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Autore: summer_day    28/08/2017    4 recensioni
“Bellamy… se mi senti.. se sei vivo –” perde un battito ogni volta che pronuncia queste parole “sono passati settecentotrenta giorni dal Praimfaya”
Tutti i giorni è come un disco rotto che continua testardamente a girare nella speranza che qualcuno lo ascolti, e certe volte si chiede se ne valga realmente la pena.
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Ma oggi sono settecentotrenta giorni dal Praimfaya.
Settecentotrenta giorni da quando hanno lasciato dietro di loro il bunker a Polis e la Terra stessa.
Settecentotrenta giorni da quando Clarke è morta.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Only a moment, only a lifetime
 
 
 
Stood at the cold face
Stood with our backs to the sun
I can remember being nothing but fearless and young
We've become echoes, but echoes, they fade away

[…]
The devil's on your shoulder
The strangers in your head
As if you don't remember
As if you can forget
It's only been a moment
It's only been a lifetime
But tonight you're a stranger
Some silhouette
(Aquilo – Silhouette)
 
 
È sempre lo stesso punto, quello dove Clarke si sta sedendo. O meglio, è sempre lo stesso da quando l’aria è diventata respirabile e non più fuoco che brucia i polmoni ed ogni cellula della sua pelle. Adesso anche il cielo non è più divorato dalle fiamme del Praimfaya, ora è azzurro come la prima volta che hanno potuto ammirarlo dalla Terra. Lo stesso cielo che è stato casa loro per un tempo immemore.
“Eccoci di nuovo” dice dopo aver sistemato la piccola parabola e portando la radio vicino le labbra.
È la stessa radio che ha usato tutti i giorni, prima nel laboratorio di Becca – quando il viso era devastato dalle radiazioni, respirare richiedeva uno sforzo immane e muoversi era necessario e inimmaginabilmente doloroso – e poi all’aperto in quella piccola macchia di verde, su quello stesso tronco caduto. Non se ne separa mai, nemmeno la notte; ed anche mentre dorme resta con le orecchie tese ad ascoltare qualsiasi parola… sillaba… suono… crepitio… qualsiasi cosa. Ormai è diventata quasi un’estensione del suo corpo, ed è definitivamente l’ancora della sua mente e del suo cuore.
“Bellamy… se mi senti.. se sei vivo –” perde un battito ogni volta che pronuncia queste parole “sono passati settecentotrenta giorni dal Praimfaya”
Tutti i giorni è come un disco rotto che continua testardamente a girare nella speranza che qualcuno lo ascolti, e certe volte si chiede se ne valga realmente la pena. Non sa nulla. Saranno riusciti ad entrare? Era riuscita a mandare la corrente oppure era stato tutto inutile? E se ce l’hanno fatta sono stati in grado di avviare le coltivazioni, il sistema di ossigenazione, e l’acqua?
In questi casi la paura l’assale, si sente sola in un mondo morto e circondata dalle ombre delle persone che ha perso. Quasi li vede aggirarsi come fantasmi, sagome scure e mute pronte a tormentarla con la loro sola presenza.
Ma tra quelle non c’è Bellamy.
La sua silhouette non è lì sulla Terra, è nello spazio. Vivo.
È questo il pensiero che la salva mentre sente il panico crescere e i respiri accorciarsi e, paradossalmente, soffocarla. È la sua mano, la voce calda e rassicurante nella sua testa, lo sguardo profondo di ossidiana, a tirarla fuori dall’oceano di sangue che la sommerge. Il pensiero di lui le impedisce di affogare in sé stessa e nelle sue azioni, la trattiene dal perdersi in Wanheda.
Con lei sono rimasti i ricordi che non può e non vuole dimenticare: il punto da cui ha visto partire il razzo; il luogo in cui si sono visti l’ultima volta – quando sentiva che quello era un addio e le parole le sono morte in gola, sostituite da un semplice “Sbrigati” –; l’angolo di laboratorio in cui hanno veramente parlato per l’ultima volta, il momento in cui gli ha raccomandato di seguire la propria testa e di non farsi trasportare da quel magnifico cuore, per il bene di tutti.
