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Autore: Luana89    29/08/2017    0 recensioni
«Perché?». Mi guardò dubbiosa.
«Perché cosa?»
«Perché rimani se odi l’idea di mostrarmi il tuo corpo?». Ero sinceramente curioso.
«Perché .. – una pausa, le sue dita sul gancio del reggiseno. Lo tolse – preferisco questo piuttosto che..»
«Piuttosto che?»
«Tornare in quella casa». Le dita sottili e dalle unghie corte e colorate sfilarono via le mutandine. Nuda e imperfetta.
«Lo preferisco anch’io». Continuò a fissarmi dubbiosa, non capiva se parlassi di lei o di me stesso. Non avrei comunque esaudito la sua curiosità. Per il momento. Le indicai il divano, la prima cosa che fece fu coprirsi con il lenzuolo.
«Come devo mettermi? Insomma c’è qualche posa precisa..?» quando era nervosa parlava velocemente, memorizzai anche quel dettaglio.
«In effetti si». Mi avvicinai a lei, la costrinsi a sedersi e piegare le ginocchia al petto, il lenzuolo cadde appena scoprendole un seno. Le braccia abbandonate mollemente, le dita che accarezzavano i piedi candidi, le spalle ricurve come se portasse addosso il peso del mondo e il viso chino e appena rivolto alla finestra.
«Questa non è una posa..»
«Lo è. E’ la tua». Mi guardò e stavolta ero sicuro avesse capito. Era così che la vedevo, un’anima stanca e ferita. Come me?
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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II



Il rumore assordante delle sirene è il sottofondo dell’ennesima mattinata qui a Chicago, scesi i tre gradini di casa guardandomi attorno per cercare di capire chi fosse morto stavolta. Non era una scena inusuale anzi, almeno due volte a settimana i poliziotti venivano a chiedere informazioni e l’ambulanza portava via un cadavere. Stavolta era toccato a Raphael Blacke, un ragazzino afroamericano di undici anni. Undici fottuti anni.
«Tu vivi qui?». Il poliziotto mi affiancò con espressione severa, erano tutti prevenuti ormai. Consapevoli del fatto che chiunque sapesse non avrebbe parlato. Mi limitai ad un cenno d’assenso col capo mentre attorcigliavo le cuffie celesti tra le dita.
«Hai visto qualcosa?». Domanda da prassi, così come il ‘’no’’ secco in risposta. In effetti non avevo visto un cazzo, e anche se lo avessi fatto non lo avrei di certo detto agli sbirri. A che pro? Per finire come il giovane Raphael se non peggio? Mi allontanai alla svelta ignorando gli occhi penetranti del poliziotto che mi seguirono fin quando non svoltai l’angolo. Sentivo il sudore imperlarmi la fronte, lo asciugai con la mano e notai i numeri scritti in nero. Erano passate circa quarantotto ore dal mio incontro con quel ragazzo, non avevo lavato la mano per non sbiadire il suo recapito. Per alcuni suonerebbe come un’idiozia, perché non appuntarlo su di un foglio e curare la propria igiene personale? Era una scelta di comodo, se lo avessi segnato da qualche parte gli avrei dato importanza. ‘’Perché non lavarsi la mano per due giorni è meno grave?’’, misi a tacere il grillo parlante della mia coscienza attraversando con disattenzione la strada. Un auto si accostò e il viso di Juan mi diede ufficialmente il suo buongiorno.
«Dovresti stare a casa per oggi, la situazione è un po’ . .» non finì di parlare, non ce n’era bisogno. Era ovvio che lui fosse complice di quell’omicidio. Respirai profondamente.
«Non ho piantato io un proiettile sul cranio di un bambino». La mia voce uscì più acida del dovuto.
«E’ stato un errore». Quindi i Latin Kings commettevano sbagli? Mi lesse quella domanda negli occhi e la sua espressione divenne livida. Respirai ancora.
«Un ragazzino afroamericano che passa per caso nella zona ispanica, non sono sicura sia stato un ‘’errore’’. Ma sai di cosa sono sicura? – ci fissammo per pochi istanti – sono sicura che i Crips verranno qui a farvi il culo Juan. E francamente non voglio esserci». Mi avviai verso il marciapiede ignorando il rumore della portiera, almeno finché non sentii la presa dolorosa sul mio polso. Provai a divincolarmi ma rischiavo di spezzarmelo, quindi desistetti.
«Da che parte stai Hope?». Aveva usato un tono così mellifluo da accapponarmi la pelle. Io non stavo da nessuna parte, provavo ribrezzo per entrambe le bande senza alcuna distinzione.
«Non è un obbligo per me stare dalla parte di qualcuno, non sono un vostro membro». La presa divenne sempre più dolorosa, urlai ma non mostrò pietà.
«Ed è qui che ti sbagli dolcezza, tu sei la mia ragazza. La fottuta ragazza che mi scopo, e se io ti chiedo da quale parte stai ..la risposta è semplice: la mia». Il suo viso vicinissimo, aveva bevuto lo sentivo dall’alito. Mi baciò e forzai ogni nervo del mio corpo per non scostarmi disgustata. Scrollai il polso dalla presa osservando le impronte lasciatemi come ennesimo regalo.
«Aveva solo undici anni..» sentii il magone ostruirmi la gola, alle volte avrei voluto spogliarmi della pelle e scappare via.
«E’ stato un errore bambolina, non pensarci troppo. Non è un tuo problema. Fatti bella stasera, andremo a divertirci». Mentre lo fissavo allontanarsi ebbi l’impulso di tornare dal poliziotto e fare il suo nome. Le sirene passarono in quel preciso momento e i miei occhi incrociarono quelli del poliziotto di poco prima, era afroamericano anche lui. Chinai il capo infilando le cuffie nelle orecchie fuggendo dalla mia vita.
 
