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Autore: Lady1990    21/08/2017    2 recensioni
[Questa storia è il seguito di "Nell", di cui si consiglia la lettura per un'adeguata comprensione.]
Sono trascorsi poco più di vent'anni dalla scomparsa di Ysril. Nell, dopo aver atteso invano il suo ritorno, ha lasciato la valle di Mesil e si è messo sulle sue tracce. In compagnia di Reeven, un improbabile ladro che somiglia in modo inquietante al suo amato demone, e altri compagni, dovrà scoprire cosa è successo a Ysril e salvarlo da una minaccia ancor più grande della guerra che incombe sul mondo intero. E se una strega arriva a complicare le cose, la missione non si profila certo una passeggiata.
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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In un attimo furono su di loro. Tre demoni attraversarono le sbarre tranquillamente e atterrarono con grazia sul pavimento della cella, ghigni derisori a curvar loro le labbra. Reeven agì d’istinto e si frappose subito tra i nuovi arrivati e Nell, i sensi all’erta e la salivazione a mille per la sete di sangue che gli stava ottenebrando il cervello.
Nell, benché teso per essere stato colto alla sprovvista, non badò al gesto del figlio e si sporse di lato per vedere meglio. Si meravigliò nel constatare il loro aspetto umanoide, simile a quello di Reeven. Dopodiché, gli occorse un istante per comprendere che erano ibridi. Uno aveva la pelle grigio scuro, i capelli bianchi e all’apparenza morbidi tagliati corti, due piccole corna nere sulla testa, zanne affilate, occhi rossi e lunghe dita complete di artigli. Un altro sembrava un ragazzino, i capelli biondi corti, un solo corno ricurvo in mezzo alla testa, la pelle lattea, gli occhi rossi e le zanne. Al contrario dei due compagni, aveva una coda da rettile, due zampe al posto delle gambe e gli avambracci e le mani ricoperti di squame dure e cangianti. Il terzo era più alto, non aveva coda né corna, i capelli erano neri come la notte, lunghi e serici, adagiati sulle spalle ampie, e aveva tre cicatrici parallele sulla guancia sinistra. Le labbra e le zanne erano nere, l’incarnato cadaverico e sei occhi dalla forma allungata, rossi come il sangue, erano incastonati nella fronte. Tutti e tre indossavano un gonnellino semplice, tenuto su da una cintura o una catenella, e sulla schiena, legate in foderi di cuoio, portavano ognuno un’arma differente: il primo uno spadone a due mani, il secondo due martelli e il terzo una lancia. 
Nell notò poi che quello che pareva un ragazzino aveva anche una frusta appesa alla cintura, con delle rune magiche incise sopra.
“Ma guarda un po’ chi abbiamo qui.” cantilenò l’ibrido con la pelle scura, le mani sui fianchi e una finta aria di rimprovero, “Volevate scappare, eh? Peccato che sia impossibile.”
“Ysril, ti vedo in forma.” commentò quello biondo con palese scherno.
Ysril ringhiò e si dimenò, ma le catene resistettero.
“Non c’è motivo di scaldarsi, siamo venuti a portarvi via.”
“In che senso?” indagò Nell.
“La cerimonia non si svolgerà qui, ovviamente.” rispose il primo ibrido, fissandolo come se dubitasse della sua sanità mentale, ma poi si distrasse, “Oh, Reeven, fratello, che piacere conoscerti!”
“Il piacere è tutto tuo.” borbottò funereo Reeven, sospingendo Nell verso il muro.
“Ah, che maleducati, non ci siamo nemmeno presentati. Io sono Destar, il biondo è Murne e quello taciturno è Ogher. Saremo le vostre guardie del corpo fino alla cerimonia, ci è stato ordinato di prepararvi.”
“Ciao, Nell!” salutò Murne con un sorriso allegro, sventolando una mano squamosa.
“Ehm… ciao.” ricambiò l’interpellato, vagamente spaesato.
“Ora vi liberiamo e vi portiamo su. Non tentate di ribellarvi, non tentate di fuggire. Insomma, comportatevi bene.” disse Destar, stavolta in tono serio.
“Perché hanno mandato voi e non dei veri demoni?” domandò curioso Nell, affacciandosi di più da dietro Reeven, che si era impuntato a fargli da scudo.
“Perché gli ibridi, come è risaputo, sono tre volte più forti.” intervenne Ogher, parlando per la prima volta, la bocca contorta in un ghigno inquietante.
La sua voce era baritonale ma melodiosa, del tutto inaspettata, tanto che Nell rabbrividì di piacere.
“Inoltre, siamo stati addestrati a resistere ai più potenti incantesimi, quindi la tua magia, Nell, non ti sarà di alcun aiuto.” proseguì Destar, “Non che ci sia bisogno di chissà quale tipo di resistenza, pensandoci. Senza offesa. Sarai anche il più forte stregone mai esistito, ma devi ancora uscire dal bozzolo. Ne hai di strada da fare prima di sperare di poterci sottomettere.”
Ysril ringhiò minaccioso e tirò le catene gonfiando i muscoli.
“Ysril, a cuccia, su. Non fare il cattivo.” chiocciò Murne in un broncio che, su un ragazzino normale, sarebbe apparso adorabile, “Non temere, tu e la tua famiglia verrete trattati bene. Adesso, promettete di non compiere azioni stupide che potrebbero condurre alla vostra morte prematura?”
Reeven sbuffò una risata e roteò gli occhi: “Certo, nei tuoi so-”
Nell gli affibbiò una gomitata nelle costole, scivolò davanti a lui e squadrò i tre ibridi con quella che sperava fosse una postura decisa.
“Verremo, a patto che giuriate di non torcerci un capello.”
“Giurin giurello! Croce sul cuore.” 
Klheis.” sibilò Ysril.
“Non abbiamo alternative.” lo blandì il marito.
“Giusta osservazione.” considerò Destar grattandosi il mento.
Murne si mosse in fretta, troppo in fretta perché potessero accorgersene. Nell si ritrovò con la frusta avvolta intorno al collo come un collare, stretto e fastidioso. Le rune brillarono e la frusta si serrò ancora di più in risposta al vano tentativo del ragazzo di liberarsi. Reeven aprì la bocca per ruggire, ma la frusta, in qualche modo, si allungò e serpeggiò nell’aria animata di vita propria, strisciando sulle sue spalle per riprodurre la restrizione sul collo di Nell. 
Prima che se ne rendessero conto, entrambi si scoprirono in ginocchio sulla nuda pietra, boccheggianti, il respiro strozzato e le labbra schiuse per incamerare disperatamente ossigeno.
Le pareti della cella tremarono quando Ysril ruggì tutta la sua rabbia.
“Avevate promesso che non gli avreste torto un capello!”
“Siamo demoni, la menzogna fa parte della nostra natura. Non puoi biasimarci.” lo rimbeccò Murne, divertendosi a brandire la frusta dall’altra estremità per torturare i due prigionieri, che annasparono e gemettero a causa della pressione sulla gola.
“Lasciali! Ora! O te ne pentirai.”
Gli ibridi si irrigidirono e una scossa elettrica attraversò le loro ossa. Tuttavia, non si piegarono. 
