Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: istherelifeonmars    27/08/2017    1 recensioni
Travis, Eean, Constance, Francis e Thomas: annoiati eroi di una generazione che potrebbe avere tutto ma non vuole avere niente, volti senza nome in una Londra inondata da turisti e uomini con ventiquattrore. Cercano la poesia e la felicità nell'alcool, nella droga, nel sesso, nella musica degli anni in cui tutto si doveva ancora costruire e c'era ancora speranza per un futuro migliore; bazzicano per la capitale alla ricerca di se stessi - perché perdersi è facile, ritrovarsi lo è decisamente meno.
Smaniosi di crescere e trovare il loro posto nel mondo, si ritrovano però spaventati da un futuro che non li vuole più insieme.
O che, addirittura, non li vuole affatto.
----
"Il problema è che non m’è rimasto proprio più niente, di questi vent’anni di vita, come se li avessi passati in una bolla fuori da questo formicaio che chiamano mondo. Uno potrebbe anche chiedersi quando tutto è iniziato ad andare a rotoli, quando le crepe sono diventati divari invalicabili, quando le chiacchiere sono diventate bugie.(...)
 Ci siamo tutti, ma di quelli che eravamo non c’è più nessuno."
AL MOMENTO SOSPESA
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Note: ringrazio le povere anime che sono arrivate fin qui, davvero. Ultimo capitolo di transizione/introduzione/quello che è - per altro è pure più corto degli altri - ma mi sembrava giusto introdurre disaddatati #3 e #4, ovvero Francis e Thomas. Di qui in poi si entrerà nel vivo della storia e sarò felicissima se deciderete di continuare a leggere questo pasticcio.
A presto!


 
Welcome to the jungle II
 
Londra, Agosto 2009

La busta delle medicine in una mano, le chiavi di casa nell’altra.
Chiudo la porta dietro di me con un colpetto del piede.
La casa è un pozzo nero di cui non vedo il fondo: le persiane abbassate non lasciano entrare un filo di luce e l’unica fonte luminosa è lo schermo del telefono fisso che proietta un quadrato grigio sopra la mia testa. Gli poso le chiavi accanto e mi sporgo verso il salotto dove so che sarà mia madre. Lei è sempre lì, non puoi sbagliare. Si chiude in casa, al buio, e poi accende la televisione, sta così per ore, starebbe così per giorni se non ci fossi io a ricordarle che il tempo scorre.
Che la vita va avanti, mamma, la vita va avanti e tu stai lì ferma.
«Sono tornato.»
«Francis?» quello che esce dalle sue labbra sottili è un mugolio di un animale ferito, è seduta sul divano, così composta che sembra imbalsamata, gli occhi vuoti che perforano lo schermo della televisione che a sua volta proietta le immagini di quello che suppongo sia un talk-show. Lei è blu, illuminata dalla luce statica del televisore, la parete è blu, il divano sfondato è blu. E lei non mi guarda nemmeno adesso che le sventolo le medicine in faccia.
Apro la busta.
Qualche anno fa avrei provato ad intavolare una conversazione, ma ora so che non funzionerebbe. Sbatto gli antidepressivi e gli ansiolitici sul tavolino basso sapendo che tutto questo rumore non la toccherà minimamente. So che non mi dirà grazie.
«Devi prendere le medicine.» ometto che deve farlo ora che ci sono anche io a controllarla, perché so che poi se ne dimenticherebbe. 
Sono un infermiere che fa questo per lavoro.
Somministro le dosi giuste e poi me ne vado.
Lei mi guarda, sposta i suoi grandi occhi vitrei verso di me e produce un suono gutturale. Allungo lo sguardo verso la vetrinetta dove teniamo li alcolici: è lì, intatta, le bottiglie sono tutte al loro posto. 
Questo vuol dire che non ha bevuto. Lascio andare un sospiro di sollievo.
«Cosa?» le chiedo, inginocchiandomi a terra così da poterla vedere in faccia. Il suo sguardo mi trapassa.
Sono un fantasma, il ricordo di suo figlio.
Anche lei è diventata un ricordo sbiadito di se stessa, ormai. Viviamo in una casa di spiriti.
«Va bene.» risponde ancora con quella voce distorta. La cosa non mi tocca, a questo punto so che ci sono dei giorni in cui sta peggio, se tutto va bene queste crisi non durano più di una settimana. 