“Ho te per quello”
Le sembra di sentire il suono della sua voce che tocca tutte le corde più intime del suo cuore e le pervade la mente. Ha paura di dimenticare la sua voce rassicurante, il modo in cui pronuncia il suo nome, il tono con cui ha pronunciato questa frase, le parole che infondono coraggio in chiunque contro qualunque ostacolo, che siano i terrestri pronti a sterminare quel che rimaneva dei cento o che sia il pianeta stesso.
Crede di sentire ancora il calore del corpo del ragazzo quando l’ha abbracciata, mentre aveva ceduto scoppiando in lacrime.. l’ha tenuta insieme in ogni senso da molto prima che lei ne fosse consapevole. Le braccia strette intorno alle spalle, l’odore della sua pelle, le dita sul collo e tra i capelli che si aggrappano a lei e contemporaneamente l’aiutano a non crollare in mille pezzi, un brivido inaspettato che corre lungo la schiena e la riempie di quel tepore fino alla punta delle dita.. tutto è una presenza fantasma sulla sua cute.
Ogni volta che rivive il ricordo le sembra un’eternità, la durata di una vita intera in un unico momento, durato troppo poco ed infinitamente allo stesso tempo. Vorrebbe tornare a sentire quel calore non solo attraverso la memoria effimera ed ingannevole, sentirsi di nuovo protetta dai suoi fantasmi, dai demoni che tormentano entrambi ma che insieme sono in grado di fronteggiare.
Sentirsi di nuovo in quella stretta. Sentirsi di nuovo a casa.
Sopravvivere è il suo unico impegno. Niente più politica, stratagemmi, guerre… solo la semplice sopravvivenza dei primi giorni sulla Terra: mangiare e trovare un posto dove dormire. Il secondo non è un problema, il laboratorio dispone di alcune camere che, aggiungendo qualche mobile dalla casa di Becca, sono diventate più comode di quanto avrebbe potuto immaginare. Sarebbe potuta andare direttamente nella villa, ma quel luogo è intrinseco di ricordi dei suoi amici e dell’uomo che hanno condannato a morte nel tentativo di produrre il sangue nero. Ricorda quando è entrata nella stanza del primo piano; la sola vista di quel letto immacolato l’ha fatta sentire inadeguata, sporca, ancora una volta. Vedersi in quello specchio, come la prima volta, le ha ricordato come non sarà mai in grado di ripulirsi da tutto quel sangue che le macchia l’anima, non importa quante docce; non potrà mai riconquistare quell’innocenza che il suo aspetto potrebbe suggerire. L’ha resa consapevole della sua solitudine e di come vorrebbe esplorare quella casa non da sola ma con i suoi amici, con Bellamy.
Per il cibo la situazione è più spinosa. Le provviste della villa erano state tutte caricate a bordo del razzo, e qualsiasi forma di vita troppo debole per resistere alle radiazioni è stata spazzata via. Le opzioni sono quindi poche, ma grazie ad un severo ed implacabile razionamento delle poche risorse rimaste nel laboratorio è riuscita a sopravvivere il tempo necessario da permettere alla natura di riprendersi. È rimasta solo una piccola parte vivibile, il famoso 4% predetto da A.L.I.E.
Ha contato i giorni, ogni mattina nel laboratorio di Becca aggiunge una nuova tacchetta su di un muro. È il suo modo di tenere il conto, di realizzare visivamente la quantità di tempo trascorsa, e purtroppo sembra sempre troppo poca in confronto ai giorni che li separano dalla fine dell’ondata di radiazioni.
Certe volte è difficile resistere alla solitudine; le sembra di essere tornata in isolamento sull’Arca. Un senso di soffocamento l’assale, le urla di disperazione incastrate nella gola insieme ad un nodo causato dalla paura. È davvero l’unica persona su quel pianeta? Come può sopravvivere per cinque anni? Non rivedrà mai più nessuno di loro?
Ed è proprio perché è sola che si permette di piangere. Non deve più fingere di essere forte, non ha più bisogno di irrobustire l’armatura intorno a lei e nascondere le sue emozioni. Non deve più far finta di stare bene.
Grida finché la gola non ne può più e le manca la voce; e allora prende a pugni e calci le mura del laboratorio fino a far sanguinare le mani. Cade esausta sulle ginocchia e solo allora si permette di afferrare la radio per stringerla a sé. Non preme il pulsante di trasmissione finché non è sicura di essere troppo stanca per ricominciare ad urlare.