Murne sbuffò e allentò la stretta sul collo di Nell e Reeven, permettendo loro di tornare a respirare in maniera normale.
“Calmati, Ysril. Ci servite vivi. Questo non è che un gioco, non vi faremmo davvero del male. È la verità. Se ti può rassicurare, la regina ci ha ordinato esplicitamente di non ferirvi, mutilarvi o uccidervi, quindi siete sotto una campana di vetro.” sorrise Destar, cercando di apparire incoraggiante.
Nell tossì con veemenza, il corpo scosso da singhiozzi e singulti. Reeven gli cinse protettivo il busto e se lo mise a sedere sulle ginocchia, avviluppandolo in una bolla di calore mentre dava le spalle agli ibridi per fungere di nuovo da scudo. Nell si aggrappò a lui come se fosse la sua ancora di salvezza e provò a rilassarsi, cosa per niente semplice perché la frusta era ancora avvolta attorno al collo, minacciando di strangolarlo da un momento all’altro.
“Che dolci. Su, in piedi.” 
Murne diede uno strattone, le rune si accesero e Reeven e Nell vennero obbligati ad alzarsi. 
Ogher si avvicinò a Ysril, ruppe le serrature delle catene e in un secondo lui e Destar placcarono il demone per impedirgli di scappare. Ysril lottò feroce, ma era stanco e debole e gli ibridi ebbero la meglio dopo nemmeno un minuto. La frusta di Murne mulinò e scattò a serrarsi pure sulla sua gola, spedendogli fitte di agonia in tutto il corpo. Venne fatto alzare e condotto davanti a Nell e Reeven, in fila indiana, e nessuno parlò più. Il tempo delle chiacchiere era finito.
Destar e Ogher saltarono agili fuori dalla cella oltrepassando la grata, e una volta fuori la aprirono. Murne compì un balzo e nello slancio tirò i prigionieri con sé tramite la frusta, che si avvolse più stretta logorando la loro pelle. Planarono sul pavimento alla base della voragine e persero l’equilibrio cadendo uno sopra l’altro. I loro carcerieri non esitarono a sospingerli di nuovo in piedi e trascinarli verso il muro, dove dal nulla apparve un tunnel immerso nell’oscurità.
Camminarono in silenzio per quelle che parvero ore e alla fine sbucarono in un’altra stanza circolare illuminata da torce e candele. Al centro c’erano tre piccoli bauli. 
Nell, Ysril e Reeven vennero scortati ognuno di fronte a un baule e gli ibridi si accinsero a spogliarli dei loro abiti, lasciandoli nudi. Si chinarono per aprire i bauli ed estrassero una tunica ciascuno, bianca, con rune diverse disegnate sopra con quello che sembrava sangue, a giudicare dall’odore. 
Nell storse il naso, ma rimase fermo, il cervello bloccato su terribili reminescenze date dalla sensazione di asfissia provocata dalla frusta, assicurata alle sue carni martoriate come un anello d’accaio. Non sentiva nemmeno il freddo, non provava vergogna per la propria nudità e l’angoscia per ciò che stava per accadere non era che un pungolo sordo in fondo alla coscienza. La sola cosa a cui riusciva a pensare era l’ossigeno, prezioso ossigeno che gli riempiva i polmoni. 
Vennero rivestiti con attenzione, gli ibridi attenti a non creare contatto diretto se non quando necessario. Non appena finirono di indossare le tuniche, la loro pelle iniziò a bruciare. Nell emise un rantolo e si piegò in due, le ginocchia cedettero e gli occhi si inumidirono. Similmente reagirono Ysril e Reeven, ma invece di gemere ringhiarono frustrati e schioccarono le zanne, le iridi ardenti e piene di rabbia. La stoffa della tunica si consumò per qualche strano effetto magico e le rune marchiarono l’epidermide in modo indelebile, appiccando un incendio nei loro organi che azzerò la loro forza combattiva.
Da quel momento in poi fu come assistere da lontano, consapevoli di quanto accadeva ma incapaci di partecipare. Era come trovarsi intrappolati in uno stato di dormiveglia forzato. 
Ormai sottomessi alla magia delle rune, gli ibridi si rilassarono e si mossero in maniera quasi più gentile, affaccendandosi attorno a loro con solerzia e aria tranquilla. A Nell fecero indossare una collana di ossidiana, a Ysril infilarono due bracciali di diaspro rosso e a Reeven misero una corona di quarzi sulla testa, incastrandola fra le corna così che non cadesse.
A quel punto un canto risuonò nell’aria e, come burattini, i prigionieri si alzarono seguendo il richiamo, mentre una foschia calava sui loro occhi precipitandoli nel buio. Il canto continuò, si levò alto e subito dopo si abbassò in un mero sussurro, creando una melodia ipnotica e assuefante. Via via che si avvicinavano alla meta, crebbe d’intensità e quando uscirono all’aperto, le loro membra vennero sferzate da violente raffiche di vento caldo. Allora il mondo si annullò del tutto e piombarono in un sonno profondo. 

Nell riemerse dall’oblio a singhiozzi, come se non fosse sicuro di volerlo davvero. Alla fine, però, qualcosa decise per lui e i suoi occhi riacquisirono una scintilla di vita, solo per sgranarsi e fissare con orrore il paesaggio circostante. 
Dapprima mise a fuoco il cielo plumbeo, poi registrò le cime frastagliate delle montagne e infine la sua attenzione si rivolse sui dettagli più vicini. Impallidì e si pietrificò, il battito del cuore nelle orecchie e un ronzio costante nella testa.
Lui, Ysril e Reeven erano nudi, legati a dei pali, il legno a contatto con la schiena, su una piattaforma triangolare che aggettava sulla bocca di un vulcano, sospesa nel vuoto. Il calore era quasi insopportabile, vampate ustionanti che gli scaldavano l’epidermide in un modo tutt’altro che piacevole, e la lava scorreva sotto di loro in un lago di fuoco. Lo stomaco annodato dalla paura, si divincolò dando fondo ad ogni stilla di energia, ma le corde erano state legate bene e non cedettero di un millimetro. Occhieggiò in direzione di Ysril e lo vide privo di sensi alla sua destra, mentre Reeven grugniva e mugugnava alla sua sinistra, in procinto di svegliarsi.
Guardò le rune impresse sul proprio stomaco, simboli sconosciuti che per ora non davano fastidio, tranne che per un leggero prurito dato dalla pelle infiammata. Anche Reeven e Ysril le avevano, seppur diverse.
In quel preciso istante, quando ormai stava per abbandonarsi al panico, due figure scivolarono sulla piattaforma da una passerella. Una era familiare, l’altra no.
La Sylmaran e la regina dei demoni li raggiunsero sfoggiando ghigni gemelli e si fermarono al centro del triangolo, squadrandoli con vivo interesse.
“Cosa ne pensi, Kunaar?” domandò divertita la vecchia strega.
“Mmm. Perfetti.” sibilò tra le zanne con voce suadente, leccandosi le labbra carnose con la lingua biforcuta.