Apro il primo flaconcino e tiro fuori la prima pastiglia, gliela porgo. La vedo nutrirsi di farmaci e di prodotti preconfezionati, di surgelati e verdure – la carne mai, dice che fa troppo male e si rifiuta categoricamente -, si nutre dei miei sforzi, della mia cazzo di vita che, giustappunto, dovrebbe essere mia. Non ricordo che mi abbia mai portato fuori al parco come facevano tutte le altre madri, era sempre Rosie a farmi giocare, non ricordo che mi abbia mai cucinato una torta al mio compleanno, non ricordo che abbia mai gioito per un mio voto alto o per il fatto che stessi diventando bravo in ciò che faccio. Non mi ha mai detto grazie, mai una volta in ventun cazzo di anni, per tutto quello che ho fatto. Si nutre di me perché sa che io non sono un cadavere in putrefazione come lo è lei.
La odio, odio questa televisione di merda, questa casa vecchia e polverosa, odio i suoi talk-show del cazzo e le medicine che le devo far ingurgitare quotidianamente.
Eppure devo porgerle quella pastiglia gentilmente, la devo guardare mentre la ingoia e assicurarmi che non la vomiti dopo. Io invece ingoio la rabbia – la sento agitarsi nel petto e graffiarmi la cassa toracica, mentre le porto un bicchiere d’acqua.
«Non posso fermarmi tanto.» smozzico guardando l’orologio. Anche se potessi, non vorrei.
«Non preoccuparti, Francis.» la odio.
«Devo andare a provare, tra mezz’ora. Torno per cena. Vuoi che ti compri qualcosa?» riempio il silenzio con frasi di circostanza in una recita scadente. Non siamo una famiglia: non le interessa dove vado o quando torno. Non le gliene frega niente. Di me. Di se stessa.
Non risponde: la realtà del talk-show l’ha catturata e so che farla tornare in questo universo è pressoché impossibile. Schiocco la lingua sul palato: io il mio lavoro l’ho fatto. Riprendo la busta e mi assicuro di nasconderla in camera mia, sottochiave nel mio comodino – non si sa mai. Quando torno in salotto la scopro a guardarmi, gli occhi fissi su di me; la saluto con un sorriso tirato e prima di uscire viro verso la vetrinetta: afferro l’ultima bottiglia di vino rimasta e la alzo in alto in un gesto beffardo.
Tanto so che non mi vede.

Questa sessione extra di prove è dovuta al fatto che il prossimo venerdì faremo una serata al Clover's; noi e un altro gruppo che credo si chiami Yellow Canary o qualche altra stronzata del genere. Conosco la cantante, però, e si può dire che compensi di tanto il nome di merda che hanno scelto.
Comunque, le prove. Prima che Trav si trasferisse provavamo nella palestra di casa sua, ora invece in una sala prove di periferia. L’edificio è un colosso grigio più largo che alto davanti a un parco dove qualche volta abbiamo trovato delle siringhe.
Gran bel salto di qualità.
In realtà nessuno ha fatto una piega quando ha visto il posto, io meno degli altri. Odiavo provare nella palestra dei Wance, mi nauseava. Ogni volta che entravo in quella casa provavo un moto di rabbia verso le persone che ci abitavano. Mi faceva e mi fa schifo il modo in cui ostentavano la loro ricchezza, e anche se a volte Trevis cercava di nasconderla, la notavi negli occhiali di marca da centocinquanta dollari, nella sua collezione di chitarre che insisteva a farmi vedere. Ed è invidia, lo so, è tutta invidia, e io giuro che cerco di ingoiarla, e cacciarla da dove se ne è uscita; non ci riesco, è più grande di me. Quella casa del cazzo è un simbolo di quel che non ho mai avuto e che ho sempre voluto avere e non mi importa se è una cosa egoista. Non mi importa e basta.
Quindi sono soddisfatto di questo posto in mezzo a un campetto dei tossici. Sono felice che Travis capisca veramente cosa vuol dire non arrivare a fine mese, ora che gli hanno tagliato tutti i fondi. Entro nella sala sbattendo la porta più forte di quanto non avessi voluto e li vedo tutti e tre lì – Eean non c’è ancora, in qualche modo riesce sempre ad arrivare in ritardo – chini sopra dei fogli scarabocchiati.
«Ehy.» è l’unica cosa che riesco a smozzicare mentre mi sfilo le cuffiette dalle orecchie, mi devo avvicinare per vedere che cosa stavano facendo.
Travis alza la testa e mi sorride entusiasta: «Guarda un po’.» e dicendo quello mi porge uno dei tanti fogli stropicciati – la notte insonne e la bottiglia di vino che ho bevuto per metà rallentano i miei riflessi, quindi ci vuole un attimo prima che l’afferri.
«E sarebbe?»
«Una canzone.» la voce di Constance è talmente fievole che non credo di aver capito bene. Sposto lo sguardo verso di lei, è ancora accucciata a terra, le gambe incrociate e le mani a terra. Sembra una marionetta – così magra e così alta, con quella testa grande e dalla mascella quadrata che è incorniciata da un caschetto biondo perfettamente in ordine –, ma sembra soprattutto una marionetta perché aspetta che dica qualcosa prima di agire. Non so perché, no so se voglia un permesso o qualcosa, so solo che lei sta aspettando che io prema il pulsante di accensione.
