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Autore: CalimeNilie    20/08/2017    1 recensioni
Clarke distrugge per sbaglio il Lincoln Memorial, Lexa è l'agente incaricato di sorvegliarla.
Dal testo: "Iniziano a conversare dopo una settimana. Non è proprio una conversazione, ma se la fanno bastare. «Sai, una volta ci tenevamo un dio, in questa stessa cella.»
«Non dovevate scomodarvi così tanto, per me.»"
[Clexa]
Genere: Angst, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Clarke Griffin, Lexa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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[Gli Inumani hanno acquisito i loro poteri, latenti alla nascita, dopo aver ingerito dell’olio di pesce contaminato. I personaggi di questa storia appartengono all’Universo della Marvel o a quello di The 100, non certo a me, in ogni caso.]

 

 

Should’ve played safer from the start
Loved you like a house of cards
Let it fall apart
But all the things I couldn’t understand
Never could’ve planned
They made me who I am

 

«Agente Alexandra A. Woods, livello 7. Accesso consentito.»
Lexa si appoggia con un sospiro contro la parete di vetro dell’ascensore, che inizia la sua rapida corsa verso i piani superiori del Triskelion, la sede dello S.H.I.E.L.D. Sotto di lei, New York è una macchia azzurra e grigia che brilla sotto il sole novembrino di questa mattina.
L’ascensore si ferma con un lieve sibilo e le porte si aprono silenziosamente, per permettere a Lexa di uscire. Si incammina col suo passo ben deciso lungo il corridoio illuminato.
«Buongiorno agente Woods.»
«Buongiorno a lei, Kane.»
Lexa sorride, mentre Marcus Kane le passa di fianco.
«Ah, Alexandra!» La voce dell’uomo la ferma. Non la chiama quasi mai per nome, a meno che non siano nel suo ufficio, lontano da orecchie indiscrete – e anche allora, Kane ha non poche remore a farlo.
«Sì, signore?» domanda la ragazza, voltandosi verso di lui.
«Ho sentito che hai un nuovo incarico» dice l’uomo.
Lexa annuisce. «È così» conferma, «Riguarda la nuova ragazza che hanno trovato il mese scorso.»
«Quella che ha distrutto il Lincoln Memorial di Washington? Ne parlavano tutti i notiziari.»
«Esatto. Non sappiamo ancora se possa essere un pericolo, ma escludiamo un collegamento con l’HYDRA» spiega Lexa, tormentando con le dita un bottone del tailleur.
Kane le sorride, stringendosi nella sua giacca scura. «Buon lavoro, agente Woods.»
Lexa sorride di rimando, riprendendo a camminare, le sue scarpe di pelle italiana che rintoccano sul pavimento. Finalmente arriva davanti ad una porta di metallo, al termine del corridoio. Lexa avvicina l’occhio sinistro allo scanner retinico sulla parete e lascia che un laser verde le scansioni la cornea.
«Agente Alexandra A. Woods» annuncia una voce metallica. «Accesso consentito.»
Mentre la porta si apre, una coppia di guardie armate esce dalla stanza. Lexa saluta con un rigido cenno del capo ed entra.
La cella è proprio al centro della stanza. Le pareti di vetro permettono di vedere l’ospite all’interno, che si aggira senza pace nel poco spazio a disposizione, spostandosi incessantemente dalla sedia al letto, e viceversa. Non appena Lexa entra nella stanza, tuttavia, la prigioniera si ferma e si avvicina al vetro, per osservare che cosa sta succedendo.
Rimangono a fissarsi per qualche secondo, Lexa e la prigioniera, prima che quest’ultima sciolga la sua posa con uno sbuffo derisorio. Lexa si accosta alla cella.
«Buongiorno, Clarke» dice a voce alta. «È questo il tuo nome, giusto? Clarke?»
Come se non sapesse perfettamente che la ragazza bionda davanti a lei si chiama Clarke Griffin: il suo nome è stato sulla tv nazionale per settimane, prima che lo S.H.I.E.L.D. decidesse di occuparsi personalmente della faccenda e proibisse a chicchessia di parlarne pubblicamente. Per non parlare della quantità abnorme di scartoffie che ha dovuto compilare per rassicurare il pianeta sulla completa innocuità di Clarke Griffin, anni venti, altezza 1,65, superpoteri ancora sconosciuti.
