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Autore: Makil_    19/08/2017    8 recensioni
[Breve spin-off de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", da poter leggere anche senza conoscere la narrazione madre.]
Ventinovesimo Anno della Guerra, Corallo Rosso, seggio della dinastia Redrock. La Guerra Grigia non è ancora esplosa. 
Renegar, patriarca della casata, vige sulla rocca con pugno fermo e una scrupolosa solerzia: il mondo, fuori, in tutta Pantagos non è mai stato tanto quieto e giocondo. Ma non c'è pace neppure nei silenzi più acuti, non c'è pace tra i compagni di vita né all'interno delle proprie dimore. E la sua famiglia lo scoprirà a tristi spese.
Cosa si nasconde dietro alla quiete di un regno su cui l'intrigo, il male e il desiderio hanno posto la loro mira? Cosa si nasconde dietro a una spada rossa, insaguinata, sporca di odio e rancore? E cosa dietro alla nomea di un uomo che tutti hanno follemente considerato assassino prima che padre e marito?
Genere: Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Pantagos'
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Premessa by Makil_: 
 
  • ​Questa storia non ha nulla a che vedere con i fatti accaduti e narrati ne "Il cavaliere e la fanciulla bionda", opera cui è subordinata e che trovate nella mia home. 
  • Questa storia non è il seguito de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", che - per chi se lo fosse chiesto - è in fase di stesura, ma a buon punto. Per cui, non ci sarà nessun Bartimore di Fondocupo, né alcun patres Steffon.
  • I fatti narrati ne "Spada rossa, cuore bianco" sono da collocare nel 29 AG, a dispetto di quelli narrati ne "Il cavaliere e la fanciulla bionda" del 31 AG. 

  
Ancora una volta, buona lettura! ^^


 

Cap. III – Il brulichio della vendetta
 
 
sibili di un lieve venticello morente fischiavano infervorati nel bel mezzo di tutti quei cunicoli sotterranei, come prigionieri in rapida fuga dalle loro celle, o carcerieri maledetti animati da una focosa voglia di ribellarsi alle stesse gattabuie in cui essi lavoravano.
Dall’alba dei tempi, nessun uomo aveva mai osato dubitare della possanza e della magnificenza di Corallo Rosso, una rocca costruita sul più alto ed impervio sperone di roccia di un isolotto poco più a sud della Punta. Corallo Rosso era stato l’orgoglio di casa Redrock fin dalla sua fondazione, quando il vetusto e ormai leggendario Rickford Redrock aveva piantato sul terreno la prima pietra rossa estratta dal mare e dalle sue maree, facendosi incoronare Re dei Coralli e dei Marosi. Allora, secondo la leggenda, Rickford aveva ripiegato le correnti su suo volere e le aveva allontanate dai suoi porti, così da concedere ai suoi abitanti un po’ di riposo dal frastuono del mare.
La Rocca Rossa  era stata un faro molto importante durante i primi anni della sua costruzione, ma nelle leggende era sempre stata ricordata come un’antica casa dimenticata dagli dèi e dagli uomini in cui albergavano i demoni di Rickford Redrock e la sua stessa anima diabolica, che lo aveva reso pazzo a tal punto da comandare che fosse murato vivo all’interno della sua dimora, per far sì che potesse preservala dai più disparati nemici della sua epoca e non.
C’erano stati nemici, nell’arco della lunga storia di Corallo Rosso,  che avevano osato anche solo per un istante illudersi di poter scacciare Rickford dalle sue mura domestiche? E c’erano stati, forse, nemici che avevano anche solo pensato di poter ingannare uno dei discendenti del nobilissimo Redrock, entrare nella sua casa, abusare della sua clemenza, poi della sua famiglia, e infine uscire vivi dalla stessa rocca per andare in giro per il mondo a vantare di essere stati degli eroi vittoriosi? Se c’erano stati, allora, ogni volta che lo avevano fatto, un signore di Corallo Rosso si era dimostrato inadatto al suo ruolo.
Chiudendo gli occhi e isolandosi dalla realtà di quel luogo che aveva tutte le carte in regola per poter essere considerato dannatamente macabro, Renegar Redrock poteva ancora sentire le urla dei condannati a morte nelle gattabuie, di coloro che avevano perso la vita in quel luogo e dei carcerieri famelici che tenevano le redini di un’infinita serie di torture barbare, molte delle quali mai utilizzate nel corso della storia.
E se chiudeva gli occhi e li stringeva con forza, poteva anche ammettere di sentire le urla strazianti della sua donna. Se per errore batteva quelle dannate palpebre, rivedeva la scena avvenuta la sera prima, nei suoi alloggi privati, e allora il sangue gli ribolliva nelle vene e gli saliva fino al cervello, pulsando a ritmo del fuoco che da ore brulicava nel suo animo. E nella piccola lanterna ad olio che, come una dedita compagna, lo tallonava giù nelle segrete.
 
«Mio signore, mio signore!». Ricordava con chiarezza la voce terrorizzata, tremante, esausta di matres Amadya, che era venuta a chiamarlo negli studi di suo nipote Lemmon, un giovane virgulto sempre più indirizzato verso la buona politica. Stavano discutendo del forte ribasso che aveva subito la moneta della Punta nell’ultimo mese,  che stranamente coincideva con il lasso di tempo perso dallo stesso Lemmon nel cercare moglie. La questione aveva del comico, ma in verità l’argomento di discussione, di divertente, celava davvero poco.
In quella voce di donna, nella voce dell’esperta, Renegar riconobbe subito il sapore della paura: una paura infondata, invisibile, ma viva e forte come pochissime altre. Alzò immediatamente lo sguardo verso la donnetta rubiconda e sfiancata da una probabile corsa e si mise all’ascolto.
