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Autore: EffyLou    25/08/2017    2 recensioni
ATTENZIONE: storia interrotta. La nuova versione, riscritta e corretta, si intitola Stella d'Oriente.
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Ha venti anni quando incontra per la prima volta quegli occhi, lo sguardo fiero del re di Macedonia, il condottiero che non perdona; ha venti anni quando lo sposa, simboleggiando un ponte di collegamento tra la cultura greca e quella persiana. Fin da subito non sembra uno splendente inizio, e con il tempo sarà sempre peggio: il suo destino è subire, assistere allo scorrere degli eventi senza alcun controllo sulla propria vita, e proseguire lungo lo sventurato cammino ombreggiato da violenza, prigionia e morte.
Una fanciulla appena adolescente, forgiata da guerre e complotti, dalla gelosia, dal rapporto turbolento e passionale col marito. Una vita drammatica e incredibile costantemente illuminata da una luce violenta, al fianco della figura più straordinaria che l'umanità abbia mai conosciuto.
Rossane, la moglie di Alessandro il Grande. Il fiore di Persia.
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo, Violenza | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Memorie Antiche'
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Rossane
il fiore di Persia



۶ . Sehsh

Pressi di Aorno, inverno 327 a.C.
Si svegliò che il cielo era grigio, l’aria pungente e umida. Non era ancora giunta l’alba, ma la luce del sole illuminava debolmente l’accampamento.
Rossane aveva passato la notte con Alessandro, nella stessa tenda e nello stesso letto.
Ricordava le gambe intrecciate, le fronti imperlate di sudore, i corpi attaccati in quel silenzioso rituale. Lui l’aveva presa e aveva preso anche la sua virtù, ma l’aveva fatto con dolcezza, senza nemmeno farla sanguinare.
Qualcosa l’aveva irrimediabilmente legata a lui, dopo quella notte, a livello emotivo. Niente a che vedere con il matrimonio.
Perché doveva essere così difficile cercare di nascondere il proprio cuore? Lui se ne stava appropriando pezzo dopo pezzo, e la sera prima aveva perso il controllo per un momento, aprendosi a lui. Non sarebbe più accaduto.
Rossane era sicura che Alessandro non l’amava. Era un buon oratore, questo lo riconosceva. Ma non l’amava davvero, ciò che le aveva detto la sera precedente erano menzogne, ne era del tutto convinta.
Non le piaceva condividere, ma non poteva impedire al re di giacere con chi volesse né poteva dare a vedere il suo fastidio. Significava esporsi, e l’aveva fatto anche troppo.
Quanto tempo avrebbe resistito nascondendo le sue emozioni contrastanti e turbolente?
«Ben svegliata.» la voce di Alessandro le arrivò roca e assonnata. Si stropicciò un occhio, quello azzurro cielo, con un sorrisetto. Le ricordò un bambino.
«Buongiorno anche a voi.»
«Te.» la corresse.
«Cosa?»
«Buongiorno anche a te. – ripeté. – Non mi va più di parlare in modo così formale con te.»
Lei si strinse nelle spalle ed annuì, aveva un senso. «D’accordo.»
Alessandro si alzò in piedi, senza curarsi della nudità. Si accucciò per frugare in un baule ai piedi del giaciglio e ne estrasse una pergamena arrotolata. La passò a Rossane, che si sporse per prenderla e si girò sulla pancia, le gambe che ondeggiavano avanti e indietro.
La srotolò, scrutò quella calligrafia così strana, così insolita. Non aveva mai visto niente del genere.
Il condottiero si distese di nuovo vicino a lei, su un fianco, tenendosi su con il gomito. Con la punta delle dita della mano libera, le accarezzò la curvatura della schiena, dalle spalle sollevate al coccige.
Quella pelle dalle sfumature dorate, liscia e pura come seta.
«Che lingua è?» domandò Rossane, senza distogliere lo sguardo dalla pergamena.
«Greco. E questa è un’opera di Omero, l’Iliade. Molto popolare dalle mie parti.» le sorrise.