La Sylmaran sbirciò con la coda dell’occhio il profilo della regina, i tratti umani del viso, il seno prosperoso, nudo e pieno, il ventre vagamente rotondo, morbido e fertile, le cosce forti, fino alle zampe di drago che partivano da sopra le ginocchia, con lunghi artigli neri e affilati come quelli delle mani. Poi risalì sui fianchi larghi, cinti da una veste composta dalle ossa dei suoi nemici e dai capelli donati dagli ibridi nel corso dei millenni in segno di fedeltà, e più su, sulla gola adornata da una collana d’oro avvolta più volte su se stessa e sulla catenella intrecciata nelle lunghe e grosse corna che svettavano sopra la sua testa, spesse alla base e sottili in cima, costellate da decine di spine che rilucevano dei colori dell’arcobaleno. Gli occhi erano completamente neri e non aveva sopracciglia, ma la bellezza del suo volto era da togliere il fiato.
Abbracciò con lo sguardo il panorama e si rammaricò che le sue figlie non fossero presenti per il grande evento. Nemmeno Noara avrebbe potuto esserci, la Sylmaran l’aveva messa a dormire per permetterle di ricaricare le energie. La giovane strega aveva opposto resistenza, blaterando qualcosa su una vendetta contro Ysril, che l’aveva ingannata e ferita, ma la più anziana l’aveva calmata e sedata, ripetendole che era per il suo bene.
Raddrizzò la schiena, scrocchiò le spalle e trasse un respiro profondo, agganciando la magia alla terra e al vulcano.
“Siamo pronti.” disse sbattendo il bastone sulla pietra cosparsa di rune e il suono secco si propagò dappertutto assieme a un coro di acclamazioni.
Nell fece saettare il capo da una parte all’altra in cerca della fonte del frastuono, ma non scorse alcun essere vivente. Dovevano trovarsi sotto la piattaforma o dietro di lui.
Reeven scelse di destarsi pochi secondi più tardi. Ruggì, si divincolò e ringhiò frustrato quando si accorse della situazione pericolosa in cui versavano. Quando però tutti i suoi tentativi di liberarsi fallirono, si afflosciò e scoccò un’occhiata dispiaciuta a Nell, che ricambiò con un sorriso triste. 
Ysril era ancora nel mondo dei sogni. Da un lato, Nell si augurò che ci rimanesse, così non sarebbe stato costretto a vederli morire.
La Sylmaran non si prodigò in alcun discorso finale, passò direttamente al dunque pronunciando con voce stentorea l’incantesimo. L’aria si riempì di elettricità e il cielo si oscurò.
A Nell si serrò la gola e avvertì lo stomaco precipitare sottoterra. Non avrebbe potuto dire addio a Ysril. Non lo aveva neanche baciato da quando si erano riuniti. Non un abbraccio, non una carezza. Non era così che doveva andare. Non era per questo che aveva sofferto, che aveva sacrificato se stesso. Voleva più tempo, credeva di meritarselo dopo tutto ciò che aveva passato. Non era pronto.
Non voglio, non voglio!
Le rune sullo stomaco bruciarono con vigore, dilaniandogli gli intestini, e lo fecero urlare a pieni polmoni. Le guance adesso erano rigate di lacrime e l’incarnato spettrale, le occhiaie due mezzelune violacee e marcate e le labbra due petali sottili e rinsecchiti.
La strega levò il bastone e lo batté tre volte, attivando le rune sulla piattaforma, che brillarono sotto i piedi dei prigionieri. Parole che Nell non riuscì a comprendere, poiché la sua mente era avvolta da una foschia soffocante e dolorosa, rotolarono fuori dalle labbra della donna in un flusso soave ma solenne, mentre la sua voce gli rimbombava nel cervello e serpeggiava lungo il suo corpo, radicandosi nelle rune sullo stomaco, che arsero, se possibile, ancora di più e strapparono un altro grido agonizzante al ragazzo.
Da lontano, Nell colse i gemiti strozzati di Reeven e, dopo poco, pure Ysril si unì a loro, rovesciando il capo indietro, lo sguardo rivolto verso il cielo, e ruggendo come mai aveva fatto.
La lava del vulcano ribollì con spruzzi incandescenti e la temperatura aumentò fino a far sfrigolare la loro pelle. 
“Accettate di offrirvi in sacrificio per risvegliare Xion?” declamò la Sylmaran.
Reeven urlò disperato fino a raschiare la gola: “Sì! Sì! Ma fallo smettere! Ti prego, fallo smettere!”
Ysril esalò un gemito roco e fece eco al figlio ripetendo la supplica, il dolore talmente violento da farlo contorcere come un’anguilla e condurlo sull’orlo del baratro della follia.
“Nell?” lo invitò la vecchia, fissandolo con impazienza.
Nell sapeva di dover essere forte, di dover lottare fino allo stremo. Era tutto nelle sue mani adesso. Eppure faticava a racimolare le energie, si sentiva debole, fiacco, a un passo dalla fossa. Si sentiva impotente, stanco nello spirito, affranto e prossimo alla resa. Voleva arrendersi. Non poteva più sopportare il dolore, era troppo, il suo corpo era al limite. Forse Reeven e Ysril sarebbero sopravvissuti, ma lui no. Ne aveva la certezza, era un presentimento così chiaro che per un attimo la foschia si diradò, permettendogli di pensare lucidamente. Gli andava bene morire. Non era poi così male. Tutti morivano, era il destino comune a ogni essere vivente. Lo si poteva ritardare, rifuggire, ma alla fine tutti lo abbracciavano, volenti o nolenti. Non c’era da aver paura. Non era pronto, ma a questo punto cosa poteva farci? Andava bene. Sarebbe andato tutto bene. Le sue pene sarebbero cessate, almeno. 
Chiuse gli occhi, inspirò, espirò e smise di ribellarsi. Il bruciore diminuì d’intensità, dando alle sue povere membra un po’ di sollievo. 
Inspirò ed espirò, il battito del cuore regolare.
Inspirò ed espirò, mentre le lacrime si arrestavano e i muscoli si rilassavano.
Inspirò ed espirò, sempre più lentamente, più profondamente.
Inspirò ed espirò, e i contorni di uno scrigno privo di serratura si delinearono nella sua immaginazione.
Sono pronto.
Lo scrigno si aprì.
Nelle tenebre della sua anima una scintilla rinacque a nuova vita. In principio timida e tenue, crebbe e crebbe e in un istante, nel silenzio, esplose, sovrastando il boato assordante che si riverberò dal vulcano.

La furia della battaglia non faceva che aumentare di secondo in secondo, mentre il cielo si colorava di grigio e nero e dei tuoni risuonavano in lontananza. Non v’erano più alleati o nemici, tutto d’un tratto era diventata una lotta per la sopravvivenza, dove il più lesto e scaltro poteva mandare al tappeto persino il più esperto dei veterani. Era fondamentale possedere prontezza di riflessi e agilità con l’arma scelta, poco importava l’età o il numero di guerre combattute o il nome del maestro con cui ci si era allenati. 
Una distesa di cadaveri ricopriva il terreno e le mura, lasciati a marcire. Il suolo e la pietra erano impregnati di sangue e l’odore di morte veniva trasportato dal vento ovunque, tra gli alberi che circondavano Dun’har e tra le vie della città stessa, ora deserte. Le case erano vuote, le botteghe abbandonate, i rifiuti sparpagliati sul selciato, i carri rotti in mezzo alle strade e i corvi, interi stormi, intenti a banchettare con ciò che più gradivano.