Guardare il viso di Clarke, ora che non deve più farlo da una tessera di riconoscimento o dalle riprese di una telecamera in modalità notturna, le fa uno strano effetto, come di deja-vu.
Clarke rimane in silenzio, ma annuisce.
«Grazie a dio non ti hanno fatto mettere di nuovo la tutina di Philadelphia» dice Lexa. La settimana scorsa, Fury ha autorizzato un’apparizione pubblica della ragazza a Philadelphia, vestita con una tuta elasticizzata progettata dall’agente Reyes in modo da contenere i poteri di chi l’ha indosso, a dimostrazione che ormai lo S.H.I.E.L.D. aveva preso le redini della situazione. Lexa ringrazia il cielo che al momento Clarke indossi abiti civili.
«C’è solo una persona a cui quelle cose stanno bene» aggiunge, facendo scorrere gli occhi sulla figura di Clarke. È leggermente più paffuta di quanto la ricordasse, con un viso più aperto. «E quella persona è Natasha Romanov.»
Clarke rotea gli occhi e fa schioccare la lingua contro il palato. Ancora non parla.
«Le cose stanno così, Clarke» dice dunque Lexa, leggermente spazientita. «Io sono qui per controllarti e per fare in modo che tu non combini altri disastri.»
«Che cosa potrei fare, da qui dentro?» domanda Clarke, allargando le braccia ad indicare la cella. Per la prima volta Lexa sente la sua voce, una voce bassa, roca, quasi stonata per quel corpo.
«Attorno alla tua cella, c’è un campo gravitazionale che dirotta i tuoi poteri. Ti è assolutamente impossibile utilizzarli. E non dubitare che, se proverai a usarli per liberarti, io lo verrò a sapere. Io saprò tutto quello che ti riguarda, finché non avremo trovato un modo per neutralizzarti.»
Clarke corruga le sopracciglia bionde, storcendo la bocca. «Non è illegale?» chiede.
Lexa sospira. «Sei sotto la nostra giurisdizione, Clarke, perché hai distrutto un monumento pubblico con mezzi sovrannaturali. Quindi no, non è illegale trattenerti qui. Il governatore ne è a conoscenza e approva.»
«Senta» sbotta a questo punto Clarke. «Ci deve essere un errore. Quello che è successo al Lincoln Memorial... non è stato intenzionale. Io non c’entro niente! Fino a un mese fa non sapevo nemmeno di avere dei...» Lexa pensa stia per dire “superpoteri”, ma la ragazza non lo fa. Forse è ancora troppo presto perché si abitui all’idea.
«Sei stata giudicata “pericolosa” a livello mondiale, è necessario che tu rimanga qui finché non ne sapremo di più sulla natura dei tuoi superpoteri» spiega in tono professionale, spostando i capelli da una spalla all’altra. «Tra i miei compiti» aggiunge, «c’è anche quello di trovarti un posto all’interno dello S.H.I.E.L.D., un modo in cui tu possa collaborare con noi, senza causare ulteriori danni.»
«Intende dire, che da ora in poi non potrò più fare nulla senza la vostra supervisione?» domanda Clarke.
Lexa inclina il capo di lato. Se non altro, la ragazzina è sveglia.
«Questo dipende da te» dice, senza mentire, evitando solo di raccontare parte della verità, come le hanno insegnato a fare. «Comportati bene, e potrai avere un buon grado di autonomia.»
«Tutto ciò è assurdo, io non ho fatto assolutamente nulla!» protesta Clarke, slanciandosi contro il vetro elettrificato. La ragazza cade sul pavimento della cella, stordita.
Lexa si avvicina al vetro, premendovi contro un dito. «Io conosco le persone come te, Clarke. Pensate di essere persone del tutto normali, poi un giorno vi viene voglia di olio di pesce e vi accorgete di avere qualcosa di particolare, di diverso da tutti gli altri. E pensate che questa vostra diversità vi renda superiori. Così abbattete un grattacielo, fate crollare una città...» Fa una pausa per riprendere fiato, «Distruggete il Lincoln Memorial.»
«Non è così che è andata!» protesta Clarke, tendendo una mano verso di lei.
«No?» domanda retorica Lexa. Ora che ha iniziato a parlare, non crede di riuscire più a fermarsi. «Stai forse dicendo che non è sempre così che va a finire? Stragi di civili innocenti, mentre voi vi guadagnate il titolo di eroi.»
Sorride, tira un po’ su col naso. «Lavoro qui da anni, ormai, Clarke. Non sai quante volte l’ho visto succedere.»