«Vostra moglie… vostra figlia!» iniziò la matres, ma il fiato corto le bloccò ogni altra parola.
Non che servisse. Infatti, non ci fu neppure modo di permetterle di parlare ancora o di aggiungere qualcos’altro; Renegar Redrock afferrò lo stiletto dalla scrivania, strinse il pomolo della sua spada e si precipitò fuori con una furia animalesca, diretto verso gli alloggi reali. Suo nipote non perse un secondo per porsi al suo fianco, allarmato quasi quanto lui, e chiamò subito a sé quanti più membri possibile della guardia reale.
Corsero per i corridoi, prima in due, poi in quattro, poi in sei, fino a divenire un’accozzata schermaglia di uomini in arme pronta ad attaccare un’improvvisa e sconosciuta minaccia. Matres Amadya gli correva dietro reggendo la lunga tunica accademica con la destra, nel tentativo di rendere più facile il suo percorso e con la speranza di non inciampare sui suoi piedi. Ad ogni passo, ad ogni respiro, anziché quietarsi, l’esperta malediceva ogni dannato corridoio di quel castello e lamentava la sua inclemenza, non mancando di disperdere qualche lacrima dolce nell’aria.
Ci vollero meno di due minuti per attraversare in corsa l’intero castello. Alla fine, Renegar e i suoi uomini, arrivati dinanzi alle porte dei suoi alloggi privati con la stessa furia che li aveva fatti sprizzare fuori dalle loro camere e dai loro studi, si precipitarono dentro. Fu un calcio diretto alla porta a farla ricadere sui suoi stessi cardini.
Le urla devastanti di una madre insanguinata e distrutta solo per essersi erta a protezione della propria bambina permeavano ancora nell’aria. Octawya, sua moglie, giaceva per terra moribonda, la testa schiacciata contro il pavimento, la bocca piena di sangue e le labbra spaccate. La fronte era sanguinolenta e nello stesso stato si trovava anche la metà superiore del suo braccio sinistro, parte in cui, a giudicare dallo strappo nel vestito, doveva essere stata graffiata con forza.
I suoi capelli si trovavano in mano ad un mostro dal viso coperto che giaceva sopra di lei, quasi come a volerla domare.
«Mani dietro la nuca, bastardo».  Fu la prima cosa che Renegar disse precipitandosi a rotta di collo nella stanza. La sua scorta, ormai guidata dal nipote, si dispose immediatamente a circondare il malintenzionato e la sua signora. I suoi erano uomini fedeli, cani pronti ad azzannare al primo cenno, e non vedevano che con gli stessi occhi rabbiosi del loro signore.  
Il mostro si ritrovò puntato da ogni direzione, le daghe e le spade acuminate pronte a recidergli le giugulari in quella stessa stanza. Renegar Redrock tirò uno sguardo in direzione del letto in cui sua figlia Missy era timidamente stravaccata,  a peso morto, forse anche lei caduta vittima di quell’abominio.  Cercò di non pensare al peggio, ma non vi riuscì. In breve fu assalito da uno strano, stranissimo terrore.  
«Che cosa gli hai fatto?» chiese afferrando il nemico per il collo e gettandolo a terra. «Chi diavolo sei tu?»
L’impostore scalciò, tentando di divincolarsi da una presa salda e robusta, ma invano.  Non c’era solo la forza devastatrice di un signore colpito profondamente nell’orgoglio, ma anche quella di un padre e di un marito colti, all’improvviso, da una rabbia esplosiva.
Il bandito portò le mani su quella di Renegar e tentò di strappargliela di forza, ma dovette rinunciare immediatamente dopo: stava per non arrivargli più l’aria al cervello e ciò lo stava compromettendo non poco. Sarebbe bastato un ulteriore minuto in quella posizione, forse anche meno, per rispedire quell’essere alla terra da cui era venuto. Eppure, qualcosa spinse il signore di Corallo Rosso ad alleggerire la presa. A una distanza tanto ravvicinata, fiato contro fiato, e naso puntato su naso, il signore di Corallo Rosso poté constatare che quella creatura era fatta di carne ed ossa, e che anche il suo sangue stava scorrendo all’impazzata nelle sue vene, al ritmo di pulsazioni forti, rintronanti e sul punto di farlo saltare in aria in un’enorme esplosione di sangue.
Renegar sfilò lo stiletto e glielo puntò alla gola. Per un momento, forse, l’assassino pensò di essere stato ucciso, tanto che iniziò a tossire tentando di portarsi le mani sul collo, senza sapere che il suo assalitore avesse altre intenzioni. Almeno per quel momento.
Lo stiletto lacerò la seta del suo cappuccio fino a farlo ricadere per terra, come una foglia distaccatasi dal suo ramo in pieno inverno, mentre la sua faccia, scoperta e nuda, fu messa in mostra come l’albero spoglio e secco.
«Patres Lorenol…»
Immergere la mano in un otre di olio incendiario sarebbe stato un sollievo in confronto, tanto quella rivelazione fu agghiacciante.
Quel volto, un tempo giovanile, fresco, addirittura tenero, ora aveva tutta l’aria di essersi trasformato in quello di una bestia assettata di chissà quale voglia lussuriosa. I lineamenti addolciti dalla tenera età dei trent’anni di Lorenol si fecero immediatamente paonazzi, e il suo viso divenne irriconoscibile anche da scoperto, tanto la cupidigia e un maligno desiderio lo avevano trasmutato in qualcosa di macabro e spaventoso.
