proferir parola, si scostò leggermente dalla morsa delle labbra di Tooru, che si accigliò notevolmente per essere stato privato di quel contatto, e iniziò a sollevargli la felpa, la sua felpa, per l’esattezza.
Gli occhi di Hajime erano terribilmente concentrati, avidi di assaporare quel gesto che non compiva da troppo tempo.

Eccolo lì, il corpo perfetto di Oikawa Tooru.
Il corpo che le fotocamere immortalavano quotidianamente e che ormai conosceva gran parte della popolazione giapponese.
Un corpo che, però, solo lui aveva avuto il privilegio di carezzare… almeno fino a due anni prima.
S’incupì bruscamente a quel pensiero.
Non era stato l’unico a toccarlo. 
Altri l’avevano fatto, in quel biennio. 
Altri avevano avuto la possibilità di sfiorare, avere… la persona che amava.
“Non ricordo nemmeno più da quanti uomini mi sia fatto scopare, pur di avere un’alternativa.”
Quella frase della lettera gli faceva fottutamente male. Palesava quanto fosse stato un idiota.
L’idea di un uomo, di tanti uomini, giaciuti con Tooru… era tanto insopportabile da generargli fortissimi crampi allo stomaco.
Tuttavia, non poteva farci nulla. Non poteva arrischiarsi a lamentarsi.
Se l’era cercata.
Dopo aver sfilato l’indumento dalla testa del ragazzo, Hajime rimase per qualche istante così, a contemplare quel fisico di cui la sua mente era stata vittima tanto a lungo.
Non vi era termine di paragone.
Sachi, le altre due ragazze con cui aveva avuto un’avventura il primo anno del suo viaggio… lui amava solo Tooru.
Amava il suo carattere problematico, la sua essenza, il suo corpo. E con nessun altro desiderava unirsi… se non lui.
Finalmente ci era arrivato, eh…
 
“Iwa-chan…”
I gemiti di Tooru, dopo che le dita di Hajime si erano insinuate dentro di lui, aumentarono d’intensità, accompagnati dalle sue unghie che graffiavano la schiena del moro. La sensazione delle sue mani addosso… cazzo, quanto gli era mancata…
“Fammi tuo… rendimi nuovamente tuo, Hajime…” sussurrò il castano quasi in un singhiozzo, fremente per l’eccitazione e per la brama di ricongiungersi al più presto con il suo innamorato.
Perché non si trattava solo di semplice sesso, no, no.
Il significato di fare l’amore, indicava, per Tooru, riconnettersi all’anima di Iwaizumi, essere un connubio, sentire l’altro in tutti i sensi.
Ed era così anche per Hajime, che non aspettò molto a terminare di preparare il ragazzo e scivolare dentro di lui.
Vi furono esplosioni di gemiti e rantoli, nomi urlati e sussurrati, dolci carezze miste a strette possessive.
Le spinte si fecero via via più disordinate e affamate, ma mai una volta i due smisero di guardarsi negli occhi.
Mai ruppero quella connessione di sguardi, che parevano comunicare in silenzio. Colmare vuoti, colmare mancanze.
Sempre iride contro iride, i due vennero nel medesimo istante, entrambi con le lacrime agli occhi, come se fossero arrivati alla conclusione di un lungo discorso silenzioso.
 
Tra respiri pesanti ed ansimanti, con le mani strette in una morsa ormai inscindibile, fu Hajime il primo a spezzare quell’equilibrio.
“Ti amo” riuscì solo a pronunciare, abbassando per un secondo lo sguardo, forse non riuscendo a reggere la vista di quegli enormi occhi bruni.
“Guardami mentre dici che mi ami, Iwa-chan, o potrei dubitare nuovamente di te” sibilò il castano e lo sguardo del moro si risollevò subito su di lui, a metà tra l’impaurito e il sorpreso.
“Sto scherzando, Iwa-chan, rilassati” ridacchiò poi Tooru, scoccando un bacio sulla bocca dell’altro, suggendogli il labbro inferiore con lentezza.
Rimasero in silenzio per un bel po’: Hajime che stringeva Tooru dalla vita e il suo petto che aderiva perfettamente alla schiena dell’altro.
“Devi raccontarmi del tuo viaggio, Iwa-chan” esclamò Oikawa all’improvviso, girando la testa in direzione del volto di Iwaizumi, che divenne cupo.
“Non fare quella faccia! Hai girato in lungo e in largo, no? Avrai sicuramente un sacco di avventure da raccontare.  D’ogni tipo, immagino…” scherzò con un sorriso un po’ tirato e il moro comprese a cosa si stesse riferendo il ragazzo. Non che non gli avesse voluto parlare di Sachi, magari solo un po’ più in là… ma fu nuovamente interrotto.
“Abbiamo un sacco di tempo da recuperare. Anch’io ti devo aggiornare su molte cose” aggiunse il castano con uno strano entusiasmo.
“Certo, come il tuo viaggetto in clinica” borbottò Hajime prima di riuscire a controllarsi, mordendosi quasi a sangue la lingua un secondo dopo.
Vide il volto di Tooru rabbuiarsi e distogliere lo sguardo.
“Scusa… cazzo, mi dispiace. E’ solo che la notizia mi ha sconvolto… non riuscivo a credere che tu fossi stato così male, Tooru… se solo io ci fossi stato…”
“Va bene così, Iwa-chan. Questa è stata un’esperienza parecchio formativa anche per me, sai? Mi hai fatto comprendere molte cose, Iwa-chan… cose che mi erano sfuggite o avevo dato per scontate, come il fatto che è davvero impossibile riuscire a prevedere una persona al cento per cento, magari illudendosi di arrivare a conoscere ogni sua singola sfaccettatura… eppure, nonostante tutto questo, ho anche potuto comprendere quanto profondo fosse il mio amore per te, Iwa-chan. Folle, pazzo probabilmente… ma assoluto” concluse, tornando a guardarlo con gli occhi lucidi.
Hajime lo strinse maggiormente a sé, come se non lo percepisse ancora abbastanza vicino.
“Riuscirai mai a perdonarmi del tutto?” sussurrò solo.
“Una dimostrazione d’amore proveniente dal cuore può cancellare ogni torto” recitò con un sorrisetto, pizzicando giocosamente le braccia muscolose che lo avvolgevano.
“Inizia a lavorarci” aggiunse ridacchiando.
“Se potessi donarti il mio cuore, Tooru, lo farei volentieri” rispose in maniera dannatamene seria Iwaizumi.
“E ti direi anche di farne ciò che più desideri. Se c’è qualcosa che ho imparato sulla mia pelle, è che senza di te non esisto nella mia interezza. Senza Oikawa Tooru non esiste Iwaizumi Hajime. Semplice” borbottò il moro nell’incavo del collo di Tooru, il quale si paralizzò a quelle parole.
Una lacrima silenziosa gli rigò la guancia, ora finalmente colorita, e sorrise davanti a sé, nonostante non vi fosse nessuno a vederlo.
Era vero.
Non necessitavano grandi paroloni per descrivere il loro rapporto.
L’uno comprendeva l’altro, e l’assenza di uno negava l’altro.
Fine.
 