–  Quarantotto ore, un bel record per cinquanta dollari l’ora, non credi?
–  Hai detto Hyde Park?
–  L’ho detto si.
–  A che ora?
–  Quando vuoi, non ho impegni.
–  Mandami l’indirizzo.
 
Riattaccai col cuore in gola fissando la mano ancora sporca d’inchiostro. Avevo marinato la scuola, non avevo un posto dove andare e neppure un cent nelle mie tasche logore. Solo chi vive una vita di continui stenti può capire la sensazione di non possedere nulla, neppure un nichelino per un tozzo di pane. Ti senti svuotata, ti senti sola, e il vuoto nello stomaco è paragonabile a quello che si spalanca al centro del tuo petto. Qualcuno tempo fa disse che i soldi non fanno la felicità, sono d’accordo ma sicuramente averli ti aiuta ad affrontare i problemi a pancia piena e non è un male. ‘’Tutte stronzate’’, io avevo chiamato a prescindere dal denaro, volevo risentire quella sottile scossa elettrica ancora una volta.
 
Il South Side di Chicago non era sicuramente una zona tutta fronzoli e merletti, nonostante il dispendio di energie per risollevarsi le bande di strada anche lì spadroneggiavano indisturbate. Un ragazzino mi superò velocemente, notai il rigonfiamento sotto la maglia logora, probabilmente era una pistola. Lì tutti possedevano un’arma, alcuni l’avevano acquistata per semplice protezione finendo poi col somigliare ai delinquenti che tanto detestavano. Il palazzo di Mago Merlino era meno fatiscente del mio dovevo ammetterlo, ma niente di che comunque. Suonai una volta, poi un’altra e un’altra ancora ma nessuno rispose. Sentivo i piedi anchilosati, sarei dovuta semplicemente andar via. Aveva detto lo avrei trovato lì, aveva mentito.
«Caspita, sei venuta davvero». Riconobbi la voce, mi voltai troppo velocemente e con troppa enfasi.
«Io mantengo sempre la mia parola, dove stavi?». Sollevò una busta estraendo delle chiavi dalla tasca dei jeans, i suoi erano perfetti a differenza dei miei.
«Ho notato che mancavano alcuni colori, quindi li ho acquistati». L’androne era buio, qualcuno aveva rotto la luce interna probabilmente con una pietra. Approfittai della penombra per osservarlo meglio, aveva un portamento sicuro e quasi elegante a tratti, nonostante vivesse al quinto piano non c’era ombra di stanchezza, il suo fiato sempre regolare. Era uno sportivo? Stavo diventando sociopatica come lui a furia di fissare i dettagli.
La prima cosa che notai una volta dentro fu l’assenza quasi totale di mobili e il persistente odore di tempera, continuai comunque a seguirlo. La casa possedeva tre stanze in totale – escludendo il bagno – , il soggiorno e la cucina all’ingresso, quella che doveva essere la sua camera lungo il corridoio a destra e infine lo studio il luogo dove mi condusse. Quadri appesi ovunque, tele incomplete, odore forte che impregnava le mie narici, un divano letto o almeno tale sembrava dall’aspetto e una scrivania cosparsa di colori, pennelli e cose ai miei occhi sconosciute.
«Vuoi sul serio che posi per te?». Mi sorrise ambiguamente annuendo.
«Non offro denaro a chiunque.»
«Okay, allora dovrai rispondere ad alcune mie domande». Lo seguii con gli occhi, si poggiò alla scrivania incrociando le braccia al petto. Erano possenti e delineate. Faceva sport?
«Chiedi, ma risponderò a mia discrezione.»
«Fai sport?». Ma che cazzo di domanda era. Dio che imbecille.
«Quando capita si..» mi fissò dubbioso continuando a sorridere.
«No no, resetta non era questa la domanda – sollevai le mani e lo vidi ridere, mi ricordai del numero ancora presente sul palmo e le riabbassai subito – quanti anni hai?»