In quella sala, un signore era stato ingannato da un esperto. Corallo Rosso era stata tradita dall’Accademia.
Fu allora che Renegar Redrock decise autoritariamente che la questione avrebbe avuto una durata ben più lunga di un semplicissimo castigo.
Renegar Redrock si rialzò, abbandonò la presa ferrea sul corpo del nemico e si buttò per terra, accanto alle spoglie immobili di sua moglie Octawya, la bocca oscenamente spalancata, il vestito completamente strappato, l’intimo quasi in mostra, bagnato di chissà quale liquido corporeo.
“Mai fare in modo che i tuoi uomini ti vedano debole, Renegar.” diceva sempre suo padre. “Mai.”
Ma in quel momento, nonostante tutto, egli non vedeva nessun uomo in quella stanza. C’erano solo lei, lui e quel mostro infame che aveva osato tanto. Gliel’avrebbe fatta pagare, oggi, domani e dopodomani. Gliel’avrebbe fatta pagare così tante volte e in un modo così vergognoso che la punizione sarebbe rimasta trascritta negli annali della storia, vergata col sangue piuttosto che con l’inchiostro.
Lemmon Redrock gli posò una mano sulla spalla. «Zio…»
Renegar si voltò verso il nipote, gli occhi rossi per la furia repressa e il pugno chiuso con furore. Nessuna parola uscì dalla sua bocca in quel momento. Stava male, fin troppo: caduta sua moglie, ogni altra sua certezza era definitivamente crollata, e ora era debole come cenere soffiata dal vento dopo un enorme braciere dalla potenza disumana. Per quanto ricordasse, non si era mai sentito così.
«Da’ il tuo consenso e poniamo fine alla vita di quest’uo… assassino. Non merita di vivere un secondo di più. Potremmo recidergli seduta stante tutt’e due le mani, se dai la tua sentenza. Al ladro deve essere insegnata la giustizia.»
«Sono d’accordo» fece ser Warnick. «La mia lama è pronta a calare, mio signore. E con la mia anche quella di tutti loro altri.»
Renegar, per tutta risposta, allungò il braccio. «Aiutatemi a sollevarmi.»
Tre cavalieri della sua scorta si precipitarono a rimetterlo in piedi. Ser Warnick lo afferrò da sotto le braccia, e gli altri due lo sollevarono di peso dalla schiena.  Lo avevano mai visto così debole e affranto?
Renegar chiedeva solo di poter dormire, adesso. Doveva meditare in silenzio e aveva bisogno di consultarsi con i suoi fantasmi per apprendere il comportamento da seguire. Non conosceva rimedio migliore alla soggezione e alla paura che quello di proporsi un sonno ristoratore, nonostante spesso potesse sembrare un atto di grande egoismo.
«Rinfoderate le vostre lame, cavalieri. Questa sera non ci sarà nessun altro spargimento di sangue in questo castello. Voglio che torniate ai vostri posti di guardia, se è possibile.»
Tutti i suoi uomini lo guardarono perplessi. Lemmon, suo nipote, si fece avanti con una daga fra le mani e due occhietti infervorati, accessi anch’essi dalla furia e dall’indignazione. «Come sarebbe a dire, zio? Quell’uomo ha quasi ucciso tua moglie…»
«E anche mia figlia, se è già tardi. Lo so.»
«E dunque vuoi lasciare il tradimento impunito? Quali erano le intenzioni di questo spregevole e disgustoso animale? Cosa lo ha spinto a credere di potersi prendere gioco di noi
«Già, cosa aveva in mente?» chiesero anche un paio di ser lì attorno.
Il corpo dell’animale in questione aveva smesso di scalciare, come se sedato a dovere da una buona dose di alcolici. Come un pezzo di piombo lanciato in un pozzo, l’animo furente del vile assassino pareva essersi arreso a rimettersi a cavalcioni.
«Non ho mai detto di volerlo ridare in pasto al mondo. La sua libertà adesso mi appartiene. Mediterò su una delle peggiori pene che l’uomo possa sopportare e, alla fine, solo e soltanto alla fine, darò la mia sentenza. Non ci saranno lame sporche di sangue tra le vostre. Almeno fin quando sarò io a vigere su queste pietre, sarò anch’io a calare l’acciaio sulla testa dei miei nemici, se mai dovesse rivelarsi questa la strada più giusta da imboccare.»
 
Imboccò un breve corridoio tenebroso e senza luce.
Il flebile chiarore emesso dalla lanterna ad olio stava andando affievolendosi sempre di più. Tra poco meno di qualche minuto, Renegar Redrock si sarebbe ritrovato al buio nelle stesse segrete che, nel corso del tempo, avevano fatto prigionieri milioni di trasgressori.
Ora, in verità, le celle erano più o meno vuote. Già dai tempi di suo nonno, Corallo Rosso aveva smesso di essere considerato il tetro luogo in cui la giustizia aveva sempre la meglio, non perché il suo sovrano non fosse adatto al suo ruolo, ma perché d’ingiustizia, nel mondo, ne era rimasta davvero ben poca. Forse, quello in cui governarono i suoi avi, fu un mondo più sano e giusto di quello cui fu relegato lui.
Imitare la gloria dell’antico splendore della casa Redrock non era servito a rendere la casata stessa quella di un tempo. Molti erano stati i Redrock che avevano utilizzato tingere i propri indumenti del sangue dei propri nemici. Di alcuni si diceva che amassero immergere le loro cappe, le loro giubbe, o addirittura le loro spade e il loro corpo, nel sangue di coloro che gli erano contro. Era un ottimo modo di tenere a debita distanza ulteriori nemici della propria corona, ma non era affatto il modo adeguato per crearsi una nomea sana agli occhi del mondo intero.