Qolton, Phyroe e Utros si accostarono da ovest, coperti dalla vegetazione. I loro abiti presentavano scuciture e strappi, oltre che essere praticamente inzuppati di rosso fluido vitale. Anche le armi grondavano sangue sull’erba soffice in prossimità dei loro stivali, disegnando una scia che dalla boscaglia conduceva fino alla loro attuale posizione. Non vi badarono, impegnati com’erano a uccidere chiunque incrociassero e proseguire in linea retta verso la meta. Avevano attraversato quasi metà della foresta menando fendenti, sparando dardi, squarciando gole e lanciando fiale di acido, e per il momento ne erano usciti pressoché indenni, eccetto qualche graffio superficiale. 
Qolton aveva perso la sua borsa durante uno scontro con due soldati di Teruyn, uno più grosso dell’altro, e poi era stato troppo occupato a darsi alla fuga con un’altra dozzina di uomini alle calcagna per pensare di fermarsi a raccoglierla. Non che dentro ci fossero chissà quali tesori, ma essere spogliato dei pochi beni che aveva guadagnato con tanto sforzo non era mai piacevole.
Giunsero ai piedi delle mura della città e studiarono la pietra con cipiglio critico. Avevano deciso di tentare e intrufolarsi a Dun’har nella speranza di ricongiungersi a Reeven, dato che non sembrava trovarsi sul campo di battaglia nella mischia. Tuttavia, l’impresa poteva rivelarsi ostica considerando la struttura delle mura, elaborata apposta per impedire di arrampicarsi. Era possibile creare una breccia, certo, ma avrebbero avuto bisogno di macchine di cui adesso non disponevano.
“Andiamo verso nord, al confine con i monti Lerisa. Le mura finiscono poco prima, e a quel punto dovremo solo preoccuparci delle guardie appostate intorno al palazzo reale. Con un po’ di fortuna, passeremo inosservati.” disse Qolton cominciando a incamminarsi, e gli altri due lo seguirono senza protestare.
Come si aspettavano, riuscirono a valicare i confini della città e intrufolarsi all’interno senza farsi notare dalle guardie. Restarono nell’ombra, avanzando a passi felpati, gli occhi che saettavano ripetutamente dagli uomini di ronda al ponte levatoio. Si bloccarono in un andito nascosto per escogitare un piano, ma alla fine appurarono che l’unico modo per raggiungere la sponda opposta era correre più veloci di un fulmine. Senza dubbio sarebbe scattato l’allarme e le guardie si sarebbero precipitate a dar loro la caccia, ma almeno avrebbero frapposto un bel po’ di spazio tra loro e i nemici prima che quelli avessero anche solo il tempo di reagire e capire cosa stava succedendo.
Si prepararono a mettere in pratica il piano, ognuno al suo posto, quando all’improvviso qualcosa richiamò l’attenzione di Qolton. Alzò lo sguardo, percorrendo le linee della pietra, le forme dei balconi, le finestre, fino a soffermarsi su un terrazzo, dove un uomo pallido e magro con la testa tatuata osservava il massacro fuori dalle mura, le braccia sollevate, i palmi iridescenti e gli occhi due biglie di un blu cupo e sinistro. Il respiro gli si mozzò in gola e le viscere si contrassero per qualche secondo, in risposta a un istinto animale che gli gridava a gran voce di darsela a gambe subito.
“Qolton!” sussurrò Phyroe in tono urgente, “Che stai facendo? Forza, andiamo!”
Utros seguì la direzione dello sguardo dell’amico e si pietrificò pure lui, gli occhi sgranati e la bocca socchiusa.
“Utros! Che vi succede, ragazzi?”
“Lassù.” soffiò Utros, incapace di guardare altrove, come se mani invisibili gli tenessero paralizzati i muscoli.
La ragazza inspirò sonoramente, le viscere artigliate da una sensazione indefinita e potente, simile al terrore: “Chi è?”
“Non lo so.” rispose Qolton, “Ma chiunque sia, scommetto che la colpa di questo tafferuglio è sua.”
“Normalmente ti prenderei in giro per l’uso della parola ‘tafferuglio’, nemmeno tu avessi ottant’anni, ma sono d’accordo.” commentò Utros, “È chiaro che sta usando la magia. Uno stregone, quindi. Che facciamo?”
Qolton si morse il labbro inferiore, indeciso. Un minuto più tardi sbuffò, scrollò le spalle e raddrizzò la schiena.
“Cogliamolo di sorpresa ed eliminiamolo dal quadro. Magari i soldati rinsaviranno.”
“Vuoi attaccare uno stregone?! Sei pazzo? Non abbiamo alcuna possibilità!” si oppose Phyroe.
“O lo togliamo di mezzo, o aspettiamo che l’ultimo uomo sia morto e lui cerchi altri bersagli. Non sappiamo neanche se Reeven sia davvero qui. Potremmo aiutare i superstiti se ci occupiamo della minaccia primaria.”
“Qolton, non è una mossa saggia.” intervenne Utros.
“Sì, è stupido e avventato, grazie tante. Ma che altre chance abbiamo? Metti che riusciamo ad attraversare il ponte e raggiungere il centro città, e poi? Cosa facciamo se ci imbattiamo nelle guardie? Cosa facciamo se Reeven non è da nessuna parte? Cosa facciamo se i soldati buttano giù i cancelli e penetrano dentro le mura? Se dietro tutta la follia in cui siamo incappati lungo la strada c’è quello stregone, eliminarlo è la cosa più logica. Tolto lui, la magia dovrebbe esaurirsi.”
“E se non accade? E se ce ne sono altri?”
“Allora restiamo qui a lambiccarci il cervello e a rigirarci i pollici!” sbottò spazientito Qolton.
“Potremmo sempre…” iniziò Utros, spostando il peso da un piede all’altro nervoso, occhieggiando il perimetro per controllare che non ci fosse nessuno nei paraggi.
“Cosa?”
“Beh, ecco… non prenderla male, è solo un’idea. Dico che potremmo semplicemente lasciarci tutto alle spalle e dirigerci a Durandel sul serio. L’avevamo buttata lì come pretesto per accodarci a Reeven, ma potremmo trasformarla in realtà.”
Phyroe assunse un’espressione seria e assorta, valutando la proposta, mentre Qolton si irrigidì e contrasse i lineamenti del viso in una maschera di freddezza che rare volte i compagni avevano scorto, di sicuro mai diretta verso di loro.
“Voi due fate come più vi aggrada. Se volete comportarvi da vigliacchi, chi sono io per impedirvelo?” masticò tra i denti, le braccia conserte e i pugni stretti.
“Qolton, non fare così! Non siamo eroi, siamo ladri. Il coraggio non è la nostra punta di diamante. Se qualcosa va storto, tagliamo la corda, è così che funziona. Attaccare uno stregone armati di cerbottana o veleni o coltelli è da idioti! Tanto vale gettarsi nella mischia là fuori.” ragionò Utros, sentendo montare l’ansia ad ogni parola che si costringeva a pronunciare, “Non c’è tempo! Forse Reeven è nascosto qui, da qualche parte, insieme a Nell e se vuoi andremo insieme a cercarlo, ma non rischierò la mia vita per giocare a fare l’eroe, non per gente che non conosco e di cui non mi importa un fico secco! Se non lo hai notato, siamo in tre! È già un miracolo se siamo arrivati fino a questo punto quasi illesi e sani di mente.”