«Te ne porti una copia dietro come io custodisco quella dell’epopea di Gilgamesh.» sussurrò, quasi allibita.
«Ho anch’io i miei eroi.»
«Non capisco una parola di quello che c’è scritto qui, ti va di raccontarmi di questa Iliade?»
Alessandro tese un orecchio, cercando di captare rumori di risveglio dell’accampamento. Era ancora presto, forse qualcuno sveglio c’era ma certamente non in procinto di levare le tende.
Le raccontò brevemente del testo epico greco, di Achille, di Ettore, di Patroclo, Briseide, Elena e Paride, Odisseo.
Rossane lo ascoltava attenta, memorizzando tutte quelle informazioni su una cultura così lontana. Ascoltava la sua voce, magnetica e ipnotica, le sue descrizioni incerte nella lingua persiana e quell’accento lontano che deformava le parole.
Le dita ruvide del re che continuavano ad accarezzarle la schiena, talvolta disegnando piccoli cerchi, lo sguardo che non lasciava il suo mentre raccontava.
Gli fece un piccolo sorriso, comprendendo quanto per lui fosse ispiratrice quell’opera e il suo eroe, Achille.
«Molto meglio Ettore.» commentò infine, dopo che Alessandro espresse la sua ammirazione verso l’eroe acheo. Gli lanciò un sorrisetto astuto, per punzecchiarlo.
«Era un uomo d’onore, sotto certi aspetti anche più di Achille. – acconsentì. – Ma la gloria a volte richiede gesti orribili e l’onore sacrifici immensi.»
«Stai attento, Alessandro. La tua brama di eguagliare Achille potrebbe esserti fatale.» arrotolò di nuovo la pergamena e la posò al lato del giaciglio.
Lui non le rispose. Le posò un bacio sulla fronte e si alzò per vestirsi. Lei fece altrettanto, senza proferire più parola.

 
* * *
 
 
Regione del Punjab, primavera 326 a.C.
Alessandro e le sue truppe penetrarono nel Punjab nella primavera del 326 a.C.
Riuscirono a scavalcare un fiume grazie all’intervento di Efestione e Perdicca che, essendo arrivati prima attraverso un percorso più semplice, avevano fatto costruire dei ponti presso il guardo di Ohind a nord di Attock, per permettere il futuro passaggio del re. Il Punjab, come suggerisce il nome, era un territorio rigoglioso e composto da cinque fiumi affluenti dell’Indo.
Il territorio in cui era penetrato l’esercito era dominato da tre potentati: quello di Ambhi, che si estendeva tra l’Indo e l’Idaspe, e che come capitale aveva Taxila; quello di Poro, Paurava, tra l’Idaspe e l’Acensine; quello di Abisare, situato a nord-est da quello di Poro.
Durante la traversata, alcune truppe in avanguardia capitanate da Cratero si erano ritrovate a fronteggiare un esercito di uomini piccoli, appostati sugli alberi per difendere il loro territorio.
Cratero riuscì a fare qualche prigioniero e li portarono all’accampamento, nella foresta umida e afosa.
Erano ominidi di bassa statura, coperti di pelliccia e avevano persino una coda lunga.
Quando Rossane li vide scoppiò a ridere.
«Ma questi non sono soldati! Sono animali! – aveva preso la mano di uno di loro. – Si chiamano scimmie.»
Alessandro la guardò esterrefatto, poi tutti posarono gli occhi sull’animale chiamato scimmia.
Si chinò su una di loro, vicino alla moglie, prendendo la mano della bestia e paragonandola alla sua.
«È incredibile, hanno le mani come le nostre. Camminano come noi. Beh, quasi.»
«Hanno mani anche al posto dei piedi, guarda.»
Decisero di tenere un paio di scimmie con loro, quelle più restie ad allontanarsi da quelle creature senza peli e coperte di metallo che offrivano loro da mangiare. Le altre furono liberate.
La marcia proseguì, l’esercito avanzò fino a raggiungere le porte della città di Taxila nel pomeriggio di quel giorno umido di primavera.