Renegar non aveva avuto nemici da cui poter ricavare il sangue per i suoi indumenti, forse a causa della sua estrema bontà, o forse a causa della medesima epoca giusta in cui viveva: un tempo che non aveva sfornato uomini odiosi o sfrontati a tal punto da finire per dar credito alle usanze Redrock. Eppure, il Cavaliere Rosso non era venuto meno alle tradizioni imposte della corona dei suoi avi.
Camminò per l’ultimo andito delle segrete, diretto verso la cella in cui avevano rinchiuso barbaramente un infervorato nemico della sua casa: l’accademico, patres Lorenol. I suoi passi erano appesantiti dal suo stato di confusione mentale e dalla sua focosa, famelica rabbia; la stessa che dalla notte precedente lo stava divorando lentamente dall’interno, sviscerandolo a poco a poco.
Non ricordava di aver mai provato tanto odio in vita sua. Sul suo cammino, però, gravava anche il peso della sua armatura, che aveva indossato per mostrarsi dinanzi agli occhi di patres Lorenol con tutta la grazia, la spudoratezza e la possanza della legge della sua casa. Se l’esperto aveva dimenticato in che luogo si trovasse, Renegar glielo avrebbe fatto ricordare all’istante.
Era stata una delle sue sarte a compiere per lui quel lavoro tanto importante, esattamente nel giorno in cui era stato fatto signore di Corallo Rosso. Renegar non aveva mai indossato quella sua armatura prima d’allora, dato che non aveva mai ritenuto necessario mostrarsi con tutta quella tintura rossa addosso. L’intero acciaio da cui era costituita era occupante, stressante e cigolante nelle articolazioni e nelle giunture in cui il colore si era asciugato male.
Quei passi diretti verso la gabbia di patres Lorenol stavano facendo scricchiolare più del dovuto le giunture delle ginocchia. O forse era solo il suo cuore a cigolare.
Quel giorno, Renagar Redrock era regale e tetro come non lo era mai stato prima d’allora. Il suo alto elmetto rosso dalla celata possente e stretta come le grate della gattabuia terminava con un cimiero a forma di drago marino color porpora. Ogni parte della sua armatura era animata dall’accesa colorazione del rosso corallo: dagli schinieri al pettorale, dagli spallacci alle manopole, dai cosciali alle scarselle. Persino il suo lungo mantello ricordava molto la lava in caduta libera sulle pendici scivolose di un vulcano, benché in questo caso cadesse dalle spalle di un signore. La perfezione con cui era stata forgiata nel ventre delle fiamme la rendeva, con ovvie probabilità, una delle armature più costose e nobili del suo tempo.
Arrivò dal capocarceriere, un uomo affetto da calvizie e dalle braccia robuste quanto due querce, che il chiarore del lumino si era definitivamente spento, divorato dalle ombre stesse.
Di certo, se quell’uomo avesse visto, sarebbe rimasto terrorizzato da quella comparsa tanto teatrale. Forse fu una fortuna per lui l’essere accovacciato su una sedia, la bocca con qualche goccia di saliva sui lati e la mente a riposo. Renegar si avvicinò a lui quanto bastò per afferrare le chiavi della cella dalla sua cintola di cuoio, che strappò con un gesto secco onde evitare di destarlo.
Il vecchio e burbero carceriere gli ricordava molto, per la posizione e per la sua aria drammatica, il corpo di Octawya su cui si era imbattuto la sera precedente e la mattina stessa.
Aveva dato ordine di scortare sua moglie e sua figlia nello studio dell’incantatore Lynn, affinché questi potesse prendersi cura dei loro corpi, assicurandosi che riuscissero a rimettersi e a risvegliarsi dal loro sonno.
«Trauma». Così aveva definito quel loro stato l’incantatore Lynn quando le aveva viste. Poi aveva aperto di forza le loro pupille e le aveva guardate con occhi sospetti ed indagatori. Gli occhi di un intenditore. «Sì, traumi… non ho dubbi. E la piccola è stata avvelenata.»
«Avvelenata?» aveva chiesto Renegar, sconvolto. Anche suo nipote Lemmon, al suo fianco, si era lasciato sfuggire un gemito.
«Temo proprio di sì, mio signore. So cosa fare in casi come questi, ma non posso promettervi nulla ora come ora. Devo riuscire a capire quale genere di intruglio abbia utilizzato il vostro assassino. Sono solo un uomo, dopotutto… non un dio. E non compio miracoli.»
Renegar si era preso un momento per carezzare il volto smagrito della sua povera figlioletta Missy, la sua preziosa fanciulla spavalda e chiacchierona. Una lacrima gli aveva solcato per intero il viso quando si era accorto di non riuscire a farla ridere in alcun modo.
Poi aveva rivolto parte del suo tempo a contemplare il corpo gelido ed esanime di sua moglie. Aveva amato da subito quella donna, e continuava a farlo con passione e bontà giorno dopo giorno. Nei suoi occhi, nella sua bocca, nelle sue gote, nei suoi fianchi, nel suo petto e sul ventre, egli rivedeva sé stesso e la vita che insieme avevano generato con lo stesso amore che li aveva tenuti uniti per tutti quegli anni. Su quel letto di paglia, nello studio dell’incantatore Lynn, Renegar si era perso tra le carni della moglie Octawya, che non guardava con tanta ammirazione da molto, moltissimo tempo.