“Non si tratta di giocare a fare l’eroe, quanto di fare la cosa giusta.” replicò pacato il moro, comprendendo la paura dell’amico, “Sono terrorizzato anch’io, non voglio morire e ti assicuro che, se Reeven non fosse parte della famiglia, lo abbandonerei senza pensarci due volte. Ma lo è e noi abbiamo l’obbligo di tentare. Io lo farei per voi e voi per me. Reeven, anche se è un cretino, non merita di essere abbandonato. Nessuno di noi lo merita. Perciò tiriamoci due schiaffi, raccogliamo tutto il poco coraggio di cui disponiamo e andiamo ad occuparci della causa di tutti mali. Non per nutrire il nostro ego e divenire famosi, ma perché è giusto, perché qualcuno deve farlo. E se periremo provando, almeno non mi sentirò più una patetica scusa di uomo.” mormorò amaro. 
Gli occhi di Phyroe si inumidirono, le membra attraversate da brividi e lo stomaco annodato in preda all’angoscia: “È così stupido… moriremo, lo sai che moriremo.”
Ciononostante impugnò i coltelli, deglutì e si affiancò a Qolton. 
“Dannazione, Qolton! Dannazione!” sibilò Utros, scacciando le lacrime con un gesto secco e rinsaldando la presa sulla cerbottana, “Reeven la pagherà quando lo avremo portato in salvo.”
Qolton stirò le labbra in un sorriso e posò le mani sulle spalle dei due compagni, grato del loro supporto.
“Che gli dei ci assistano e veglino su di noi, che le loro mani guidino le nostre e che la vita che ci hanno donato non vada sprecata.” dichiarò solenne, sebbene la voce gli vacillasse e la fronte fosse imperlata di sudore, “Andiamo, il tempo scorre. Dobbiamo arrivare al terrazzo senza farci beccare o l’effetto sorpresa verrà rovinato, e allora davvero non avremo speranze.” li esortò, per poi retrocedere in un corridoio laterale e tuffarsi nell’oscurità.
Sgattaiolarono per il palazzo inosservati, cercando di raccapezzarsi sulla direzione da prendere. Quando entrarono per caso nell’armeria, provarono un senso di realizzazione. Sarà stato per la vista di tutte quelle armi o per il fatto di averle a disposizione, ma si sentirono d’un tratto rinvigoriti e determinati. Fecero incetta di coltelli, perché più maneggevoli, e Utros si appropriò anche di una spada corta. 
Qolton ispezionò la stanza, camminando per gli stretti corridoi di lance e scudi mentre ne verificava l’utilità, finché l’occhio non gli cadde su una teca di vetro a ridosso di un muro, sotto l’effige di un re in groppa al suo destriero di fronte a un’orda di mostri grotteschi. All’interno era conservata una spada di pregevole fattura, con l’elsa lavorata nell’argento e in una pietra di colore rosso, la guardia in oro e la lama di uno strano materiale che, alla luce del tramonto, rifulgeva di bagliori sanguigni. 
Aprì la teca e sfiorò con i polpastrelli il metallo, studiando l’arma con aria reverenziale. Qualcosa gli suggeriva che non era una spada normale, altrimenti non sarebbe stata conservata lì alla stregua di una reliquia sacra. La impugnò cauto e nel medesimo istante avvertì una sensazione di sicurezza, come un mantello caldo, che lo avvolse trasmettendogli grinta e audacia. In qualche modo seppe che fino a quando avesse avuto quella spada vicino, nella sua mano, il male non lo avrebbe toccato. Richiuse la teca e tornò da Utros e Phyroe, che lo aspettavano sulla soglia, e insieme uscirono dall’armeria.

Andorev trasse un respiro profondo e incanalò altra energia, spedendola nei corpi e nelle menti dei soldati fuori dalla città. Dire che fosse euforico era un mero eufemismo. Sprizzava di eccitazione alla vista dei corpi disseminati sulla pianura, del fuoco che lambiva i carri, e gioiva all’udire le grida degli uomini e i nitriti disperati dei cavalli. Una volta fatta strage degli eserciti radunati davanti a Dun’har, si sarebbe occupato degli abitanti della città, spazzandoli via come cenere al vento. Dopodiché, sarebbe passato alla città più vicina e poi quella dopo, radendole al suolo fino all’ultimo sassolino. Infine si sarebbe fatto da parte per la venuta di Xion, lasciando che distruggesse il resto e sfogasse tutta la sua furia. Avrebbe assistito allo spettacolo seduto al posto d’onore, al fianco degli eletti che avrebbero in futuro ripopolato la terra. 
Sentiva una sete insaziabile di sangue, non era mai abbastanza. Un po’ lo inquietava, ma l’energia che fluiva dentro di lui era una forza inarrestabile e inebriante, tanto che era praticamente impossibile non desiderare di seguirne la corrente. Il potere pulsava nelle sue vene, pompando al ritmo del cuore e riversandosi nei suoi palmi, e i suoi muscoli bruciavano come se vi avessero appiccato un incendio.
Ghignò e spedì un’altra ondata verso il guazzabuglio di corpi in movimento all’orizzonte, guardandoli scannarsi a vicenda in preda a un impeto primitivo. Alcuni, nella foga, non si accorgevano neanche delle proprie ferite, continuando a incalzare gli avversari con gli intestini ciondolanti e le ossa rotte. Era esilarante.
Si preparò a racimolare ulteriore energia per scagliare l’ennesimo colpo, quando all’improvviso un dolore atroce scoppiò nel suo sterno. Boccheggiò e l’energia singhiozzò. Abbassò lo sguardo e fissò confuso la lama di una spada. Una spada che gli trapassava il petto e riluceva di una luce rossastra, non per il sangue ma per il diaspro con cui era stata forgiata. 
È… è la Mietitrice!
La Mietitrice, la leggendaria spada brandita da Terallian III nella battaglia di Lerisa, combattuta contro i demoni cinque secoli prima. Nessuno l’aveva più impugnata dopo di lui, convinti che contenesse il suo spirito. Si diceva che fosse in grado di uccidere qualsiasi creatura maligna. 
Andorev sgranò gli occhi, percependo il potere diminuire esponenzialmente, assorbito e annullato dal diaspro disciolto nel metallo. Digrignò i denti e afferrò la lama nella mano destra, incurante delle stilettate di dolore che esplosero sulla sua pelle. Con uno sbuffo irritato torse il polso e si voltò, reprimendo a stento un grugnito. 
Un uomo alto e grosso, dalla pelle nera e gli occhi di pece, lo guardò spaventato, ma non si mosse. Dietro di lui, una donna e un altro uomo attendevano il momento opportuno per sferrare l’attacco decisivo, lei con un fiala nel pugno e lui con una cerbottana di fronte al viso.