“Bellamy…” la voce è tremula e roca, e nonostante riprenda a piangere pronunciare il suo nome allevia la morsa intorno al suo cuore. Non sa davvero cosa dire, perciò non prosegue e resta in ascolto, rannicchiandosi sul pavimento con la radio stretta al petto.
Ha fatto dei ritratti di tutti quanti utilizzando dei fogli trovati in giro e dei carboncini che aveva tenuto con sé per chissà quanto tempo. Li ha lasciati vicino al muro con le tacche, per ricordare quale sia lo scopo di tutto ciò.
Murphy insieme ad Emori, in uno dei rari momenti in cui li ha visti sereni come nella villa di A.L.I.E.; Monty con lo sguardo pieno di vita accanto ad Harper; Raven con un sorriso radioso che da troppo tempo non affiora sulle sue labbra; e poi sua madre insieme a Kane, ed Octavia bellissima nella sua ferocia di guerriera.
Bellamy… non un’unica volta. Bellamy quando sono arrivati sulla Terra, Bellamy quando si era aperto con lei per la prima volta travolto dal senso di colpa per le sue azioni, Bellamy che le stringe la mano mentre si prepara a lasciare che la Fiamma entri dentro di lei, Bellamy che scrive il suo nome sulla lista, Bellamy quando le sorride nel rover perdonandola… Decine e decine di schizzi e ritratti per tentare di immortalare ogni sfaccettatura di Bellamy Blake.
I suoi occhi, le mani, le spalle larghe.. ha disegnato ogni particolare. Forse per la paura che la sua memoria possa trascurare qualcosa fino a farglielo dimenticare, forse per sentirsi meno sola.
Le mancano tutti. Le manca Bellamy.
“Ti prego se mi senti rispondi, la radio è sempre accesa e io sono sempre qui” riprende.
Scruta il cielo, in cerca di chissà quale segno, ricevendo solo il nulla indietro.
“Bellamy” vorrebbe dire tante cose ma non trova ancora le parole. Si aggrappa al suo nome mentre delle lacrime silenziose scivolano sulle guance.
Ogni notte, prima di andare a dormire, esce fuori dal bunker e alla luce della sola Luna – appare ancora rossa per le ceneri radioattive nell’aria – siede sulla terra morbida non poco distante, tra piccoli ciuffi d’erba color paglia che sta lentamente crescendo in quella zona.
Non accende alcun fuoco, semplicemente stringe la radio fissata al suo fianco ed alza lo sguardo al cielo notturno. La Terra potrà essere andata incontro alla seconda apocalisse, ma la distruzione non ha potuto nulla contro la bellezza delle stelle che illuminano la volta celeste. L’assenza di fonti luminose permette di osservare decine di migliaia di astri, incastonati come gemme nella notte, e di perdersi in quella tranquillità che non hanno mai potuto sperimentare completamente, né sulla Terra né sull’Arca.
L’Arca.
Il suo scopo ogni volta è cercare la luce dell’Anello, trovare quella che sembra una stella particolarmente luminosa in movimento. Non ci riesce mai, forse per colpa delle ceneri, forse perché la luce del solo Anello è molto più flebile di tutta l’Arca. Diventa allora un’occasione per individuare le costellazioni – e reprimere la fitta di delusione e paura – . 
Perseo, Andromeda, Ercole…
Ciascuna sagoma racconta storie di eroi e di fanciulle, avventure titaniche ed amori travolgenti. Osservarle la fa sentire un po’ più vicina a loro, a lui. Sorride mestamente mentre ricorda la passione di Bellamy per la mitologia e la conoscenza, un dettaglio che probabilmente non tutti hanno intuito ma che lei ha colto dalle piccole cose.
“So chi è Oppenheimer”
“Un cavallo di Troia. Ottimo piano.”
Nonostante il labbro tremi lievemente, quasi a ritmo con i respiri brevi ed emozionati, e la lacrima che scende sulla sua guancia, il sorriso si allarga inconsapevolmente.
È colmo di affetto per quel ragazzo cresciuto troppo in fretta, che ha fatto da padre e da madre a sua sorella sacrificando tutto per lei, che si è preso insieme a lei la responsabilità di novantotto ragazzini impauriti, e che si ritiene un mostro sebbene sia tutt’altro. È pieno di nostalgia.