“Il dolore apre gli occhi”. Sapere di non essere stato con lei nel momento dell’attacco lo rendeva inquieto e lo faceva sentire un mostro senza alcuna virtù. Sapere di averla lasciata soccombere alle sue tetre paure infantili lo annullava e lo disintegrava dall’interno. Avrebbe voluto rivederle sorridere, parlare e camminare, avrebbe voluto custodire la loro purezza e preservarle come le uniche donne della sua vita.
Si era avvicinato al corpo di Octawya, si era buttato ai piedi del letto e le aveva messo una mano sul ventre. Poi aveva lasciato cadere la sua testa sul suo petto e si era lasciato cullare dal ritmo delle pulsazioni delicate, soffocate quasi, del suo cuore. In breve, si era ritrovato a parlare col vuoto dello studio dell’incantatore, ma le sue parole gli avevano dato la speranza e il coraggio che stava cercando da ore.
«Sappi che sfiderei i mari e i monti per averti, Octawya. Hanno sbagliato a mettersi contro di noi, contro Corallo Rosso… e presto gli darò modo di rendersene conto da sé stessi. I vecchi fantasmi della rocca s’indigneranno a tal punto da iniziare la grande caccia al mostro, e tutti i nostri nemici inizieranno a cadere, e a cadere, e a cadere, finché non saremo rimasti soltanto io e te. E sono pronto alla guerra, mia signora… prontissimo. Sono pronto alla carneficina più sanguinosa della storia del nostro continente, se serve. Sono pronto a dare in pasto alle fiamme ogni suddito di questo luogo complice di quel mostro, pronto ad aizzare il mio esercito contro l’intera Accademia e contro tutti i titani che oseranno sollevarsi. Sono pronto a tutto pur di darti vendetta
Lo scricchiolio della paglia secca dentro alla cella lo riportò alla realtà. L’abominio che si stava contorcendo all’interno della sua prigione giaceva in posizione fetale sul pavimento, stroncato dal buio delle ombre.
Poteva avvertire l’inquietudine del mostro che aveva osato sfidarlo, e ciò gli parve dargli molta forza.
Posò la lanterna per terra, girò la chiave nella toppa, tirò un lungo sospiro e pose la mano sul pomolo della lunga spada che teneva saldamente alla cintola. Lo stridere della catene del prigioniero e lo schiocco della serratura furono presto sovrastati dalla voce cupa, rozza e secca del patres.
«Carcerie» cominciò. «Non ti ho chiesto di portarmi da bere. Sto cercando di riposare da due fottutissime ore… va’ via!»
Renegar non rispose né osò fiatare. Passo dopo passo s’inoltrò nel buio della cella.
«Mi hai sentito, vecchio scorbutico?»
Renegar fece un altro passo. L’acciaio del suo stivaletto tintinnò a contatto con la superficie scabra del pavimento della cella. Il salnitro era ovunque in quel piccolo ambiente, e il fetore degli escrementi lasciati a marcire nel vaso da notte era mortale.
«Cosa sei? Sordo, forse?»
Si fermò al centro della cella e puntò saldamente il tallone per terra. L’acciaio produsse un’eco assordante e placò l’animo focoso del prigioniero. «In piedi, patres Lorenol.»
«Non sono più un patres». Il prigioniero non si mosse di un piede da terra.  A giudicare dal silenzio che seguì, Lorenol doveva essersi reso conto solo allora di chi avesse di fronte. «E non ho alcuna intenzione di farmi dare ordini da un signore che non è il mio.»
Quando gli occhi di Renegar si abituarono al buio della cella, egli riuscì a vedere meglio l’uomo con cui stava parlando, contorto per terra come una serpe morta nel deserto più arido e vestito di un semplice straccio color sabbia lacero e macchiato di urina. Certo era che della bellezza giovanile e fresca di Lorenol non era rimasta neppure l’ombra su quei suoi lineamenti che egli stesso aveva osato rendere osceni. La sua faccia era macchiata di fanghiglia, le sue mani sporche di chissà quale schifezza e i suoi capelli già lerci ed ingialliti. Stava per divenire un prigioniero degno di quel nome.
«Sei venuto a porre fine alla mia vita?» ridacchiò improvvisamente Lorenol. «Devo comunicarti che non ci sono affezionato per niente. Era pure ora che ti facessi vivo, Renegar. Tagliami la testa con quella tua spada e facciamola finita. Sarebbe una cortesia per me, dico davvero». Si accorse solo dopo che Renegar non stava rispondendo alle sue parole. «Hai altro in programma, forse? Impiccagione? Defenestrazione? Oh no, aspetta… non mi dire… avvelenamento?»
«Sarebbe equo, non hai torto». Renegar ripiegò le labbra in segno di disgusto.
«Allora ti prego… facciamolo subito!»
«Credi forse che io sia il tuo dio?». Renegar si impose con tutta la sua possanza d’acciaio dinanzi al condannato e sollevò la celata del suo elmo rosso. «Stai pregando l’idolo sbagliato, patres Lorenol. Se sono qui non è per sottoporti alla bontà divina, né per assolverti dai tuoi molteplici peccati. Il giorno della tua completa assoluzione è ancora lontano per te.»
«Non mi spaventano le tue parole, Redrock!». Lorenol si mise a gattoni con una fatica immonda. «No che non lo fanno. E non ho paura della morte. Uccidimi, avanti, o ti torturerò finché non l’avrai fatto. La goccia è più fastidiosa se cade continuamente nello stesso punto della fronte.»
«Stai commettendo un gravissimo errore, Lorenol: io non ti ucciderò né oggi, né domani, né dopodomani. Tu vivrai ancora per molto.»