Quando Alessandro si presentò alle guardie, quelle fecero passare l’esercito con un gran sorriso. D’altronde, il loro sovrano Ambhi aveva fornito circa settecento truppe al conquistatore macedone durante l’avanzata in Sogdiana.
Taxila aprì le sue porte, rivelando una città ricca e vivace.
Sorgeva tra i due fiumi, l’Indo e l’Idaspe, il cui corso era stato virato artificialmente in modo da irrigare i giardini della città, ed era colma di piantagioni. C’era persino qualche giardino pensile, segno del passaggio dei persiani ai tempi di Dario I.
I colori che dominavano erano il beige e il verde, piccole barche a remi fluttuavano sulla superficie delle acque dei fiumi.
L’esercito fu accolto dalla popolazione con una grande festa: donne, uomini e bambini accorrevano ai bordi delle strade per salutare i visitatori stranieri.
Rossane si guardava intorno, gli occhi febbrili dall’emozione di tutto quell’ambiente nuovo e diverso dalla cultura persiana. I bambini le gettavano corone di fiori al collo, pioggia di petali, in lontananza riusciva a scorgere gabbie con le tigri.
Quei pochi che non erano accorsi erano intenti in lotte tra galli, piccole risse, furti ai venditori distratti.
Era tutto così diverso, aveva letto delle civiltà sulla valle dell’Indo solo nelle pergamene della biblioteca di suo padre. Ora le vedeva con i suoi occhi, cosa che mai avrebbe immaginato di fare.
Ormai, giunti quasi al centro della città in cui si ergeva l’imponente palazzo di Ambhi in mattonato dai colori tenui, un servitore invitò il re, la sua sposa, i suoi generali e la servitù più stretta, ad entrare a palazzo. L’esercito invece si accampò fuori le mura, e le porte della città sarebbero rimaste aperte.
Il palazzo reale era in perfetto stile indiano, con merlettature sulle arcate e cupole a cipolla. C’era un muro di cinta che lo circondava, come fosse stato una fortezza lussuosa, e dentro giardini interni, fontane, siepi curate, vasche d’acqua.
Lo sfarzo non aveva freni, i colori dei drappeggi erano sgargianti sulle tonalità del rosso.
Il servitore di Ambhi fece scortare la servitù e i diadochi nelle proprie stanze, esortando loro a riposare e passare il tempo come meglio credevano pur restando nelle mura del palazzo in attesa dell’ora di cena.
Alessandro e Rossane, invece, furono condotti alla sala del trono, passando per corridoi colonnati e dalle arcate merlettate. Sembrava quasi un tempio, quel luogo.
La regina era sicura d’aver intravisto una tigre aggirarsi liberamente per il palazzo, e pure un pavone.
La sala del trono aveva ampie finestre ai lati, ma era una stanza abbastanza stretta e lunga, con il tetto basso. C’erano colonne sottili ad accompagnare il cammino, un tappeto rosso con motivi indiani, lanterne di vetro colorato che scendevano dal soffitto coloratissimo, pieno di forme geometriche e ghirigori delle tonalità più disperate.
Ambhi era seduto in fondo alla stanza, su una poltrona in velluto rosso che aveva tutta l’aria di essere molto comoda. Veniva sventolato da ventagli di piume rosate da due fanciulle dal volto quasi interamente coperto da un velo semi trasparente.
«Re Alessandro!» scattò in piedi, andando incontro al sovrano dell’imponente impero.
Era un uomo dalla scura pelle ambrata, le sopracciglia folte, la barba ispida sale e pepe, il turbante viola sul capo. Sul naso adunco una pittura bianca che terminava in un puntino rosso al centro della fronte. Non doveva avere meno di cinquant’anni. La pancia era gonfia sotto gli abiti regali, tradendo il vizio per il vino. Parlava in persiano… o quello che doveva essere, almeno. D’altronde quelle due lingue, seppur diverse, venivano dallo stesso ceppo e molte parole erano simili: non era strano trovare un indiano che parlasse il persiano o viceversa.