Le fa visita tre volte al giorno, ogni giorno. Dieci di mattina, due di pomeriggio, dieci di sera.
Lexa si fa scansionare l’occhio sinistro, aspetta che la porta si apra e che le due guardie escano, poi entra nella stanza. Non si avvicina mai troppo al vetro. Le parla per qualche minuto, aspettando una risposta, poi, quando vede che Clarke non è intenzionata a dargliela, se ne va.
Iniziano a conversare dopo una settimana. Non è proprio una conversazione, ma se la fanno bastare.
«Sai, una volta ci tenevamo un dio, in questa stessa cella» dice Lexa.
«Non dovevate scomodarvi così tanto, per me» risponde Clarke.
Lexa è così sconcertata di sentire la sua voce nuovamente, che ci mette qualche secondo a replicare: «Non sappiamo quale sia la portata dei tuoi poteri, quindi era necessario.»
Clarke si rifiuta di rispondere a tutte le domande che le porge in seguito.

La seconda volta che parlano, è Clarke a iniziare.
«Il cibo di oggi era davvero deludente» le annuncia, non appena Lexa entra nella stanza, senza neanche attendere che la porta metallica si sia richiusa alle sue spalle.
«Che ti aspettavi? Sei in prigione» la redarguisce Lexa, con uno sguardo severo. In realtà, in cuor suo, è deliziata che Clarke le stia parlando. Dopo un po’ di giorni, non ha trovato più argomenti e si è ritrovata a usare la funzione “Una voce a caso” di Wikipedia, prima di entrare nella stanza della cella.
«Mi avevate abituato ad un altro standard» dice Clarke, alzandosi dal letto.
Lexa sospira tra sé e sé. «C’è stato un incidente nelle cucine, oggi. A quanto pare il signor Stark sta prendendo lezioni di cucina e ha scommesso con l’agente Barton che sarebbe riuscito a preparare un pranzo come si deve. Ora Barton si sta portando via l’auto del signor Stark.»
Clarke ridacchia. «Avevo intuito la fine.»
Lexa annuisce, quindi fa finta di consultare il fascicolo che ha in mano. «Da domani, inizierai l’addestramento. Dobbiamo capire quali sono i tuoi poteri e come controllarli.»
Clarke sbuffa, andando a sedersi sulla sedia.
«Clarke?» la chiama Lexa, aspettando una sua risposta. Non sopporta quando le persone non le rispondono.
Clarke la ignora, iniziando a guardarsi le unghie. Lexa ha un moto di impazienza: «Il dottor Strange si è detto disponibile ad addestrarti nella dimensione specchio. Sai cos’è la dimensione specchio?»
La ragazza nella cella scuote il capo, accompagnando il movimento da uno sbuffo e una scrollata di spalle.
«La dimesione specchio» spiega pazientemente Lexa, combattendo la sua voglia di prendere a pugni qualcosa, «è uno spazio in cui qualsiasi cosa succeda non ha conseguenze nel mondo reale.»
Questo sembra catturare l’attenzione di Clarke, che rialza lo sguardo su di lei.
«Nessuna conseguenza?» ripete la ragazza.
Rimangono a guardarsi, quelle due parole a riempire il silenzio tra loro.

Stephen Strange si rifiuta di proseguire l’addestramento di Clarke dopo la prima lezione.
«È una ragazzina viziata e incontrollabile» dice, lasciando la stanza della cella con fare drammatico, la sua cappa rossa che ondeggia alle sue spalle.
Lexa entra nella stanza di corsa, allarmata. Sapeva che non era una buona idea nello stesso momento in cui l’ha avuta. Una ragazzina insofferente e un quarantenne ancora più insofferente? Il disastro era assicurato. Avrebbe almeno dovuto rimanere con loro, per provare a fare da mediatore.
Del resto, Lexa sa, ormai da anni, che l’unica persona di cui può fidarsi è se stessa. La sua terapista diceva che ha problemi di fiducia e Lexa sa che è vero, non ha assolutamente problemi ad ammetterlo. Non quando, affidandosi ad altri che a se stessa, ottiene un risultato diverso da quello sperato.
Clarke è stesa sul letto, quando Lexa entra nella stanza. Sta canticchiando tra sé e sé una canzone che Lexa non conosce.
«Che cosa hai fatto?» sbotta Lexa, senza riuscire a controllarsi. Sente il sangue affluire al viso.
Clarke si tira a sedere e le lancia un sorrisetto sbieco. «Mi ha provocato.»
«Stava provando ad aiutarti!» fa notare Lexa, «E il cielo sa quanto quell’uomo non sia disponibile ad aiutare nessuno.»
Clarke corruga le sopracciglia: «Era un chirurgo. Il suo lavoro era aiutare le persone» dice.
Lexa rimane spiazzata da questa affermazione. Non aveva mai pensato a Strange in questi termini.
«Allora lascia che ti aiuti» riesce a dire alla fine, obbligando la voce ad uscire.
Clarke manda una risata che sembra uno sbuffo. «Senti chi parla» mormora.