Solo allora il prigioniero si decise a guardarlo negli occhi dal basso della posizione in cui si trovava. I suoi connotati erano stati trasformati in un insieme di lineamenti brutti ed aspri, resi bianchi come un cencio dall’assenza di luce e di cibo. La fiammella che aveva bruciato fino ad allora negli occhi di Lorenol, infine, si era spenta, sconfitta.
«A cosa devo questa gentilezza, mio signore di Corallo Rosso?». Ogni volta che si rivolgeva a lui con il suo titolo utilizzava una mellifluità banale e corrotta.
«Di certo sei tu che devi dartene una risposta. Ancora una volta stai remando controcorrente: non sono qui per rispondere ai tuoi quesiti, ma cerco risposte alle mie domande.»
«Oh, ho sempre adorato i questionari e gli enigmi. Sai una cosa, signore? Per tutto il tempo in cui restai all’Accademia, tentai di convincere alcuni miei compagni a mettere qualche buona parola nell’orecchio del Supremo Patres Polwyr, affinché mi desse il permesso di divenire un censore. Adoravo stare a Piazza delle Campane e non c’era cosa più grande a cui aspirassi se non entrare nelle Celle dei Censori. Dicono che sotto alla piazza scorrano i cunicoli delle prigioni accademiche. Mi auguro che un giorno tu possa vederle da vicino in modo da narrare al mondo la tua versione dei fatti.»
“Per ora mi preoccuperei di ciò che stai vedendo tu, Lorenol, se fossi in te.” «La tua franchezza non fa che aumentare il mio disgusto.»
«E il tuo disgusto non fa che rendermi immune a qualsiasi cosa tu dica, mio grandissimo signore. Mi hai detto che non morirò oggi: non ho di che preoccuparmi, allora.»
«Ho detto anche che cerco risposte, patres prigioniero.»
«Hai detto così tante cose da quando sei entrato che ho già iniziato a dimenticarle.»
«Mi costringerai a ripeterle ancora ed ancora. Ho tutto il giorno». Renegar strinse la presa sul pomolo della spada.
«Lascia pure quell’elsa, Renegar. Non hai saputo utilizzare la spada quando ho attaccato personalmente tua moglie e tua figlia… vorresti dirmi che ci riuscirai ora, mentre mi preoccupo di fare tutt’altro che minacciare qualcuno di morte?»
Renegar si morse le labbra e si trattenne dal mollargli un calcio ammantato d’acciaio dritto in pieno volto, così da sfigurare definitivamente i suoi lineamenti. “Arriverà il momento…”
Il prigioniero fece per rimettersi in piedi, ma collassò nuovamente sul pavimento, come fosse scivolato sul marmo bagnato. «Questa cella mi rende debole.»
«È il posto in cui ti trovi a farlo. Ti sta risucchiando via ogni forza, perché hai osato sfidarlo e hai osato profanare la sua memoria. Gli spettri del forte ti stanno punendo.»
«Aye» buttò lì Lorenol. «E dietro l’angolo c’è un folletto che lecca i piedi a un lupo mannaro. Renegar, con cosa ti hanno ubriacato? Capisco bene che la vista di tua moglie in quello stato non sia affatto una miglioria alla tua condizione di imbecille, ma non puoi addossare la tua rabbia sui fantasmi». Lorenol si lasciò sfuggire un sorrisino disgraziato. «Oh, perdona le mie maniere scomode… devo essere davvero debole e stanco.»
Renegar strinse il pugno nella manopola. «Con cosa le hai avvelenate?»
Il prigioniero sollevò nuovamente lo sguardo e lo puntò dritto nei suoi occhi. Il barlume di una nuova, insana scintilla si accese nelle sue pupille scure. «Solo una. Sfiancata: è questo il termine corretto. Essenza di Bael.»
«Chi te l’ha data?»
«Il destino» rispose secco Lorenol. «Ha fatto tutto lui.»
Renegar curvò la bocca ed aggrottò le sopracciglia. “Dannato uomo senza onore”.«Chi te l’ha detta?»
«Non arrabbiarti, Renegar. La rabbia rovina la bellezza dell’uomo. Guardami… ti sembro il tipo in grado di produrre una fiala di essenza di Bael? Vengo dall’Accademia, non dalla Gilda degli Incantatori… e sono nato nel ventre del Sud, non nella Piana Amena.»
«Rispondimi, Lorenol.»
«L’ho rubata» sputò fuori il patres. «Afferrata da uno scaffale dello studio del vostro inutile incantatore. Ha già provato a curarla? Chiodi di garofano, due gocce d’acqua marina e un bel pugno sullo stomaco con forza e molta convinzione. Dovrebbe essere questo il rimedio più efficace». Lorenol tentò nuovamente di alzarsi, ma questa volta fu Renegar a rimproverarlo di restare giù. «Non te le avrei uccise, sappilo.»
“È la verità” constatò Renegar. “Brutto bastardo”. «Le tue intenzioni…»
«Argh! Questo pavimento mi sta massacrando il culo!» lo fermò Lorenol. Gemette un momento e poi riprese. «Tua moglie non era neppure nel mio piano. Diciamo che si è trovata nel luogo sbagliato e al momento sbagliato. L’ho solo malmenata. Ma se non fosse stato per matres Amadya…»
«Cosa gli avresti fatto?»
«Cosa le avrei fatto. Ti ho detto che non avevo alcuna intenzione di mettere le mani anche sua tua moglie. Mi avrebbe denunciato, mi avrebbe visto, mi avrebbe fermato…  ma solo se non avessi fatto qualcosa. Sono stato costretto.»