«Rajah Ambhi. – lo salutò a sua volta il macedone, con un inchino. – Grazie per averci accolto nella vostra dimora.»
«Avreste dovuto avvisarmi prima, avrei fatto preparare più stanze. – con gli occhi sbirciò in direzione di Rossane, intenta a scrutare il soffitto. – La vostra accompagnatrice sembra molto incuriosita.»
Lei sembrò destata da un sogno, s’inchinò ai piedi del sovrano Ambhi come da proskynesis.
Il sovrano guardò Alessandro, che posò una mano sulla spalla della moglie.
«Mio re, vi presento la mia sposa. Rossane di Persia, figlia di Ossiarte satrapo di Battria.»
«Il fiore di Persia. – esalò Ambhi, colpito di vedere quella donna lì nel suo palazzo. – È un piacere fare la vostra conoscenza, regina Roshanak. Le voci che giungono fin qui, che parlano di voi e della vostra bellezza, sono dunque veritiere.»
Ora comprendeva il motivo per il quale la fanciulla aveva fatto la proskynesis. Era persiana, e in Persia quella era l’usanza e il trattamento che si rivolgeva ad un sovrano. Quel gesto, effettuato dalla regina di Persia, fece gonfiare Ambhi come un pavone.
«Grazie, Ambhi-baga, mi lusingate. Il piacere è il mio.»
Dopo il saluto al rajah, si dileguarono nella loro stanza. Il sovrano indiano aveva fatto disporre una camera sontuosa degna del Re dei Re e della sua sposa.
Rossane aveva ammirato quelle colonne eleganti color azzurro, quelle arcate merlettate, quello sfarzoso letto con le lenzuola e i cuscini di seta, le tende del baldacchino che scendevano dal soffitto. C’era persino un ampio balcone che si affacciava sulla città e v’erano solo delle tende gialle all’entrata.
Il matrimonio combinato l’aveva portata ad assistere a battaglie, marce estenuanti, accampamenti di soldati chiassosi, ma anche a questo. Meravigliosi luoghi lontani dalla cultura persiana.
Alessandro le aveva dato un bacio sulla spalla, facendola sussultare dalla sorpresa.
«La camera è di tuo gradimento?» sorrise malizioso.
«È assurdo.»
«A me piace molto. È davvero diverso dalle stanze di Babilonia, ancor di più da quelle di Macedonia o Grecia.»
«Non l’avrei mai detto, sai?» replicò alzando un sopracciglio, il sorriso dispettoso.
«Fai la spiritosa, mia regina? Ti burli del tuo re?» le si era avvicinato come una tigre, accarezzandole un fianco. Le dita dell’altra mano che percorrevano il collo e si piantarono sulla nuca, intrecciandosi ai capelli. Le tirò indietro la testa con uno scatto rapido ma non doloroso, costringendola ad alzare il viso per guardarlo.
I loro sguardi restarono incatenati per interminabili attimi. Lui che la studiava come se la volesse mangiare. Fuoco nei loro occhi. Alessandro avvicinò le labbra a quelle di sua moglie.
La porta si aprì con un tonfo.
«Mio signore… Oh!»
«Non si usa bussare? Sei diventato forse un barbaro, Perdicca?» gli lanciò un sorriso da lupo.
La regina sussultò a quella parola. Barbaro. Lanciò un’occhiata fiammeggiante al sovrano, che neppure se ne accorse.
«Scusami, io…» era arrossito come un peperone, dopo aver guardato la ragazza persiana.
Districò le dita dalla chioma di Rossane, e posò le mani sui fianchi. «Lascia stare. Che cosa c’è?»
«La nobiltà indiana chiede di te, è curiosa di conoscere il Re dei Re.»
Alessandro annuì, lanciò un’ultima occhiata in tralice a Rossane, e poi uscì dalla stanza con Perdicca.