«Ne ho ventidue». Quindi era più grande di me di cinque anni?
«Tu diciassette, giusto? Hai l’aria della liceale». Ecco che tornava Sherlock, non risposi.
«Come ti chiami?». Mi avvicinai scrutandolo.
«Chiamami Aj». Quindi non era questo il suo nome?
«Perché dovrei chiamarti così?»
«Perché lo permetto solo alle persone simpatiche, sei fortunata». Lo ero? Iniziavo ad avere qualche dubbio.
«Vivi solo? Sei di Chicago? Ti mantieni dipingendo?». Okay sembravo compulsiva.
«Vivo solo, non sono di Chicago e mi capita di guadagnare con i miei quadri». La terza risposta suonava ambigua e lo sapeva anche lui. Quindi non era di Chicago, buono a sapersi. Non avrebbe risposto ad altro, lo capivo dai suoi occhi. Rovistò nelle tasche estraendo un pacco di sigarette ancora sigillato, lo aprì gettando le carte a terra senza cura accendendone infine una. Il fumo alterò la mia vista e il suo viso divenne sfocato.
«Ne vuoi una?». Afferrai il pacchetto scrollando le spalle, non avevo i soldi per il cibo figuriamoci per le sigarette. Mi sedetti sul divano fumando e fissandolo.
«Ti fermerai molto qui?». Per qualche motivo mi sembrava vitale saperlo.
«Chi lo sa, una cosa è sicura: sparirò quando meno te lo aspetti». Sorrise in maniera così accattivante da far perdere consistenza alla sua affermazione. Lo mandai a cagare tornando a fumare, gli sbuffi salivano confondendosi con la polvere che aleggiava nella camera.
«Che tipo di ritratto hai intenzione di farmi?»
«Nudo». Centellinò quelle parole con cura, lo disse con calma e enfasi per vedere la mia reazione. Ci misi tutta la mia buona volontà per non strozzarmi.
«Vuoi che posi nuda ..per te?»
«Da vestita non mi serviresti a molto». Questo figlio di puttana.
«Perché proprio io?»
«Due motivi, ma te ne dirò solo uno per il momento: i tuoi occhi.»

 

 

AJ

 
Era spaesata, una bambina che imitava gli adulti. Era seducente per questo probabilmente, non si rendeva minimamente conto del suo potenziale. Del suo reale potenziale. Non quello usato per far le moine al primo stronzetto in strada.
«I miei occhi? Ho sempre pensato fossero.. inquietanti». Sorrisi, li aveva in effetti enormi e quando ti fissava sembrava scandagliarti dentro.
«Sono affascinanti e mostrano tutte le verità che celi. Quando stavi ferma di fronte quella vetrina trasudavano pietà in maniera imbarazzante. Imbarazzante per chi ti osservava però, non per te». L’avevo turbata, era evidente. La brace della sigaretta cadde a terra confondendosi col pavimento. Si alzò respirando rabbiosa.
«Non è pietà quella che cerco, sai dove puoi infilartela?»
«Scommetto nello stesso posto in qui dovrei infilarmi i cinquanta dollari giusto?». Era uno spasso.
«Esatto fottuto bastardo». Mi diede le spalle allontanandosi come un tornado furioso, mi bastò allungare una mano per riacchiapparla.
«Vieni picchiata spesso?». Mi fissò interdetta nascondendo il polso tra le pieghe della felpa.
«Sei sempre così stronzo?»
«No, con te ci sto andando piano perché voglio davvero ritrarti.»
«Nuda». Sorrisi.
«Nuda, si». Sorrise anche lei, ma in maniera diversa.
«Sei una specie di maniaco sessuale? Con la scusa del dipinto ti spari seghe su seghe pensando ai corpi nudi». Mi grattai il mento.
«Che c’è di male nella masturbazione? Tu è evidente ne pratichi poca, non conosci per nulla il tuo corpo». Ci fissammo e i suoi occhi mi misero di nuovo a disagio.
«Qual è la seconda motivazione?»
«Ah quella .. hai il culo più bello di Chicago». Silenzio. Le nostre risate si fusero in un’unica cosa.
 