«Come sei entrato nelle sue camere?». Renegar inspirò e provò a calmarsi. Aveva i nervi tesi a tal punto da costringerlo a pensare che stessero per esplodergli. Il cranio stava iniziando a dolergli.
Il patres ghignò. «Hai tanti nemici qui dentro. Sei circondato da impostori che tu credi lavorino doverosamente per te. Li hai stancati con i tuoi ordini insulsi… e anche tua moglie Octawya ha fatto la sua parte.»
«Chi ti ha aiutato?»
«La tua sarta, Renegar. Quella donnetta inutile che pensavi ti fosse tanto sottomessa da poterti leccare lo stivale su tuo ordine.»
“Nemici dentro le mie mura. Padri… perdonatemi. Padri…”. «Tu mi stai mettendo contro i miei sudditi. Vuoi portare il nome della mia casa alla dannazione, all’inferno, mettendomi nelle orecchie voci che sono tutt’altro che veritiere.»
Lorenol si spinse in avanti, si mise gattoni e si girò sul fianco sinistro. Poi, con la forza di un uomo che si accinge a sollevare un macigno, si mise seduto. «Parlare richiede comodità, non trovi?»
«Non c’è un briciolo di serietà in te. Non ti scandalizza neppure l’idea della morte.»
«Sei contraddittorio, Renegar, mio caro amico. Contraddittorio e stupido.»
«Sarò tutto ciò che vuoi, ma io ho un cuore… e io non mi ritrovo in una cella.»
Lorenol lo guardò per qualche secondo, poi alzò la mano sinistra e la scosse in cenno distratto. «Già, hai ragione.»
«Voi accademici siete degli esseri insulsi e senza sentimenti. Non avete a cuore che la salvezza della vostra anima demoniaca e dei vostri scopi egoisti. Siete arroganti, ipocriti, ignoranti e senza alcuno scrupolo.»
«Non condivido a pieno.» mormorò Lorenol. «Ogni era produce i suoi frutti marci. Hai mai sentito parlare della Tempesta Rossa, mio signore? Il periodo in cui si combatté fu orrendo e spregevole. Quella sì che fu una guerra combattuta in un’era marcia.»
«Una leggenda persa negli annali della storia. Il frutto della mente di un amanuense che scriveva storie per bambini e si divertiva a parlare di cose mai accadute.»
«In cui erano inclusi spargimenti di sangue, giuramenti mandati a rotoli, battaglie navali e guerre sanguinolente e macabre. Non penso fosse proprio un testo per bambini… ma potrebbe essere che abbiamo due diverse concezioni del significato.»
«Le storie sono solo storie.»
«Sicuramente, ma i suoi personaggi possono farci capire molto. L’Accademia fu tradita dal suo stesso Supremo Patres, durante quegli anni. Si chiamava Galbard, se ricordo bene, ed era un inutile ammasso di sterco e piscio di cavallo. Non aveva neppure un briciolo di tutto quello che hai detto essere prerogativa di un accademico. Portò il nostro reame alla dannazione solo perché era inutile. Inutile, disonesto e senza palle. Ma non senza scrupoli, non ipocrita o senza sentimenti.»
«Venne trovato morto su una nave, l’Ultima Cantilena, dopo che i suoi nemici lo intercettarono a largo delle coste settentrionali. Si era reciso le vene dei polsi» concluse Renegar che conosceva abbastanza bene quella storia. «Mi stai suggerendo di lasciare che sia a tu a giustiziarti con le tue stesse mani?»
«Non esattamente» rispose secco Lorenol. «Non trarre deduzioni inutili e svelte. Volevo solo dirti che le ere passano, gli uomini restano, e la poca morale vive in eterno. Potrei farti centinaia di migliaia di nomi tutti diversi, e alla fine concorderesti con me, Renegar Redrock.»
«Eppure, detto da un saggio che proviene dall’Accademia suona sempre molto strano». Renegar scosse la testa due volte. Tutto quel parlare lo stava confondendo. Pensò di ritrovarsi gli sguardi indagatori ed inquisitori dei suoi avi puntati tutti sul suo elmo, l’indice teso contro di lui nel rimproverargli poca serietà, prendendolo in giro con risate e ghigni di scherno. «Perché ti trovi qui?»
«Perché tu mi ci hai messo, mio signore». Lorenol prese a ridere. «Inizi a non poterne più?»
Renegar posò una mano sulla fronte, acciaio sulla pelle. Il caldo era asfissiante con tutta quella dose di protezioni a dosso. E in più, la risata stridente di quel prigioniero lo stava facendo andare fuori di testa.
«Avrei fatto tantissime cose questa notte, pur di vederti cadere sulle tue spoglie. Sarebbe stato un piacere allontanarmi da Corallo Rosso su una piccola imbarcazione – una modesta galea, per dirne una – vedendo il fuoco e le spire del male avvolgere questo luogo senza dei». Risate: erano tremendamente gelide e cupe. «Avrei sgozzato matres Amadya e la tua sarta, giusto per evitare che parlassero. Poi sarei andato via, fingendomi malato, occupato o stanco di questa vita nel tuo regno. Avrei fatto ritorno a casa mia… ma vedi, tu mi stai dando molte complicazioni.»
Renegar fece scattare la mano verso il basso. Le acute risate del patres prigioniero gli si insinuarono nel cervello come ferro arroventato sul fuoco e fatto passare dentro al cranio da ogni pertugio aperto. Posò la destra sullo stiletto con una velocità spaventosa.