Sicuramente se lui fosse lì la prenderebbe in giro con una delle sue battute
“Le principesse non piangono, Clarke. Che razza di Principessa sei?” E lei risponderebbe con un mezzo sorriso ed una piccola risata lacrimosa. Se fosse lì gli chiederebbe di raccontarle i miti delle costellazioni che mano a mano avrebbero identificato, e si sarebbe persa nel tono della sua voce e nel suo entusiasmo per quelle storie. Il sorriso tremante di prima, allora, si trasforma in una smorfia dolorosa.
La mano stringe impercettibilmente la radio.
Deve convincersi che non sta aspettando qualcuno che non tornerà mai, che c’è ancora speranza.
Non vuole credere che tutto sia inutile, che ogni frase da lei pronunciata sia solo un suono che rimbomba nell’atmosfera che nessuno ascolterà; che il nome di Bellamy sia un eco che svanisce lentamente nell’oscurità tra cielo e terra.
“Mi manchi..” le uniche parole che riescono ad affiorare dal nodo formatosi in gola.
Non voglio dimenticarti, non voglio dimenticare nessuno di voi. Non diventare uno sconosciuto. Ti prego fammi sentire la tua voce, fammi ricordare com’è vivere un momento che dura una vita.
Abbracciami, parlami, guardami.
“Ma ho ancora speranza, respiro ancora
 
 
 
My love, my love
Where've you gone?
I turned around and now
I'm alone
Will I ever understand it?
Will I make it to the other side?
I almost died
The day I lost you
I'll keep breathing
Til my heart stops
(Til my heart stops - Too Far Moon)
 
Il fuoco è l’unica fonte di luce.
È una notte senza luna, ma piena di stelle sopra di loro. Gli unici rumori udibili sono il basso crepitio della legna ed i loro respiri.
Abbassa lo sguardo su di lei, più bella della natura placida che li circonda. Anche lei lo sta guardando, gli occhi azzurri come l’oceano puntati diritti nei suoi. Il fuoco crea un gioco di ombre tra i capelli biondi e di punti luminosi sul suo viso disteso, e le sue labbra sono salde in un sorriso tranquillo.
D’istinto l’abbraccia ed è come se in questo momento l’intero universo fosse racchiuso tra le sue braccia. Percepisce ogni parte di lei: il profumo inebriante mentre affonda nell’incavo del suo collo, i capelli morbidi tra le dita, il calore della sua guancia sul collo, dove può scommettere che riesce a sentire il ritmo furioso del proprio cuore; i loro corpi premuti l’uno sull’altro.
Sente di essere a casa, di respirare veramente dopo anni come se per tutto quel tempo avesse vissuto sott’acqua, come se il dolore di averla persa avesse impedito al suo corpo di funzionare correttamente e fosse andato avanti solo grazie – o per colpa – ai battiti incessanti del suo cuore infranto.
Si sveglia di soprassalto in un bagno di sudore, le mani protese in avanti e le guance rigate di lacrime che devono essere scese inconsapevolmente durante il sonno. Per un attimo è confuso e disorientato, la cerca convinto di trovarla al suo fianco col volto illuminato dal fuoco da campo. Solo quando i suoi occhi si adattano alla luce fioca e vagano per le pareti metalliche dell’Arca ed avverte il costante ronzio dell’impianto di areazione ricorda la realtà, per poi essere completamente schiacciato da essa.
Questo tipo di sogni è il peggiore.
A volte sogna la sua morte. Comincia col vedere in successione tutte le persone che ha perso e coloro che sono periti a causa sua, Gina, Jasper, Lincoln, la maggior parte dei cento.. i loro volti vividi e reali come le allucinazioni delle noccioline Jobi; e poi sente quella singola parola che sa che lo tormenterà per sempre col senso di colpa ed il rimpianto. “Sbrigati”
Vede ogni macabro dettaglio del Praimfaya infuocato che la colpisce e la divora, mentre lui è al di là di una finestra dove sa che si salverà alla devastazione e che non può aprirla, così non gli resta che assistere impotente e gettarsi contro il vetro gridando e gridando al massimo delle sue capacità, piangendo come un bambino.