La regina, rimasta sola, aggrottò le sopracciglia sbigottita dal cambiamento così repentino del suo re. Senza neppure rendersene conto, aveva sbuffato come un toro e allargato le braccia, lasciandole poi scontrarsi lungo i fianchi.
Inveì a bassa voce contro Alessandro. E pure contro Perdicca, che gliel’aveva portato via in un momento delicato.
Scese le scale fino al grande atrio centrale, a cielo aperto.
Voleva raggiungere Bagoa, o forse no. Una parte di sé si sentiva ancora tradita dall’amico eunuco. Non avevano neanche più parlato dopo la notte con Alessandro. Si torturò il labbro con i denti, chiedendosi se non fosse un po’ troppo permalosa.
No, per quel giorno non sarebbe rimasta con Bagoa, semplicemente non le andava. Tra non molto sarebbe stata servita la cena.
Decise di ritirarsi all’interno dell’area riservata alle donne del palazzo, in cui erano state inserite anche le concubine di Alessandro. Non sapeva se si chiamasse harem anche in India.
Era un luogo per la maggior parte all’aperto, un piccolo giardino interno in cui v’era una vasca d’acqua. Vi galleggiavano petali di rosa, alcune ragazze stavano facendo lì il bagno. Altre danzavano, qualcuna suonava, altre si intrecciavano i capelli, altre ancora giocavano con i pavoni.
Una delle concubine di Alessandro riconobbe Rossane.
Si chiamava Almas, veniva dalla Siria, Damasco. La regina si chiedeva per quale motivo le concubine avevano sempre nomi di fiori o pietre. Fayruz, la favorita di suo padre, aveva il nome che in arabo significava turchese, come la pietra. Almas, in arabo, significava diamante.
Possibile che fosse una coincidenza oppure le concubine una volta che venivano fatte schiave sceglievano un nome diverso? Come gli eunuchi che prendevano come nome “Bagoa” dopo la castrazione.
Si ritrovò ad aggrottare le sopracciglia mentre la ragazza le prendeva la mano. Era bella, i lucenti capelli neri, la pelle ambrata, gli occhi nocciola.
Invitò la regina a ballare con loro. Rossane era cresciuta tra l’harem di suo padre e la biblioteca. Tra le concubine e il precettore. Sapeva ballare, certo, l’aveva fatto per una vita.
«Stiamo preparando una piccola coreografia, sapete, mia regina? – le disse Almas, tutta contenta. – Per onorare re Ambhi, così cordiale da averci ospitate. Perché non vi unite anche voi al ballo?»
La persiana ci rifletté su.
Di norma avrebbe rifiutato. La raqs sharqi era una danza sacra che affondava le sue radici nel culto primitivo della Dea Madre, poi nel culto di Inanna, di Ishtar, di Iside. Era una danza rituale, sacra. Con il tempo era diventata oggetto di intrattenimento tra le concubine, che l’avevano arricchita di movimenti e oggetti scenici.
Ma la raqs sharqi era soprattutto una danza in cui la femminilità veniva esaltata, anche la donna meno bella o aggraziata poteva risultare meravigliosa e sinuosa con i movimenti della danza.
«Non è saggio per una regina esporsi così.» affermò.
Eppure bramava di ballare.
Alessandro la rilegava come seconda scelta, l’avrebbe fatto per attirare la sua attenzione. Fargli perdere il controllo, cercare di tirar fuori un minimo di emozione simile all’ammirazione. Avrebbe significato che per lei qualcosa provava sul serio. Gli sguardi e le azioni facevano la differenza, le belle parole erano tutti bravi a pronunciarle. Aveva detto di amarla, non era vero.
Aveva detto che avrebbe cercato di conquistarla, ci stava riuscendo.
Ma lei sentiva di non aver conquistato lui, e questo non era giusto. La mattina dopo la notte in cui il matrimonio venne consumato, le sembrò di essersi appropriata di un pezzettino del suo cuore. Ma a Rossane non le bastava, tutto o niente. E il niente non le stava bene.
Non era sicura che ballare di fronte a tutti fosse la scelta giusta, ma tanto valeva tentare. Cosa aveva da perdere?