Lexa decide di affiancare a Clarke l’agente Harmon, sperando che il temperamento deciso ma allo stesso tempo comprensivo della ragazza riescano a sbloccare la situazione. Questa volta, rimane nella stessa stanza con loro, durante l’addestramento. Clarke e Niylah sono sedute sul letto nella cella di Clarke, l’una di fronte all’altra.
«Okay, Clarke, ho bisogno che tu mi dica esattamente che cosa hai sentito, quando c’è stato l’incidente del Lincoln Memorial» dice Niylah, guardando negli occhi Clarke.
Incidente. Nessuno, parlando di quello che è successo al Lincoln Memorial, ha mai usato questa parola. Hanno parlato di attentato, esplosione, distruzione, ma mai di incidente. Questa parola toglie molte responsabilità dalle spalle di Clarke.
Forse è per questo che la ragazza sorride, incoraggiata, e parla con quella sconosciuta.
«Non ricordo molto. È stato tutto così veloce che non ho avuto nemmeno il tempo di capire che fosse successo» spiega Clarke. Lo sguardo scuro di Niylah la spinge a continuare. «Ricordo solo un brivido. Partiva dalla base della colonna vertebrale e si spandeva in tutto il corpo. Poi ricordo di essermi svegliata in ospedale.»
L’agente Harmon annuisce. «Sei stata colpita in testa da un frammento di pietra e sei svenuta» spiega.
«Un brivido, dici?» si intromette Lexa, avvicinandosi alla cella.
Niylah la guarda e sorride leggermente: «Scusa, agente Woods, ti dispiace se mi occupo io di questo?»
Lexa rimane a guardarla, le labbra socchiuse per lo stupore. Nessuno le dice cosa fare, tanto meno una novellina come Niylah. «Oh, no, certo» dice, invece, ritirandosi verso il fondo della stanza. È importante che lo S.H.I.E.L.D. risulti unito, almeno agli occhi della prigioniera.
Niylah allunga le mani, per prendere quelle di Clarke tra le sue. «Ora, Clarke, proveremo di nuovo a ottenere qualcosa di simile, in modo che tu possa imparare, col tempo, a controllare questo tipo di reazioni.»
Clarke annuisce, guardando la ragazza in un modo che a Lexa, che sorveglia la situazione, non piace molto.
Niylah si alza, conducendo Clarke fuori dalla cella. «Ora entreremo nella dimensione specchio» spiega. Guarda Lexa solo per un momento: l’attimo dopo, lei e Clarke sono sparite.
Passano ore, prima che le due ricompaiano. Lexa trattiene a stento il sollievo nel vederle. Ha avuto tempo per pensare, mentre aspettava che l’addestramento finisse: se capitasse qualche altro incidente, mentre lei non è presente, la colpa ricadrebbe su di lei. E sarebbe successo tutto per la sua buona fede. Forse, pensa, dovrebbe iniziare a seguire anche gli addestramenti nella dimensione specchio.
Sta per dirlo a Niylah, quando nota i suoi capelli scompigliati, il viso arrossato, gli abiti sistemati velocemente. Sposta lo sguardo su Clarke. La sta guardando con un sorriso strafottente, come se si aspettasse una sua reazione.
Prende un respiro profondo: «Spero che l’addestramento di oggi sia stato utile» dice.
«L’agente Harmon potrà tornare?» domanda Clarke, con un sorrisetto malizioso nella sua direzione.
Lexa sorride, obbligandosi a tirare le labbra verso l’alto in un’espressione quasi dolorosa. «Ma certo» dice. Sente il proprio cuore perdere un battito. «Se ti è stata d’aiuto.»