Mi volto dall’altra parte: vorrei dirle che io non ho tutte le risposte che cerca.
«Trav ha già un arrangiamento che potrebbe funzionare.» dice Thomas. Dice: «Secondo me non è male, poi te lo facciamo vedere.»
E allora Travis: «In realtà è solo un pezzo, ma si può iniziare a costruire da lì.»
Leggo le prime parole, tanto so già a cosa vado in contro. Constance scrive spesso musica per il nostro gruppo, ma le sue sono solo ballate. Parla ossessivamente dell’amore come se fosse mai stata veramente innamorata, inveisce contro gli uomini che non l’ameranno mai – sarebbe stata un’ottima Janis Joplin. 
Quello che scrive non mi piace, punto, e non me ne frega se parto prevenuto: la sua è sempre la stessa roba.
«Non è un granché.» ammette lei, a voce più bassa, mentre mi si avvicina «l’ho scritta stamattina, bisogna mettere a posto la metrica e—»
La sento continuare a scusarsi di quanto quello che scrive sia scadente, ma non l’ascolto più. La canzone è stranamente diversa: parla di una persona con un buco nel cuore e un buco nella testa. Parla di come sta cercando di riempirlo e di come ogni volta diventi sempre più grande, fino ad inghiottirla. L’autodistruzione, dice, è solo il narcisismo della nostra generazione.
La porta sbatte di nuovo. Alzo la testa a metà testo per vedere Eean entrare rumorosamente mentre cerca di sbottonarsi la camicia di flanella – per grazia di Dio, borbotta, c’è un caldo del cazzo, porca puttana. Istintivamente alzo il capo verso l’orologio: è in ritardo di un quarto d’ora, la testa di cazzo.
«Finalmente ci degni della tua presenza.» mi preoccupo di salutarlo prima di tutti gli altri.
Lui mi rivolge un’occhiata sbrigativa, poi lascia andare la camicia per terra, è incredibilmente sudato e puzza di frittura e erba. Immagino abbia avuto il tempo di uno spinello prima di venire qua.
«E ci credo,» mi risponde «altrimenti come fareste senza il vostro bassista preferito?»
«Non sei nemmeno il miglior bassista qui dentro, Eean.» lo rimbecca Travis divertito.
«Sì, ma tu non puoi suonare chitarra e basso contemporaneamente, è per questo che ci sono io.» è incredibile come abbia sempre una risposta pronta, il ragazzino. 
C’è un attimo di silenzio, in cui lo guardiamo posare la camicia su una panca accanto alla porta, e poi Thomas lo informa della nuova canzone.
«Pensavo,» dice Tommy, passandosi le mani sui pantaloni di jeans «che se riuscissimo a farne qualcosa di furbo potremmo portarlo al Clover’s, ad ottobre.» 
Come idea non fa schifo: è la seconda volta che il Clover’s ci chiama per suonare ad halloween. E di sicuro portare della musica nostra non può che fare bene. Il proprietario, Johnny, ci conosce bene e non si incazzerebbe se facessimo un lieve cambiamento alla scaletta. 
Do il foglio a Eean, anche se non l’ho letto tutto. Adesso Constance si muove verso di lui scusandosi a bassa voce perché tutto quello che scrive fa schifo. A questo punto credo che l’abbia fatto con tutti. Quando il rosso finisce di leggere alza la testa con uno scatto e sorride – quel genere di sorriso che vedi stampato sulle facce dei bambini di otto anni.
Dice, diretto a Connie: «E brava la mia Pretty Woman


 
Londra, Agosto 2009

È passato un tempo indefinito da quando Connie ci ha presentati al pubblico, avvolta nella sua pelliccia extra-large e in bilico su dei tacchi altissimi. Dalla mia postazione non potevo vederla in volto, ma so che sorrideva seducente al pubblico. In realtà non potevo vedere molto, del pub irlandese che è il Clover's vedevo solo le luci colorate che ogni tanto mi accecavano e l'insegna al led che indica dove sta il bar.
Adesso lei, Connie, è abbracciata a Len, un tipo che ha conosciuto due ore fa.
Almeno a lei è andata bene, Francis ha già vomitato due volte ed ora sta dormendo sul divano, accanto a me, un rivolo di bava alla bocca.
Eean e Trav stanno fumando fuori, sul balcone, mentre parlano delle stelle. Mi hanno chiesto se volevo unirmi a loro ma ho detto di no.