«Potreste coprire il viso. Lo copriremo tutte, seguendo voi, così che sembrerà l’abito di scena e voi non darete nell’occhio.» propose Almas, con un sorrisetto malizioso, astuto.
Rossane sollevò un sopracciglio, arricciando un angolo delle labbra.
«Abbiamo poco tempo per la coreografia, mia cara Almas. Affrettiamoci. Oggetti di scena?»
«Nessuno. Poi ognuna di noi improvviserà un pezzo con un oggetto a scelta. Io userò il velo, ad esempio. Miraj userà il candelabro, Nys userà le ali.»
«Io prenderò la spada.»
 
 
La sala dei banchetti era immensa, a cielo aperto, con colonne tutt’intorno per le balconate interne.
C’erano piante, tendaggi rossi e arancio, statue raffiguranti divinità o simboli sacri. I generali e gli stretti collaboratori di Alessandro erano presenti. Non c’erano tavoli. C’erano solo tappeti su cui erano posati enormi cuscini di seta colorata e ricamata in oro. Gli ospiti e altri piccoli nobili indiani alla corte di Ambhi erano tutti riversi sui cuscini, serviti e riveriti dalla servitù indiana e persiana.
Qualche fanciulla dal corpo acerbo e il volto velato faceva aria ai sovrani con ventagli fatti di piume colorate.
Le concubine indiane di Ambhi intrattennero la serata, danzando al centro dello spiazzo concentrico in cui veniva consumata la cena. Sotto le stelle.
Indossavano abiti tipici e ballavano le danze tradizionali d’India. I generali e altri membri della nobiltà indiana sembrarono apprezzare oltremodo quello spettacolo.
Alessandro guardava tutte quelle concubine, meravigliose nei loro abiti e accessori, con le loro movenze frizzanti a ritmo della musica incalzante.
«Amico mio. – cominciò Alessandro, rivolto ad Ambhi. – Quanto è grande l’India?»
Il re indiano scoppiò a ridere. «È vasta quanto la terra compresa tra il Tigri e l’Indo. Ma è frammentata in tanti regni in perenne lotta tra loro e retta da re che potrebbero essere figli di un barbiere!»
Il macedone restò in silenzio. Avrebbe mandato una truppa in avanscoperta, il tempo di prepararle e inviarle. Del resto era intenzionato a marciare sull’Indo e spingersi oltre il fiume Ifasi, dove sapeva della dinastia Nanda che controllava l’intero bacino del Gange dalla capitale Pataliputra.
Si rigirò il calice di vino tra le mani, fissando un punto di fronte a sé e meditando sul da farsi. Bagoa che gli ronzava intorno pronto a compiacere ogni capriccio del sovrano.
Nello spiazzo entrarono le concubine di Alessandro, con sua piacevole sorpresa. Erano vestite con una miscela di abiti tradizionali arabo-persiani e indiani. I volti coperti fino al naso da un velo spesso che lasciava scoperti solo gli occhi, truccati da pesanti linee di kajal.
Le gambe erano fasciate dai pantaloni da fachiro tipici indiani, con il cavallo che arrivava quasi a strusciare sul pavimento, stretti in vita da fasce di medagliette e sulle caviglie. Un reggipetto impreziosito da pietre brillanti e ornamenti, con fili d’oro e perle che scendevano sul ventre nudo.
La musica dal santur era accompagnata da movimenti lenti di fianchi, sinuosi e sensuali, e presto lasciò lo spazio ad un ritmo più incalzante suonato con i tamburi darbuka. I movimenti dei fianchi si fecero scattosi, rapidi, con vibrazioni e onde che si ripercuotevano sul ventre.
Poi la musica finì, il pubblico si lasciò andare ad uno scrosciante applauso. Ma non era finita. Ogni concubina avrebbe fatto il suo piccolo assolo a ritmo di musiche diverse, con oggetti scenici differenti e in stili di danze diverse.
Una delle concubine, egiziana, ballò il Saidi, la danza simpatica e frizzante con il bastone.