Le iridi di Andorev brillarono d’ira. Con un movimento repentino, appoggiò il palmo della sinistra sul petto del suo assalitore, incanalò l’energia e la spinse fuori, prendendolo pieno. L’onda d’urto lo scaraventò contro il muro del terrazzo e l’uomo giacque inerte, il sangue che gli colava fuori da naso, occhi, orecchie e bocca in rivoli scuri e densi.
“Qolton!” gridò la donna, correndo ad accovacciarsi accanto all’amico.
Lo stregone si agitò nel tentativo di estrarre quella maledetta spada dallo sterno, ma più la lama gli tagliava la carne più il potere defluiva dal suo corpo, indebolendolo. Grugnì di nuovo e puntò lo sguardo imbestialito sull’uomo con la cerbottana, le parole dell’incantesimo già pronte sulla punta della lingua. Ma prima che potesse pronunciarle, l’uomo si portò alle labbra la cerbottana e un attimo dopo un dardo si conficcò nella giugulare di Andorev. Il dardo era avvelenato, come capì dall’intenso bruciore che si diramò dal collo alla faccia, ma la magia lo rendeva immune e non se ne preoccupò. 
“Cosa pensavi di fare, eh?” lo sfidò ridacchiando, raccogliendo la magia nel palmo della mano.
L’uomo scoccò un altro dardo, stavolta mirando alla fronte, ma esso di infranse sullo scudo opalescente che si eresse a protezione dello stregone, circondando la sua figura con una corazza spessa e vibrante. Andorev era consapevole che non sarebbe durato molto, non con la Mietitrice che risucchiava il suo potere in maniera costante, ma era ancora forte abbastanza per contrastare la spossatezza e schiacciare quegli insetti fastidiosi.
Rivolse l’attenzione sulla ragazza e, con una leggera flessione delle dita, la scagliò dalla parte opposta del terrazzo. Regolarizzò il respiro affannato e ignorò la fitta di dolore che gli inferse la spada, focalizzato sulla minaccia incombente. Vide l’uomo e la donna scambiarsi occhiate fugaci e, dopo un momento di esitazione, lo attaccarono in simultanea da entrambi i lati. Innalzò lo scudo e i due ci rimbalzarono sopra, finendo supini sulla pietra con gemiti sorpresi. Però questo non li scoraggiò, anzi, semmai rinforzò i loro propositi. Rinnovarono l’attacco, accerchiandolo e testando la resistenza dello scudo con le armi che sfoderarono da sotto i mantelli.
Però, preso com’era a non lasciarsi sfuggire nemmeno un tic nervoso dei due avversari, Andorev compì un passo indietro, avvicinandosi pericolosamente alla ringhiera del terrazzo. La spada penetrò più a fondo nella carne dello stregone, facendolo guaire come un cane bastonato, e lo scudo tremolò. Fu sufficiente perché la lama di un pugnale creasse una breccia e si conficcasse nella sua spalla, strappandogli il fiato. 
Da lì tutto si svolse troppo velocemente perché avesse il tempo di reagire.
Un secondo coltello comparve alla sua sinistra, piantandosi nella carotide, e un altro affondò nel suo ventre, squarciandogli le budella. Poi una mano scivolò dietro di lui, si strinse sull’elsa della spada e la estrasse bruscamente. Andorev non ebbe modo di esalare un sospiro di sollievo. Colse il baluginare di una lama ai margini del suo campo visivo e subito dopo una pressione alla base del collo. 
All’improvviso sperimentò una strana sensazione, come un taglio netto nell’anima, e qualcosa si staccò con violenza, separandosi dalla sua essenza. Sgranò gli occhi nel vuoto. Ebbe l’impressione di tornare a respirare dopo un lungo periodo passato sott’acqua, incatenato in un’oscurità opprimente e torbida che gli annebbiava la coscienza. Il senso di colpa, il disgusto per se stesso e il rimorso gli piombarono addosso come una valanga, ma come arrivarono sparirono, lasciando il posto a una pace che non percepiva da secoli. L’energia che lo intrappolava in un limbo ovattato si dissolse e il suo corpo, come se qualcuno avesse reciso i fili che lo sorreggevano, si accasciò a terra. 
La testa dello stregone rotolò sulla pietra in una scia di sangue e si arrestò sul bordo del terrazzo, gli occhi vacui e l’espressione quasi serena.
Utros e Phyroe si guardarono sgomenti, ansimando come se avessero corso per ore. Tuttavia, prima che potessero anche solo pensare di muoversi, una nuvola di fumo blu scuro si levò dal cadavere decapitato ai loro piedi. La nuvola assunse le sembianze dello stregone e Phyroe rinserrò la presa sull’elsa della spada, preparandosi ad aggredirla, ma in un battito di ciglia i contorni si ridefinirono in una forma mostruosa, che ruggì imbufalita al loro indirizzo. I due arretrarono di scatto, la guardia alta e i nervi tesi. La nuvola non li attaccò, emise soltanto un altro terrificante ruggito e infine evaporò, estinguendosi come una fiamma.
“Cos’era quello?” squittì Phyroe, le braccia che le tremavano sotto il peso della spada.
“Che ne so!”
“Dici che è finita?”
Utros esaminò la scena incerto, quindi annuì a labbra strette e si allontanò. Phyroe buttò fuori l’ossigeno in una volta sola e fece una smorfia quando i polmoni si contrassero nella cassa toracica. Si concesse ancora un minuto per riacquistare una parvenza di controllo e, non appena i brividi si calmarono, mollò la spada, che precipitò a terra con un clangore metallico. Allora la sua attenzione venne calamitata da Qolton e in un secondo l’angoscia tornò alla ribalta.
“Qolton!” esclamò impaurita, quasi gettandosi in braccio all’uomo nella fretta di raggiungerlo, “Qolton, svegliati! Ti prego, svegliati!” 
Lo schiaffeggiò, lo scosse con vigore e gli gridò nelle orecchie, ma Qolton rimase immobile, la faccia ricoperta di sangue e i lineamenti distesi, pacifici.
“Phy…” soffiò flebilmente Utros, avvicinandosi piano, mentre le lacrime si incastravano tra le ciglia.
“No… no! Svegliati, Qolton! Svegliati!”
L’amico le posò una mano sulla spalla e strinse nel tentativo di elargire una briciola di conforto, nonostante lui stesso si sentisse andare in pezzi. Phyroe si divincolò e continuò a chiamare Qolton, sempre più disperata, finché la realtà non le franò sul cuore spegnendole la voce. Fissò il moro in silenzio, annientata, le guance bagnate di lacrime e lo sguardo smarrito, impotente. 
Utros si chinò, portò due dita sul polso di Qolton per verificare che non ci fosse la pulsazione e scosse debolmente il capo. Quindi si trascinò dietro la ragazza, le cinse i fianchi e l’abbracciò forte, acciambellandosi sopra di lei e intorno a lei come un’armatura di carne e sangue e vita, tentando di non imitare i suoi singhiozzi e tenere a bada i tremori del suo esile corpo.