Ma i sogni come questo vanno bene perché svegliarsi è un sollievo, non deve guardare ciò che pensa sia accaduto.
Quando invece non c’è né morte né distruzione, ma solo un cielo stellato ed il suo volto etereo e sorridente diventa una dolce tortura che la sua mente gli infligge. Svegliarsi significa andare in pezzi, vuol dire una pugnalata velenosa al cuore e col dolore che sembra aumentare ad ogni maledetto battito; ciascuna pulsazione è sofferenza che si diffonde nelle vene, un rimbombo sordo nei polsi e nel collo che non ha alcun significato. È solo l’inerzia di vivere.
Si siede sul materasso freddo, ed asciugandosi il viso tenta di riprendere un minimo di controllo. Le ha promesso che l’avrebbe fatto, che avrebbe usato la testa e non si sarebbe fatto trascinare dalle emozioni.
Ma questo non vuol dire che non siano lì, a sconvolgergli impetuose cuore e mente lontano dagli occhi di tutti nel buio della notte.
Ma oggi sono settecentotrenta giorni dal Praimfaya.
Settecentotrenta giorni da quando hanno lasciato dietro di loro il bunker a Polis e la Terra stessa.
Settecentotrenta giorni da quando Clarke è morta.
Per ricordare questo giorno hanno deciso che ogni anno in questa occasione lasceranno stare i problemi dell’Arca, non si preoccuperanno del riscaldamento poco efficiente o dell’impianto di aerazione che produce a stento l’aria per mantenerli in vita. No, per almeno dodici ore ininterrotte la loro unica occupazione sarà ricordare e bere quanto possibile per annebbiare la mente dalla tristezza.
Il luogo più naturale dove farlo è la sala in cui consumano quotidianamente i loro – scarsi – pasti. Non è la mensa di Arkadia, di quella probabilmente non sarà rimasto più nulla, ma c’è il minimo indispensabile, un tavolo largo e qualche sedia. C’è anche un piccolo lucernario dal quale si può osservare la Terra che solitamente viene ignorato.
Hanno istituito una piccola cerimonia: siedono a terra con lo sguardo rivolto verso la piccola finestra, ognuno munito del proprio bicchiere, ed una bottiglia del liquore di Monty che passa tra di loro. Nessuno ha intenzione di dire qualcosa, ma non sembra giusto nei loro confronti perché “I morti vanno ricordati ed onorati” come aveva detto Echo. Perciò hanno deciso di usare delle frasi in Trigedasleng, pensando anche a Lincoln, Roan, Luna e chi dei terrestri era stato loro amico.
Hofli graun en folau na gon won. Medo en keryon, kriken sonraun en branon. Kom graun, oso na groun op… Kom folau, oso na gyon op.
Possano la terra e la cenere diventare uno. Corpo e spirito, vita vecchia e nuova. Dalla terra nasceremo…dalle ceneri risorgeremo.
Harper l’ha suggerita, è quello che aveva detto Niylah durante i funerali ad Arkadia e sembra appropriato. Nessuno ha avuto da controbattere.
Pronunciare i nomi.. è ancora troppo presto, per tutti. Tuttavia ciò non impedisce alle loro menti di scavare nei ricordi, quelli belli e quelli brutti, e di riviverli con la consapevolezza che le persone che hanno tanto amato non ci sono più.
Perciò oggi non si rimprovera per le lacrime o i singhiozzi soffocati che in questo momento lo stanno sopraffacendo. Oggi può permettersi di lasciarsi andare, seppure poco, nel buio di quelle quattro pareti metalliche senza infrangere le sue promesse e senza infangare la sua memoria.
Nonostante le gambe siano come gelatina, si alza dal letto e senza afferrare la giacca né mettere le scarpe esce dalla stanza con una direzione ben precisa. Ha la pelle d’oca per l’aria fredda che gli lambisce le braccia nude ad ogni passo, ma quasi non lo avverte. Si ferma solo quando arriva alla sua destinazione ed afferra la bottiglia.
Bruscamente sbatte la schiena contro la parete di fronte la finestra e scivola verso il basso fino a sedersi, appoggiando il braccio destro sul ginocchio alzato. Si rigira la bottiglia tra le mani, leggendo l’etichetta quasi con scherno.