Il giorno successivo, Lexa non va a fare visita a Clarke. Si presenta nella stanza della cella solo la sera del giorno dopo.
«Mi sono annoiata» dice Clarke, sdraiata sul letto, quando Lexa entra. «Tutto il giorno da sola. Sei forse risentita di qualcosa?»
«Non dire sciocchezze, Clarke. Sono stata impegnata.» Non è una completa bugia: si è portata avanti con il lavoro arretrato e ha scoperto che Abigail Griffin, la madre di Clarke, ha intentato una causa contro lo S.H.I.E.L.D. per sequestro di persona. Ovviamente, più che spedire una lettera formale per informare che la figlia sta venendo trattata con il massimo riguardo e che queste misure sono necessarie alla sua sicurezza e a quella del mondo, non può fare molto.
«Sarà.»
Lexa rimane in silenzio per qualche secondo, cercando di recuperare la calma. «Ti senti grande, vero?» dice, alla fine. «Con i tuoi stupidi poteri. Le tue tutine attillate. Pensi di poter fare quello che vuoi.»
Clarke non risponde. Invece: «Come si chiamava?» chiede.
La domanda colpisce Lexa come una secchiata di acqua gelida. Sente un brivido correrle lungo la spina dorsale. «Cosa hai detto?» mormora.
«Ho chiesto quale fosse il suo nome.»
Insolente, come non ha mai conosciuto nessuno.
«Che cosa ne sai tu?» chiede. «Cosa vuoi saperne?»
Clarke scrolla le spalle. «Continuo a leggerlo nei tuoi pensieri. Non smetti un secondo di pensare a lei» dice in tono leggero.
«Smettila» mormora Lexa.
«Il ricordo ti fa così male che non vuoi nemmeno pensare al suo nome.»
«Smettila, non parlare di lei.»
«È per questo che non ti fidi degli altri?»
Lexa tira un pugno contro il muro: «Stai zitta!» urla. Il suo petto si alza e si abbassa velocemente.
È un bene che non debba usare lo scanner retinico anche per uscire dalla stanza. Non è sicura che funzionerebbe, con le lacrime che le riempiono gli occhi.

Il giorno dopo, Lexa trova i due agenti di guardia fuori dalla porta.
«Che cosa succede? Perché non siete dentro con la prigioniera?» domanda, alterata.
«L’agente Harmon ha detto che potevamo aspettare qui» risponde uno dei due.
«L’ha detto l’agente Harmon, eh?» ripete fra sé Lexa. Scuote il capo e si avvicina allo scanner retinico.
Quando fa irruzione nella stanza, Clarke e Niylah sono sdraiate sul letto, nella cella di Clarke, a baciarsi pigramente.
«Il suo comportamento, agente Harmon, non è per nulla professionale» incomincia Lexa, mentre la donna si mette a sedere precipitosamente, rassettandosi i vestiti.
«Sono spiacente, agente Woods, non ricapiterà» si scusa Niylah, uscendo dalla cella velocemente.
Lexa tira le labbra in un’espressione severa, mentre l’agente esce dalla porta. Quindi torna a voltarsi verso Clarke, che la sta fissando con un’espressione a metà fra il divertito e il sarcastico.
«Poco professionale, eh?» dice. Si alza dal letto ed esce dalla cella, che Niylah, uscendo, ha lasciato aperta. Lexa non sa se dovrebbe intimarle di ritornare nella cella o se, facendolo, si renderebbe ridicola.
«Clarke» prova. Ma la ragazza la sta fronteggiando, i suoi occhi blu fissi nei suoi.
«Lexa. È così che ti chiamano le persone, vero? Lexa?» chiede Clarke.
Lexa non ha il tempo di rispondere, perché le mani di Clarke corrono ad afferrarle i fianchi, tirandola verso di sé. Si ritrova ad incespicare contro il petto dell’altra, mentre le mani della ragazza viaggiano su di lei e le spostano i capelli dal viso. Il viso di Clarke è così vicino al suo.
Lexa trattiene il respiro, quando le labbra della bionda si posano morbidamente sulle sue, dischiudendole piano. Sente la lingua di Clarke solleticare la sua, esplorando la sua bocca, tracciando il contorno delle sue labbra.
Non può dire di rispondere al bacio. Ma non si tira nemmeno indietro.
Quando sente la mano di Clarke scendere lungo la sua schiena, per poi infilarsi sotto il bordo dei suoi pantaloni scuri, si stacca da lei.
«Cosa hai fatto?» mormora, gli occhi sgranati.
Clarke si passa la lingua sulle labbra. Senza rispondere, torna in cella.
«Nessuna conseguenza» dice, senza guardarla.
Lexa rimane tutta notte sveglia, nel suo letto, a ripetersi mentalmente quelle due parole.