Trascorse un’eternità, o forse solo una manciata di minuti. Quando Phyroe smise di piangere, Utros se la caricò in braccio come una sposa, permettendole di incastrare il viso nell’incavo del suo collo. Riservò un’ultima straziante occhiata al cadavere di Qolton, ringraziandolo tacitamente per la sua gentilezza, la sua lealtà, la sua guida e compagnia, lodandolo per il suo coraggio e determinazione, e dentro di sé promise che si sarebbe preso cura di Phyroe traendo spunto dai suoi insegnamenti, che avrebbe lavorato sodo per diventare un uomo degno di fiducia. Giurò che non avrebbe più anteposto i propri interessi a quelli dei suoi cari e che avrebbe reso Qolton fiero di lui. 
Un boato assordante riecheggiò dappertutto. Il cielo si oscurò e la terra tremò. Alcuni edifici della città si sfracellarono al suolo e tre diversi corni risuonarono in lontananza, accompagnati dalle grida spaventate dei soldati rinsaviti.
Utros sussultò, combatté contro l’impulso di raggomitolarsi in posizione fetale e tapparsi le orecchie e ignorò il groppo in gola che minacciava di soffocarlo. Si voltò barcollando, mentre la pietra sotto di lui si crepava con una rapidità allarmante, e strinse Phyroe a sé. Si lasciò inghiottire dalle tenebre del corridoio da cui erano arrivati e corse, il battito accelerato, spinto solo dal desiderio di frapporre quanta più distanza possibile tra loro e l’orrore che avevano vissuto. Corse senza che nessuno arrestasse la sua avanzata, corse fino a farsi dolere la milza, ma non si fermò, Phyroe un peso familiare sul suo petto. I muri crollarono dietro di lui, il pavimento fece la stessa fine, e con un urlo esasperato superò i propri limiti, aumentando il passo. Uscì dal palazzo un secondo prima che l’architrave della porta si abbattesse su di lui. Attraversò di filato il cortile e, senza pensare, imboccò il sentiero fra i monti Lerisa, una precisa destinazione in mente, l’unica possibile: Durandel.

La terra tremava. Sentiva le vibrazioni nelle ossa, nel sangue e nell’anima, più che sotto i piedi. Luce abbagliante lo avvolgeva in una corazza che pulsava a ritmo del suo cuore. Nuova energia lo pervase, danzando sulla sua pelle in armonia con l’universo. Energia che scaturiva dalla vita stessa, opponendosi con naturalezza alle ondate di oscurità che si infrangevano sulla corazza come il mare sugli scogli.
Nell era al sicuro nella sua bolla di luce, niente lo avrebbe toccato.
Schiuse gli occhi, curioso. Quasi non avesse aspettato altro, la collana che gli era stata imposta si staccò, galleggiò davanti a lui e si polverizzò di fronte al suo sguardo sbalordito. Allora avvertì la propria energia fluire con più libertà, roteando attorno a lui in una miriade di puntini luminosi. 
Quella vista gli strappò un sorriso e una breve risata.
Dopo un po’, impossibile calcolare quanto, l’energia cominciò a pulsare più velocemente, vibrando e ronzando in uno schema di suoni che Nell fu in grado di memorizzare senza problemi. E all’improvviso lo scenario mutò.
Era a Rocca Smeralda, nella camera nuziale. Riconobbe il letto a baldacchino, i mobili, le suppellettili, i tappeti. Pure l’odore era identico. Dalla finestra filtravano i raggi del sole mattutino, illuminando la stanza di una luce calda e confortante.
Solo un particolare era diverso. Accanto al letto c’era una culla imbottita. Nell si avvicinò cauto. Appena fu a un paio di passi, un gorgoglio innocente gli stuzzicò le orecchie. Si affacciò emozionato, senza curarsi di catalogare le sensazioni che provava per non perdersi niente della meraviglia che giaceva su morbidi cuscini ricamati. Un neonato stava giocando con un piedino, il pugnetto dell’altra mano in bocca ricoperto di saliva. Delle bollicine spuntavano agli angoli delle labbra. 
Il bambino, come se avesse percepito la sua presenza, alzò lo sguardo su Nell e sorrise emettendo squittii deliziati. Il ragazzo si immerse nei suoi occhi rossi e con le dita gli sfiorò delicatamente il ciuffo di capelli biondi sulla testa. Non poté fare a meno di ricambiare il sorriso, mentre il suo cuore si riempiva di così tanto amore da lasciarlo privo di fiato.
Due braccia forti e muscolose gli cinsero i fianchi, attirandolo verso un torace solido e familiare. Lunghe ciocche di capelli biondi e ricci ricaddero sul petto scoperto di Nell e gli accarezzarono il ventre. Poi il viso sereno di Ysril emerse alla sua destra, una guancia poggiata mollemente sulla sua spalla e un sorriso pigro sulla bocca. Le iridi ambrate lo scrutarono con devozione e una mano prese a disegnare fantasiosi ghirigori sulla sua pelle nuda.
Quando Nell tornò a osservare il bambino, la culla era sparita e al suo posto c’era un giovane alto e avvenente, con occhi rossi e capelli biondi e lisci, lunghi fino alle spalle. Sorrideva felice. Era nudo come Nell e Ysril, ma a nessuno di loro importava. Il giovane si accostò alla coppia e si tuffò nel loro calore, venendo accolto da braccia gentili e odore di casa.
In quel momento, Nell si sentì completo, finalmente in pace con se stesso.
La luce che filtrava dalla finestra aumentò d’intensità, facendo brillare la stanza, si avviluppò attorno alle tre figure legate in un abbraccio e si irradiò nei loro corpi in una corrente che sapeva di quiete e serenità.
Di colpo Nell si ritrovò solo, circondato da un paesaggio bianco e monotono, ma ancora avvertiva il calore della luce e della sua famiglia intorno a lui. La sua pelle formicolava, vibrava, pulsava e l’energia ricominciò a mulinare in coriandoli luminosi, finché il ragazzo non sentì una spinta brutale e malvagia ributtarlo indietro.
Una nuvola blu scuro volteggiava innanzi a lui, al centro due occhi tondi e sinistri che lo fissavano famelici. Non aveva idea di come, ma Nell capì subito che quella creatura era immonda. Più la guardava, più il suo volume cresceva, diventando gigantesca nell’arco di pochi secondi. E più cresceva, più la luce si ritraeva. Desiderò scacciarla dal suo reame una volta per tutte, il mondo dei viventi non era il posto adatto per un tale abominio. 
I muscoli guizzarono e il potere esplose in scintille calde nel suo sangue, dandogli l’impressione che scorresse al contrario. Prese lo slancio e si scagliò contro la creatura, avvolto dalla sua corazza e animato da una determinazione che gli faceva brillare gli occhi. Costrinse la bestia a indietreggiare, ignorò i suoi ruggiti furiosi e lo attaccò con più foga. Tuttavia, nulla pareva avere effetto. 
Gli occhi blu della creatura rifulsero di bagliori sinistri e il suo corpo si ingrossò di nuovo, obbligando la luce a una seconda ritirata.
Seguitarono così per un po’, nessuno dei due intenzionato a cedere terreno al nemico. Nell non sapeva come procedere, come attingere all’energia incanalandola in un colpo mirato e pulito. Certo era che se avesse continuato a combattere in quel modo goffo, avrebbe perso. 
Rifletté mentre schivava la bestia, osservandola con estrema attenzione in cerca di un punto debole, ma tutto di lei era fatto di fumo.