Un’altra egiziana ballò secondo lo stile Baladi, dai sobborghi poveri d’Egitto.
Almas si dedicò alla leggiadra danza con il velo, muovendolo come se fosse l’oggetto più prezioso e delicato mai esistito.
Miraj veniva dall’Anatolia, ma le sue origini non intaccarono la scelta della danza: ballò con il pesante candelabro calato sulla testa (raqs al shamadan), le candele accese, dando prova della sua grande abilità e del suo ferreo equilibrio.
Nys si destreggiò con le meravigliose ali di Iside, un oggetto che si legava al collo con un laccio sottile e le mani stringevano bacchette, era un velo ampio dai colori cangianti ispirato appunto alle ali della dea egizia Iside.
Per ultima, a concludere lo spettacolo, Rossane. La musica aveva un che di tribale, di agguerrito. La sovrana col volto coperto incatenò il suo sguardo a quello di Alessandro, a volerlo sfidare apertamente.
Come voleva il tipo di danza che aveva scelto, la raqs al saif, rubò la scimitarra di uno dei generali, con fare scherzoso. Proprio come faceva ad Al-Khanoum. La danza con la spada era sempre stata la sua specialità, era la danza della dea e donna guerriera.
La fece roteare con maestria ed eleganza, a ritmo della musica, come se stesse combattendo un’aggraziata lotta contro sé stessa e la sua parte più oscura.
Alessandro si mosse nervoso sull’ampio cuscino cremisi, come se bruciasse e gli desse fastidio. Avrebbe riconosciuto quegli enormi occhi ovunque, il verde oliva risaltato dal kajal pesante sulle palpebre. Lo sguardo di Rossane sembrava sfidarlo, provocarlo, tentarlo. Sembrava studiarlo, sondargli l’anima, come una pantera che si nasconde tra i fili d’erba a distanza di sicurezza dalla preda. Ma lui era troppo preso da lei, dai suoi movimenti che sprizzavano femminilità e sensualità da ogni poro pur non essendo voluttuosa come le altre concubine. Alessandro scoprì di provare qualcosa di molto vicino all’adorazione per quel corpo sinuoso, minuto, aggraziato. Le donne carnose gli piacevano ed erano perfette per la procreazione, erano l’ideale femminile almeno in Grecia e Macedonia, ma Rossane metteva in discussione i suoi stessi gusti e gli stessi ideali di donna che sempre l’avevano accompagnato.
Non l’aveva mai vista danzare, non l’aveva mai vista nella sua così totale femminilità.
Rossane tenne la spada in equilibrio sulla testa, poi sul fianco, infine sulla spalla, mentre si muoveva sinuosa nello spiazzo.
Terminò nell’esatto momento in cui i musicanti smisero di suonare, con un affondo della spada al terreno. La punta della scimitarra provocò un tintinnio quando cozzò sul pavimento di pietra.
Come in ogni altra esibizione precedente, il pubblico applaudì. Nessuno aveva riconosciuto la regina di Persia se non suo marito.
 


Angolo autrice
Uelà, bentrovati! Non so bene come definire questo capitolo, perché di fatto non racconta granché se non un possibile stralcio della vita tra concubine, in particolare della danza. La raqs sharqi, volgarmente chiamata "danza del ventre", è una danza che ho molto a cuore ed è davvero svalutata oppure malvista. Ma come ho scritto, in antichità era una danza sacra e rituale, utilizzata per propiziare la fertilità. Non si direbbe, ma c'è un mondo dietro, e io non voglio dilungarmi troppo hahaha
Insomma sì, è un capitolino un po' così. Ma nei prossimi accadranno robe. EHEH.
Vi saluto lasciandovi un paio di filmati della danza con la spada, in caso siate curiosi!
Video uno ; video due.

Grazie per dedicare un po' di tempo alla lettura di questa storia, e grazie se vorrete farmi sapere cosa ne pensate! Domande, opinioni, consigli. sempre ben accetti.
Alla prossima! ♥

 
   
 
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