“The Baton – Da aprire sulla Terra”
Vorrebbe poter ridere dell’ironia. The Baton, Il Testimone, un drink che non ha mai potuto condividere.
“Prendine uno anche per me”
Spronato dalla voce cristallina nei suoi ricordi apre la bottiglia e prende un sorso del liquido amaro che contiene, accogliendo con gratitudine il bruciore.
Deve ringraziare Monty. È incredibile come quel ragazzo sia riuscito a produrre del liquore dagli scarti della coltura di alghe. Non gliel’ha mai chiesto, eppure gli fa sempre trovare qualcosa in questa bottiglia, come se attraverso questo piccolo gesto volesse fargli sapere che non è solo.
Malgrado il ragazzo soffra infinitamente per la perdita di Jasper, malgrado tutti loro soffrano Bellamy sente sempre su di sé sguardi che lo compatiscono, dai più ovvi di Harper a quelli velati di Raven o Murphy. Non vuole la loro pietà, essere visto come un cucciolo bastonato. Non ha bisogno di quegli occhi che sembrano dirgli “Devi solo lasciarla andare”; vorrebbe urlargli contro, dare sfogo alla rabbia che prova quando li incrocia. Ancora una volta la sua voce, però, lo riporta alla ragione.
“Hai un cuore così grande Bellamy; la gente ti segue, li ispiri grazie a questo” un tocco leggero sul petto proprio sopra quel – maledetto – cuore “Ma l’unico modo per assicurarci che sopravvivremo è se usi anche questo” le dita sul suo volto sono un fantasma che avverte ancora.
Vorrebbe urlare contro di lei, contro il mondo che gliel’ha portata via, contro sé stesso che l’ha lasciata indietro e l’ha uccisa. Cosa può contare quella stupida promessa se lei non è lì?
Manda giù un altro sorso generoso e lascia vagare gli occhi fuori la finestra, ora sopraffatto dall’angoscia. La Terra non è più completamente in fiamme, finalmente non sembra una sfera di fuoco; il Praimfaya ha portato via il caratteristico colore blu lasciando dietro di sé solo il rosso della devastazione, e le radiazioni che continuano a divorare il pianeta. Non è possibile che sia sopravvissuta è questa la verità, e la consapevolezza gli provoca un intenso dolore al petto. Anche quando tra tre anni potranno tornare e tutto non sembrerà altro che un sogno infinito, lei non sarà lì. Non potrà mai più vederla, accarezzare con lo sguardo la sua figura minuta e fragile eppure così intensa allo stesso tempo; non potrà dire tutto ciò che avrebbe voluto, esprimere a voce alta i sentimenti che lo schiacciano mentre la guarda negli occhi. Non potrà mai sfiorare il suo volto con le dita e fare sue le labbra rosee da cui sono uscite tante parole ormai marchiate a fuoco dentro di lui, sulla sua anima.
L’ha lasciata indietro, abbandonata al suo destino su quel pianeta morente. Ha salvato sé stesso e non lei. È colpa sua, l’ha uccisa lui. Sarebbe dovuto restare e lasciare partire gli altri senza di lui. Sarebbe dovuto rimanere ad aspettarla nel laboratorio, morire insieme a lei. E invece è scappato come un codardo. Forse non appena il razzo è decollato lei è arrivata lì; forse si è vista chiudere in faccia la porta e si è sentita tradita e tagliata fuori dall’unica possibilità di salvezza. L’ultima soluzione rimastale e che proprio lui le ha rubato.
Insieme.
Eppure eccolo lì, al sicuro nello spazio e senza di lei al suo fianco a scrutare dall’alto quella che pensavano di poter chiamare casa. Aveva scritto il suo nome sulla lista affinché vivesse, quindi perché non ha fatto in modo da mantenere quell’impegno? Perché non l’ha salvata?
“Grazie, per avermi tenuto in vita”
Ha fallito.
Si alza, sentendo l’urgenza di muoversi quasi potesse soffocare questa sofferenza semplicemente cambiando posizione. La realtà è che ovunque vada tutto conduce sempre a lei.