Con il sorriso ancora sulle labbra e il cuore in subbuglio per gli avvenimenti straordinari di quella serata, Tooru s’addormentò, finalmente sereno dopo tanto tempo.
 

 
Epilogo
 

Non fu facile, ovviamente, dissipare tutte le emozioni negative di quegli anni.
Tooru, nonostante avesse reagito bene, a prima vista, quella sera, era ancora tormentato da paure profonde, che gli instillavano l’idea che Hajime se ne potesse andare via di nuovo.
Iwaizumi, di contro, certe volte era talmente divorato dai sensi di colpa da non riuscire nemmeno a guardare in faccia Oikawa.
Fu un cammino impervio per entrambi.
Ma, in fondo, la vita non è rosa e fiori per nessuno.
Le difficoltà esistono, i problemi relazionali sono reali.
In una coppia, la comunicazione è assolutamente da porre in primo piano e se viene a mancare quella, beh… essa si disgrega.
E’ successo esattamente questo, a Oikawa e Iwaizumi.
Tuttavia, con il tempo e la pazienza, il loro rapporto continuò.
Non si limitò semplicemente a rincollarsi, ma ebbe una netta evoluzione.
Perché, prima o poi, le cose devono cambiare, proprio come affermava Hajime: la staticità è nociva alla coppia che, a prescindere dal tempo, sarebbe comunque incorsa in problemi di qualche genere.
Un ostacolo presuppone un mutamento, in positivo o in negativo che sia. E, se si è abbastanza coraggiosi e, beh, innamorati… si avrà una trasformazione nettamente positiva.
Una maturità che porterà la relazione a un’unione senza precedenti.
E’ ciò che è accaduto ad Hajime e Tooru.
 
Perché quando si ama davvero… non si perde mai.
 
 
 
 




Note finali: sono tornata con le fic lunghe (parecchio lunghe).
Vorrei precisare che quella specie di epilogo finale, non è solo una conclusione all’intera storia, ma anche una mia personale spiegazione ad alcune situazioni e comportamenti dei protagonisti (specialmente di Hajime).
Non vorrei difatti che possano essere fraintesi… il mio scopo era solo mostrare quanto, fondamentalmente, le persone possano apparentemente cambiare senza un motivo, sebbene dietro le quinte vi siano complessi ragionamenti e motivazioni anche involontarie che stentiamo a comprendere perfino noi stessi. Inoltre, le relazioni, proprio come ho già ribadito in precedenza, hanno bisogno di ostacoli anche molto ostici per maturare, soprattutto quelle che ormai si considera consolidate.
Oltre a ciò, preciso che l’espediente del viaggio è stato introdotto proprio per mostrare una separazione netta, all’apparenza senza possibilità di tornare indietro… e non mi pareva credibile che entrambi i ragazzi, residenti nella stessa città, non si sarebbero potuti incontrare per caso anche per strada, oltre alla facilità con cui le notizie possono essere apprese…
Volevo due anni in cui sarebbero stati lontani, senza vedersi né sentirsi. Il tempo necessario per riflettere sulla propria vita senza “l’influenza” dell’innamorato, insomma. (Non consideratemi un mostro, quindi, se faccio partire Hajime di punto in bianco. Ci sono buone motivazioni dietro…)
 
Detto questo, è necessario aggiungere che l’intera storia (oltre che da alcune dj della straordinaria Gusari, come ho già specificato nella nota inziale) mi è stata ispirata specialmente dalla canzone “Perfetti sconosciuti.
 
Tralasciando queste futilissime chiacchiere, ringrazio tutti coloro che abbiano letto per la pazienza e il coraggio di affrontare suddetta lettura. 
   
 
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