Eccetto gli occhi.
Un lampo di consapevolezza lo scosse da capo a piedi, rinvigorendolo e rafforzando i suoi propositi. Il potere fluì e rispose prontamente alla sua implicita richiesta, concentrandosi sulle dita per trasformarle in artigli affilati e ricurvi. Nell attese l’occasione propizia.
La creatura si lanciò su di lui ringhiando, inghiottendo la luce al suo passaggio e rimpiazzandola con l’oscurità. Nell non si oppose alla sua avanzata, non lo respinse, nonostante il bisogno di farlo gli mordesse le viscere con insistenza. Non si mosse finché non fu a portata di salto. Allora spiccò un balzo. Tentò di tenere a bada l’impulso di fuggire, di non farsi toccare dal fumo per salvarsi dalla corruzione che il contatto avrebbe provocato, e si fiondò sulla bestia, gli artigli protesi verso i bulbi oculari.
L’oscurità lo mangiò e iniziò senza indugio a risucchiare la sua luce, spogliandolo di qualunque difesa disponesse. Nell non si fece intimorire e le sue mani afferrarono gli occhi dell’essere. Erano duri e lisci come pietra levigata, ma all’interno ardeva un fuoco freddo e senziente che gli scavava dentro mettendolo a nudo, violandolo nel profondo. Digrignò i denti, affondò gli artigli e tirò con tutta l’energia rimastagli. 
Alla fine, gli occhi vennero via e la bestia urlò. I suoi versi disperati sembrarono scuotere le fondamenta del mondo e per un istante Nell ebbe paura che l’onda lo trascinasse nell’abisso, ma la luce lo soccorse e lo abbracciò protettiva, lasciando scoperte solo le mani che ancora erano serrate attorno agli occhi del mostro. Questo si contorse su se stesso, si accartocciò e rimpicciolì guaendo alla stregua di un animale ferito a morte. Eppure, pur di dimensioni ridotte, non scomparve, continuando imperterrito ad assorbire luce e convertirla in tenebra, come a volersi rigenerare.
Nell abbassò lo sguardo sulle due sfere fredde che erano gli occhi della creatura. Aggrottò le sopracciglia e si morse il labbro, a corto di un piano. Fu il suo potere a suggerirgli cosa fare, sfiorandogli il dorso delle mani per spingerlo a racchiudere nel pugno le sfere.
Distruggile.
Esercitò pressione e le sentì creparsi. Incrementò la forza, di più, sempre di più, sebbene la pelle bruciasse e le piaghe da ustioni gli incidessero la carne. Diede fondo alla propria energia, la richiamò a sé tutta quanta, convincendola a collaborare. Poi, con un ultimo “crack”, le sfere esplosero in mille pezzi, tramutandosi in polvere e infine in un fumo bluastro, che svanì nell’arco di un respiro.
Lo spazio intorno a Nell tremò e si sgretolò pian piano, la luce si spense lasciandolo svuotato e un tuono ruppe il silenzio aggredendogli i timpani.
Il cielo plumbeo si delineò sopra di lui, così come le montagne, il vulcano in eruzione e la piattaforma triangolare sospesa nel vuoto. Ma la Sylmaran e la regina dei demoni stavano gridando, le mani premute sulle orecchie e i gomiti sulle ginocchia. La piattaforma venne percorsa da grosse crepe e delle rocce si staccarono dalle montagne, franando al suolo o precipitando nella bocca del vulcano.
“Che cosa hai fatto?!” sbraitò inviperita la strega, mostrandogli i denti marci, e strinse la presa sul bastone mentre inceneriva Nell con un’occhiata omicida, gli occhi spiritati e screziati di rosso, sintomo della pazzia che albergava nel suo animo.
Il giovane, d’un tratto calmo, infuse le proprie braccia di energia e si liberò dalle corde che lo tenevano legato al palo. Quindi condusse una mano sullo stomaco e la passò sopra la pelle. Quando la spostò, le rune erano sparite. Avanzò verso la Sylmaran con decisione, torreggiò sulla sua sagoma rattrappita e con un gesto fulmineo le strappò il bastone dalle dita adunche, per poi spezzarlo nel mezzo. Una lieve deflagrazione quasi lo sbilanciò, ma mantenne stoicamente l’equilibrio. Dopodiché, gettò il bastone nel vulcano. 
La vecchia arretrò gattonando, portandosi sul bordo della piattaforma, tremando come una foglia.
“No! No, fermati, ti prego… figlio mio, fermati.”
Nell non rispose, si limitò ad agguantarla per il collo e sollevarla come se non pesasse nulla. La squadrò con espressione indecifrabile per lunghi attimi. Prima che la strega avesse il tempo di capire le sue intenzioni, la scaraventò giù e la osservò cadere tra le fiamme. Allora si girò per occuparsi della regina, ma ella era già scappata.
La piattaforma tremò e a quel punto Nell tornò lucido. Rimase immobile per un paio di secondi, poi si fece coraggio e schizzò verso il figlio e il marito, prima liberandoli dei gioielli e poi delle corde. 
Reeven era sveglio e riuscì a sorreggersi da solo, anche se barcollava pericolosamente. Si massaggiò le tempie e i polsi e scrollò il capo per scacciare la foschia che gli ottenebrava il cervello. Osservò il caos atterrito e cercò subito Nell per ottenere un po’ di conforto, trovandolo accanto al padre, splendidamente nudo e avvolto da un’aura così potente da fargli venir voglia di inginocchiarsi. 
Ysril era piombato nell’incoscienza e non era che un peso morto sulla spalla del biondino.
“Reeven, aiutami!”
L’ibrido accorse e prese in custodia Ysril, caricandoselo sulla schiena. 
Abbandonarono la piattaforma un secondo prima che si sgretolasse. Sfrecciarono dentro il tunnel verso il quale conduceva la passerella e una volta lì non si fermarono mai finché non furono al sicuro all’esterno, ai piedi della montagna. Stranamente non avevano incontrato alcun demone durante la fuga e Nell incrociò le dita.
Un altro boato scosse la terra e la lava cominciò a scorrere sulle pareti del vulcano, riversandosi in fiumi di fuoco sulla roccia. Spaventati, il trio aumentò il passo e in meno di mezzora raggiunsero i confini di Lankara. 
Nell si voltò a guardare le fiamme che lambivano le montagne e si insinuavano nei tunnel che punteggiavano la roccia, udendo le grida dei demoni che sciamavano in ogni direzione per mettersi in salvo. Non provò un briciolo di compassione per la loro sorte.
“Nell, andiamo.” lo esortò Reeven con urgenza in un bisbiglio roco e affaticato.
Il ragazzo sospirò, diede le spalle alla città e si affiancò al figlio prendendolo per mano. Occhieggiò Ysril e rughe di apprensione si dipinsero sulla sua fronte, ma decise di occuparsene una volta tornati nel mondo umano. 
Insieme si allontanarono, seguendo il ronzio sordo emanato dal portale.
Le nubi si aprirono per lasciar filtrare timidi raggi di sole e via via il fragore si attenuò.
Nell alzò il viso e si godé il vento sulla pelle, il sapore della libertà sulla lingua.
Era finita.









 
  
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