Ha trovato la sua stanza quasi un anno fa. O meglio, la cella dove ha vissuto per un anno in isolamento. L’Anello dell’Arca potrà anche funzionare, ma ci sono continue riparazioni da effettuare e sempre nuovi problemi; è per questo che Raven lo aveva mandato a cercare qualsiasi componente meccanico e/o elettronico utile, mentre lei e Monty pensavano ad un modo per risolvere i guasti. Si era messo a cercare stanza per stanza, così da poter anche stilare un elenco mentale delle risorse di cui disponevano: coperte, materassi... qualsiasi cosa utile. Era l'ultimo ambiente che gli restava e poi avrebbe perlustrato tutte le camere rimaste nell'Anello. Era entrato usando la chiave magnetica datagli da Monty, trasformata da lui ed il meccanico in un passepartout, ed i suoi occhi avevano catalogato velocemente la presenza di una branda vicino al muro e di un piccolo mobile nella parte opposta della stanza. Con due grandi falcate si era avvicinato all'unico pezzo di arredamento, nella speranza che magari vi fosse qualcosa all'interno.
Vuoto. Aveva chiuso lo sportello sospirando pesantemente, avrebbe potuto fargli comodo anche solo trovare una maglietta bucata. Raddrizzando la schiena stava per avviarsi all’uscita ma era stato bloccato da qualcosa sul muro sopra la branda. Si era avvicinato lentamente, quasi con circospezione, dopo tutto quel tempo ancora abituato a doversi tenere sempre pronto per attacchi a sorpresa e trappole mortali, sebbene a livello razionale fosse consapevole di essere relativamente al sicuro. Era il disegno di una cascata, circondata da folti alberi e terminante in un fiume placido. Era realizzato magistralmente e, nonostante di fantasia, lo aveva riportato indietro in mezzo alla natura: gli sembrava di rivedere gli alberi verdi brillanti intorno l’accampamento dei cento, il fiume gelido che li ha dissetati e le montagne imponenti in lontananza.
Improvvisamente la realizzazione lo aveva colpito, lasciandolo stordito e boccheggiante mentre fissava ad occhi sgranati il muro. Come scottato aveva fatto un passo indietro e, allo stesso tempo,  si era girato su sé stesso – tentando di ignorare il tremore che aveva cominciato a diffondersi nel suo corpo, la stretta alla gola che impediva all’aria di passare ed il battito accelerato del cuore talmente forte da riuscire ad avvertirlo nelle dita – osservando freneticamente ogni altra superficie di quella camera. Allora li aveva visti, decine e decine di disegni: piccoli fiori, boschi immaginari, animali ritratti ricordando le descrizioni dei libri studiati. Aveva abbassato lo sguardo al pavimento, sopraffatto, ed anche lì aveva trovato il disegno di una notte stellata vista attraverso i rami degli alberi.
Aveva deciso di uscire, di scappare, da quel luogo.
Aveva chiuso violentemente la porta senza guardarsi indietro, e solo in quel momento il suo corpo gli aveva concesso di superare il nodo in gola e di prendere il respiro che per tutto quel tempo gli aveva negato. Con ancora le mani tremanti e la testa vorticosa si era diretto nella sala di controllo per consegnare i pochi componenti trovati. Probabilmente la sua espressione parlava da sé, forse anche di più dopo che Murphy gli aveva chiesto se avesse visto un fantasma e per risposta aveva ricevuto un pugno in pieno volto
Nessuno è entrato in quella stanza. Lui stesso si era ripromesso di non andarci nuovamente, eppure certe notti si è trovato ad aprire la porta e scivolare furtivamente dentro. Anche adesso sta camminando silenziosamente nel corridoio diretto verso quella camera e portando con lui la bottiglia.
Entra chiudendo la porta dietro di sé. Sa che Raven il giorno dopo lo verrà a cercare lì quando non l’avrà trovato in camera sua, già altre volte lo ha scoperto addormentato su quel pavimento. Siede vicino la branda appoggiandosi al muro, osservando i disegni a terra davanti a lui.
Avrebbe voluto vederla disegnare più spesso sulla Terra, esprimere appieno questo suo talento avendo a disposizione dei veri soggetti. Gli sarebbe piaciuto osservarla in un momento di tranquillità concentrata su di un foglio con un carboncino in mano, magari avrebbe cercato per lei del materiale nei vari bunker sparsi nella foresta. Desiderava vederla più felice e spensierata.