Io, Thomas occupo un quarto del divanetto a due posti nel retro del Clover’s – ad essere professionali questo potremmo chiamarlo backstage – mimetizzandomi con la carta da parati. Nessuno mi vede, ma è meglio così, voglio che sia così. Da qui ho una panoramica di tutto e oltretutto riesco a godermi la musica: dopo di noi ha suonato un’altra band, ora sento le note di Welcome To The Jungle provenire dal palco.
Dopo le prove di cinque giorni fa ne sono seguite altre quattro, di sedute – per fortuna il Clover's non ci chiama solo per far serate a tema ma anche per suonare il venerdì sera, qualche volta. Devo ammettere che il proprietario è uno vecchio stile: vuole solo musica live, niente DJ o altre cose moderne. Dall’alto della mia posizione di batterista in un gruppo emergente non posso che essergliene grato. 
Ed è anche parecchio ospitale, ci ha offerto da bere un paio di volte e noi, ovviamente abbiamo preso la cosa fin troppo bene. Complice il fatto che fuori da qui gironzolava uno spacciatore da poche sterline— ecco, la situazione è decisamente sfuggita di mano a tutti.
È proprio vero che Londra è una giungla e che ci ha intrappolato tutti, in un modo o nell’altro. Sono città come questa che ti possono offrire tutto quello che vuoi, facendoti piegare poi in ginocchio – Connie cerca il sesso, Eean lo sballo, Francis il torpore e Travis la musica, e guardali ora, come sono conciati. Città come questa ti mettono in testa che per avere tutto non devi avere niente, che la forma è più importante dell’essenza, e te la succhia via, l’essenza, eccome se te la succhia via.
Quando vado in centro vedo volti tutti uguali, turisti con le macchine fotografiche che graffiano le strade con i loro trolley colorati, vedo uomini con ventiquattrore che camminano indaffarati senza una meta precisa. Questa giungla ti convince che devi raggiungere qualcosa per essere felice, che devi possederlo, e quando finalmente arrivi alla tuo traguardo scopri che dopo ce n’è un altro e un altro ancora e che alla fine non potrai essere mai felice. Non esiste più l'idea di accontentarsi, perché se ti accontenti vieni pestato.
Ma c'è dell'altro, ci deve essere dell'altro che in moltissimi non vedono: è quello che cerco io, qui seduto sul divanetto di pelle.
«A che pensi, Tommy?» sento la voce impastata di Francis. Mi volto verso di lui.
«Al fatto che potremmo fare molto di meglio, noi.» lo guardo negli occhi azzurri e allungati. Lui sembra pensarci un attimo.
«La canzone di Connie è davvero bella, però, se riuscissimo a suonarla bene potremmo fare più di un semplice molto meglio
Gli sorrido: «Non parlavo della canzone.»
«Ah.» si schiarisce la voce e si mette a sedere, già immagino quanto la testa gli sia girata per fare un movimento così semplice.
C’è un momento di silenzio, ne approfitto per guardarmi attorno e scoprire che Constance e Len se ne sono andati.
«Parlavo di noi, come persone.» pausa, cerco le parole giuste «Siamo giovani. Abbiamo tutto il potere del mondo e non ce ne accorgiamo. Ci facciamo inghiottire dalla giungla.»
Lui si passa una mano sul volto: «Che giungla?»
Ormai la canzone è finita, osservo. Ora il gruppo sta cantando qualcosa degli U2. «Lascia perdere.»
Si alza, rivolgendomi una smorfia offesa, e si allunga verso l’ultima Guinness rimasta sul tavolo accanto a noi.
«Quando fai così mi sembri Travis, Cristo Santo.» borbotta.
«Suppongo che sia per questo che andiamo così d’accordo.»
Si vede che vorrebbe ribattere ancora, questa volta più diretto, ma la porta del balconcino si spalanca e ne escono Eean e Travis. Hanno delle espressioni di puro terrore in viso che per un momento mi ricordano quelle dell’altra sera. Quella quando è arrivata la polizia. 
Il loro arrivo è così rumoroso che è impossibile non notarli e per un momento io e Franck ci guardiamo negli occhi cercando di capire che cosa sia successo. Sicuramente è qualcosa di grave, e allora inizio a elencare mentalmente tutto ciò di grave che potrebbe succedere in un normalissimo venerdì sera.
In realtà ce ne sono tantissime.
Il silenzio di questa camera è direttamente proporzionale alla musica che si espande dal palco del Clover’s – Sunday, bloody Sunday, un classico.
Francis apre la birra con un accendino, prende un respiro e chiede: «Allora?»
È Travis a parlare, quello che dei due sembra il meno spaventato.
«La sorella di Kelly ci ha chiamato ora. È nato il bambino.»
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: istherelifeonmars