Abigail Griffin si presenta al Triskelion con tre avvocati e tutta l’aria di voler assediare quel posto finché non le verrà concessa una visita alla figlia. È Kane a dirlo a Lexa, che si affretta verso l’entrata con tutta la dignità di un agente dello S.H.I.E.L.D. altamente addestrato quando è alla presenza della madre della ragazza con cui va a letto da qualche giorno.
Abby è una donna ferma nelle sue decisioni e minaccia personalmente Lexa, che chiede che Clarke venga portata in una stanza in cui possa parlare con la madre, sotto la supervisione di qualcuno.
Lei e Kane rimangono a guardare il colloquio da dietro un vetro.
«Come procede?» le chiede Kane.
«Non ha ancora buttato giù questo posto, il che mi pare positivo» commenta Lexa ironicamente. «E ora sappiamo che i suoi poteri hanno a che fare con il pensiero. Sono propensa a credere che, se la sua mente elabora un’immagine, la realtà intorno a lei viene plasmata, fino ad adattarsi ai suoi pensieri. Ovviamente, il processo potrebbe avere risultati violenti, come è successo a Washington.»
«Quindi quello del Lincoln Memorial potrebbe essere stato un incidente» commenta l’uomo.
Lexa annuisce: «Sono convinta si sia trattato di un incidente.»
Kane si fa pensieroso. «E tu come stai?» chiede alla fine.
Lexa scrolla le spalle. Non sa come sta, e del resto ha smesso di chiedersi da molto tempo cose di questo genere. Kane però sembra aspettare davvero una risposta ulteriore alla scrollata di spalle. Per fortuna, a salvarla c’è il timer del telefono, che le annuncia che i quindici minuti dati a Clarke e sua madre sono finiti. Chiama perciò delle guardie per scortare Clarke nuovamente in cella e conduce personalmente Abby all’ingresso.
«Sono contenta che sia stata affidata a te» dice la donna, prendendole le mani. «So che non vi fidate di lei, dei suoi poteri. Ma io mi fido di te e di quello che farai per aiutarla. E credo che anche lei si fidi di te.»
Lexa rimane a guardarla, senza sapere cosa dire. «Anche io mi fido di Clarke» mormora alla fine, pentendosi di quelle parole non appena lasciano la sua bocca.
Abby le sorride e se ne va.

«Cos’è?»
«Un regalo.»
«Per che cosa?»
«Non lo sai, Clarke? È Natale.»
Gli occhi blu di Clarke passano dal pesante libro di arte al volto di Lexa.
«Mia madre ti ha detto mi interessa la pittura?»
«L’ha detto a Kane, che ha pensato fosse importante e me l’ha riferito» precisa Lexa.
Clarke tira un angolo della bocca in un sorriso. «Non pensavo tu ti interessassi a me
Lexa sbuffa. «Lo faccio solo per l’opinione pubblica.»
«Non era Kane ad occuparsi dell’opinione pubblica, ora?»
Lexa apre la porta metallica e fa per uscire.
«Buon Natale, Lexa.»
È di nuovo la voce un po’ roca di Clarke, a fermarla.
«Buon Natale, Clarke.»