Ma non sarebbe mai stato possibile per una persona altruista come lei: voleva tenere tutti al sicuro, era pronta a sacrificare qualsiasi cosa per il bene del suo popolo. Ha sempre saputo che non si sarebbe mai tirata indietro, ne è stato consapevole dal loro primo scontro; era piena di coraggio per una ragazza così giovane, devota al benessere dei cento a tal punto da mettere da parte il proprio. Si era presa cura di ognuno e perfino di lui, che era stato tanto sprezzante nei suoi confronti accecato dal rancore di una vita difficile e per quelle leggi ingiuste che avevano fatto rinchiudere sua sorella ed espellere sua madre; rappresentava quei privilegiati che avevano deciso di togliergli tutto, eppure non era per niente come loro.
Avrebbe voluto sollevarla dai fardelli che si era auto-imposta, risparmiarla dal sentirsi schiacciata dal senso di colpa, proteggerla.
Gli sfugge una risata amara. Non è stato in grado di vegliare su sua sorella, la sua responsabilità, la persona a cui ha dedicato e che è stata la sua vita da quando aveva sei anni, come avrebbe potuto pensare di poter proteggere lei?
Però lei non aveva bisogno di essere salvata; non necessitava di alcun cavaliere dall’armatura scintillante – o forse è più azzeccato un fucile automatico perfettamente funzionante – perché lei era l’eroina della storia. Era la Principessa che non aspetta inerme nella torre, che afferra una spada ed affronta personalmente il mostro; la Principessa che salva il cavaliere stesso.
Lo ha salvato da morte certa, dal senso di colpa, da sé stesso. Avrebbe voluto contraccambiare il favore almeno una volta.
La Principessa avrebbe meritato il lieto fine che adesso sta vivendo l’inutile cavaliere.
Mentre beve l’ultimo sorso si rende conto, quasi con orrore, che sta pensando di lei al passato. La consapevolezza lo porta sull’orlo del panico.
Non vuole dimenticarla. Probabilmente non ne sarà mai in grado, ma se un giorno si svegliasse e non ricordasse il colore esatto dei suoi occhi? O se non riuscisse più a ricordare come le sue labbra si allungassero in un mezzo sorriso per una brutta battuta che lui aveva fatto, facendo esplodere il suo cuore in un ritmo forsennato? Se dimenticasse tutto di lei?
Non si è accorto di aver cominciato quasi ad iperventilare, gli occhi annebbiati da un velo di lacrime e i pugni chiusi dolorosamente ai lati del corpo.
Non vuole. Non può.
Deve ricordarla. Deve ricordare tutti quelli che non ce l’hanno fatta, non ha il diritto di dormire sonni tranquilli dopo le azioni di cui si è macchiato. Non merita notti serene da quando ha sparato al Cancelliere; non da quando ha distrutto la radio di Raven e lasciato morire trecentoventi persone innocenti per la sua codardia. E soprattutto non da quando ha lasciato indietro a morire l’unica persona che ha visto in lui la luce, sotto tutti quegli strati di sangue ed oscurità.
Reclina il capo incontrando il freddo metallo della parete, lasciando scivolare una stilla salata dagli occhi chiusi.
Continuerà a vivere portando con sé il peso di tutto questo, si dedicherà agli altri come avrebbe fatto lei.
Andrà avanti, compirà ogni agonizzante respiro finché il suo cuore batterà.
 
 
 
 
Grazie mille per aver letto, spero che questo mio “sfogo” vi sia piaciuto.
Scrivere questa storia è stato catartico, e devo ammettere di essermi dovuta fermare ogni tanto perché non vedevo più niente attraverso le lacrime. Questi due sono la mia rovina…
Se qualcuno fosse curioso le frasi in Trigedasleng le ho trovate qui:
http://trigedasleng.info/translations/
Bene, non voglio annoiarvi troppo con le mie chiacchiere ma devo fare una dedica speciale alla dolcissima ClaireOwen, sei stata super paziente con i miei dubbi ed è grazie ai tuoi incoraggiamenti se sono riuscita a scrivere decentemente – o almeno spero di averlo fatto – la parte di Clarke.
Grazie ancora e, se volete, ci vediamo nelle recensioni!
Un bacio. 
   
 
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