«Va’ da tua figlia, mio caro amico. Svegliala come ti ho insegnato poco fa e posale una mano calda, paterna, sul ventre. Chiedile della rosa che cresce tra le sue gambe e annunciale che è arrivato il momento che fiorisca. Quanto ancora avrebbe dovuto aspettare perché quel fiore profumato venisse colto?»
Renegar si sentì salire il sangue al cervello. All’istante capì. Le dita della sua mano sinistra iniziarono a contorcersi per la rabbia e per l’iraconda furia. “Verrà il momento...”
Sentì la presa della destra pressare sullo stiletto freddo. Un unico colpo, uno solo, dritto al collo e la questione si sarebbe chiusa lì, in quella gattabuia. Un solo colpo e tutto quel dolore sarebbe evaporato come acqua in una torrida giornata estiva. “Il momento…”
«Stai pensando di uccidermi, eh? La verità fa sempre tanto male». Lorenol si mise finalmente in piedi. Portò la mano destra in tasca con un colpo secco. Renagar ebbe il tempo di sfilare lo stiletto rapidamente e di puntarglielo alla gola.
In meno di un battito ci ciglia, i due si ritrovarono sulla parete della cella. Lorenol pressato contro la scura e liscia pietra dura della prigione, Renegar a sovrastarlo con il suo acciaio alla gola. Il patres aveva estratto un fiore dalla tasca.
«Un fiore per un fiore. Forse avrei dovuto fare il giardiniere, non il patres. Cogliere i fiori mi rende tanto felice. E i fiori della principessa Missy sono molto rari…». Renegar strinse la sua morsa. «Mi… pare… un gesto… mise… misericordioso.»
Il signore di Corallo Rosso alleggerì la presa e gli permise di staccarsi dalla parete. Non appena lo fece, il patres cadde sfinito per terra, le mani in cerca dei suoi petali rosati.
«Basta così». Renegar abbassò la celata del suo elmetto rosso con la mano libera. «Guardati attorno giorno e notte, controlla ogni più recondito angolo di questa cella, ogni sasso, ogni pietra, ogni ciottolo. Aggrappati a qualcosa che non sia la tua vita e trattieniti a quella cosa per sempre. Hai osato sfidare la mia lama, patres… non pensare di uscirne illeso.»
Si avventò contro il suo prigioniero, lo alzò afferrandolo per la collottola e lo riportò con le spalle al muro. Il patres sputò un grumo di saliva ai suoi piedi.
«Mi uccidi» constatò Lorenol. «Ma non mi… non mi dire. Un signore coe… co… coerente
Renegar gli puntò lo stiletto alla base del collo. Inspirò due volte. “Verrà il momento…”.
Lo sguardo infido e spregevole di quell’uomo gli stava facendo ardere le budella come fossero state colpite da lapilli infuocati. “Padri, abbiate pietà… di me”. Un gesto fulmineo gli permise di alzare al cielo l’arma. “Verrà il momento…”
Lasciò che lo stiletto precipitasse miseramente per terra. Infine, voltò le spalle al nemico.

 


Note d'autore:
Nuovo appuntamento.
Dopo i disastrosi fatti accaduti nello scorso capitolo, finalmente abbiamo modo di vedere il tutto con una calma quasi insolita per l'atmosfera in cui si crea. Attraverso gli occhi del celeberrimo Renegar Redrock, ci immergiamo all'interno dell'intrigo, del dolore e della giustizia. Cosa avete pensato di questo personaggio? Avevate immaginato in questo modo il fautore della Guerra Grigia che, nella bocca di quasi tutti i personaggi de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", era apparso come un mostro? 
Viene svelata l'identità dell'oscuro assalitore in grado di muoversi nell'ombra: patres Lorenol (un personaggio già citato nel I capitolo). Avevate immaginato che potesse trattarsi di un uomo tanto insito nel castello? Comunque, per chi avesse posto la domanda: ecco com'è riuscito ad entrare. Non solo aveva numerosi amici al suo interno - quindi tantissimi appigli - ma era addirittura un uomo votato e, perciò, abitante della Rocca Rossa.
Renegar, scosso dal suo immane senso del dovere e dal suo pugno fermo, scende a far visita al prigioniero. Lì, un paio di rivelazioni saltano a galla: Lorenol ha avvelanato Missy, come molti avevano dedotto. Ma il suo intento - cosa in cui è risciuto, secondo le sue parole - era un altro. Cosa pensate dell'intera situazione? Cosa del personaggio di patres Lorenol? E cosa immaginate abbia spinto questo uomo malato a comportarsi in questo modo? Ma soprattutto, come avete interpretato l'ultimo gesto di Renegar Redrock e come pensate si svilupperà la cosa?
Le domande di questo capitolo sono molte, me ne rendo conto. In attesa dell'atto di chiusura di questo spin-off [sabato 26 c.m] io vi saluto con una domanda molto difficile (ora come ora): chi sarà l'ultimo PoV di questa storia o chi sperate che sia?
Grazie a tutti i miei lettori e a tutti coloro che lasciano progressivamente il loro commento: un grande abbraccio!
Makil_

P.S. In questo capitolo abbiamo anche un importante cameo. Vi ricordate di Lemmon Cappa Rossa ne "Il cavaliere e la fanciulla bionda"? Egli è stato uno dei tre coordinatori del grande intrigo di Roshby tra le mura della torre di Wolbert Dorran. Là, Lemmon è conosciuto come "Cappa Rossa"... un particolare rimando, ora che le vicende risultano più chiare, non credete?
Vi riporto il capitolo in cui spicca il suo personaggio (anche se lo abbiamo visto in molte altre occasioni - nell'epilogo e nei capitoli del torneo, ad esempio): 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3657043.


 
 
   
 
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