«Il problema» commenta Tony Stark, delle Stark Industries. «È che non sappiamo quanti Inumani ancora siano sparsi nel mondo, se siano a conoscenza dei propri poteri e se intendano usarli per trarne vantaggi personali.»
Lexa spegne la televisione con un gesto annoiato. Sdraiata al suo fianco, Clarke sta dormendo serenamente, del sonno profondo dei bambini. Per dimostrarle che si fida di lei, da qualche giorno ha iniziato a chiedere alle guardie di portarla nella sua camera, di sera, per poi riaffidarla a loro.
Non può dire che la loro relazione vada oltre il semplice sesso, eppure c’è qualcosa che la incuriosisce in Clarke. Qualcosa che, da anni, non ritrovava in una persona. Il pensiero – la certezza – che, se si dovesse addormentare, Clarke sarebbe ancora lì. E Clarke è, a conti fatti, una prigioniera. Ma una prigioniera che si fida di lei, che sa che tutto quello che sta facendo, lo sta facendo solo per lei. Per il suo bene, e per quello del pianeta.
Si ricorda quello che ha detto Clarke: «Nessuna conseguenza.»
È questo che prova, quando è con Clarke. Un senso di leggerezza, come se i suoi problemi non fossero reali al cento percento. L’impossibilità di un futuro, per loro, cancella immediatamente ogni scenario in cui una di loro due rimane ferita, senza neanche la necessità della dimensione specchio.
Un raggio di luce la colpisce in viso, nell’oscurità. Lexa alza lo sguardo verso l’unica finestra della sua camera. E all’improvviso, si accorge di non essere più nella sua stanza. Non conosce questo posto, ma ogni cosa, dalle pareti gialle ai disegni appesi alle pareti, dalle coperte colorate ai set di pastelli sul tavolo, urla il nome di Clarke.
La ragazza è seduta sul letto, sta sfogliando un libro, canticchiando qualcosa sottovoce. Lexa riconosce la canzone che l’ha sentita cantare qualche tempo fa, nella sua cella.
«Hai una bella voce» dice.
Clarke ride, gettando la testa all’indietro. «Non dici sul serio.»
Lexa le sorride e si avvicina a un disegno alla parete. «Questo... è bello. L’hai fatto tu?» Clarke annuisce.
Un attimo dopo è tutto finito e lei si ritrova nella sua camera da letto, con Clarke che si stiracchia di fianco a lei.
«Ti ho sognata» mormora la ragazza, la voce arrochita dal sonno.
Lexa sente il cuore accelerare nel petto, mentre chiede: «Cosa hai sognato?»
Conosce la risposta prima ancora di sentirla: «Eravamo nella mia camera da letto, a casa mia. Tu guardavi i miei disegni.»
È entrata nei sogni di Clarke.

Questa notte Clarke la porta sulla terrazza di una casa al mare. Stanotte, i sogni di Clarke saranno la loro dimensione specchio. Nessuna conseguenza, stanotte.
«Si chiamava Costia.»
Tiene la voce bassa, le sue mani tra quelle di Clarke.
«Lavoravamo insieme, ma lei prendeva spesso parte anche alle operazioni sul campo. Non abbiamo mai parlato sul lavoro; un pomeriggio ci siamo incontrate in un caffè e abbiamo bevuto qualcosa insieme. È così che abbiamo iniziato a uscire insieme.»
«Come mai è finita?»
«Non è finita.»
«Cosa?»
«Un giorno lei è andata in missione. Non doveva essere troppo pericoloso. C’erano diversi agenti altamente addestrati, con lei, qualche supereroe. Ma avevano fatto male i conti: qualcosa è andato storto e i nostri hanno bruciato un palazzo, per prendere il loro cattivo. C’era anche lei, lì dentro. Ma questo non l’hanno scritto, nei rapporti. Non hanno scritto come è morta.»
Clarke non parla. Rimane a guardarla, finché il sogno non si confonde con la realtà.
Le labbra di Lexa sanno di burrocacao, le sue mani di preghiere non ascoltate, le sue lacrime di fiducia.

«L’agente Woods ha lasciato questo incarico. Da oggi le sarà affiancato l’agente Reyes.»
Clarke si avvicina al vetro della sua cella. «Cosa?»
«Pensa che ora che si è capita l’entità dei suoi poteri, può dedicarsi ad altro. L’agente Reyes è ugualmente competente e si occuperà di sviluppare una tecnologia che tenga sotto controllo i suoi pensieri fuori da questa cella.»
«Cosa?»
«L’agente Woods ha lasciato scritto di dirle che non può succedere nulla, senza che ci siano delle conseguenze.»

«…Cosa?»

 

Sharp edges have consequences
I guess that I had to find out for myself
Sharp edges have consequences
Now every scar is a story I can tell.

 

 


Angolo della vergogna
Interruzione brusca, alla fine della storia, lo so. Ma è esattamente così che viene troncato il rapporto tra Clarke e Lexa ed è così che va la vita. Non ci sono grandi sipari, alla fine, non c’è nulla, eccetto domande a cui non possiamo dare risposta. La canzone citata all’inizio e alla fine è Sharp Edges dei Linkin Park e mi è parsa adeguata a questa storia.
Grazie se mi avete seguito fin qui e grazie alla mia beta, la stupenda SomethingWild, che ama Scarlett Johansson più di me. Se vi va, fatemi sapere cosa ve ne pare.

   
 
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