Hope Kurtzman, il suo cognome mi ricordava il mio insegnante di violino. Diciassette anni e una vita che cadeva a pezzi. Sentivo i suoi occhi fissarmi mentre diluivo i colori, probabilmente invidiava la mia vita. Pensava fosse perfetta nella sua solitudine, sorrisi sollevando il capo.
«Non ti decidi ancora a spogliarti?». La vidi sbuffare, era imbarazzata ma non voleva ammetterlo.
«Vuoi che ti aiuti?». Non attesi risposta, mi alzai andandole incontro. Le mie mani si poggiarono sui suoi fianchi scendendo verso il bottone, aprii la cerniera e solo in quel momento le sue dita mi bloccarono.
«Riesco anche a farlo da sola, stronzetto.»
«Ogni capo tolto dieci dollari in più. Almeno per oggi». Le sorrisi ambiguamente e capii quanto fremesse dalla voglia di schiaffeggiarmi.
«Pensi di riuscire a comprare tutto col denaro?»
«No». Non era la risposta che si aspettava. Si allontanò iniziando a svestirsi, via i jeans e poi la felpa, mancava solo l’intimo. La fissai attentamente, aveva un bel corpo e un’altrettanto bella anima.
«Devo togliere anche questi?»
«Ovviamente». Era divertente.
«Sei un lercio..» mormorò quelle parole a denti stretti, non mi toccò più del necessario. In fondo per quanto volesse far ricadere la colpa su di me era lei a rimanere ancora.
«Perché?». Mi guardò dubbiosa.
«Perché cosa?»
«Perché rimani se odi l’idea di mostrarmi il tuo corpo?». Ero sinceramente curioso.
«Perché .. – una pausa, le sue dita sul gancio del reggiseno. Lo tolse – preferisco questo piuttosto che..»
«Piuttosto che?»
«Tornare in quella casa». Le dita sottili e dalle unghie corte e colorate sfilarono via le mutandine. Nuda e imperfetta.
«Lo preferisco anch’io». Continuò a fissarmi dubbiosa, non capiva se parlassi di lei o di me stesso. Non avrei comunque esaudito la sua curiosità. Per il momento. Le indicai il divano, la prima cosa che fece fu coprirsi con il lenzuolo.
«Come devo mettermi? Insomma c’è qualche posa precisa..?» quando era nervosa parlava velocemente, memorizzai anche quel dettaglio.
«In effetti si». Mi avvicinai a lei, la costrinsi a sedersi e piegare le ginocchia al petto, il lenzuolo cadde appena scoprendole un seno. Le braccia abbandonate mollemente, le dita che accarezzavano i piedi candidi, le spalle ricurve come se portasse addosso il peso del mondo e il viso chino e appena rivolto alla finestra.
«Questa non è una posa..»
«Lo è. E’ la tua». Mi guardò e stavolta ero sicuro avesse capito. Era così che la vedevo, un’anima stanca e ferita. Come me?

 
 

Hope

 
«Posso muovermi?». Era la decima volta che lo chiedevo.
«No». Ed era la decima volta che mi rispondeva così. Sbuffai stanca, sentivo gli arti intorpiditi dall’eccessiva immobilità. Aj invece sembrava instancabile, mi piaceva osservarlo in quei momenti. La faccia da stronzetto saccente crollava in favore di qualcos’altro, qualcosa di più adulto e affascinante. Osservai una piccola goccia di sudore sul suo collo, scivolava giù perdendosi all’interno della maglia, lungo la pelle nascosta e celata a differenza della mia.
«Finirai oggi di questo passo». Per la prima volta sorrise sollevando lo sguardo su di me, fissandomi davvero.
«Non credo, sto solo delineando le curve al momento». Tornò a fissare la tela, ero curiosa in effetti di vedere il risultato.
«Parliamo, questo silenzio mi snerva». Ero sincera, stare così mi ricordava la mia nudità.
«Okay, di cosa?». La sua voce distratta ma pressante al tempo stesso.
«Come ci riesci? Dico.. come diamine riesci a capire quelle cose, si insomma quelle cose sulla gente, come con me in caffetteria». Sbattei le palpebre fissando il sole tramontare.
«Sono sempre stato un tipo attento ai dettagli, la mia mente è iperattiva. Alle volte risulta compulsiva quasi.»
«Cocaina?». Lo dissi scherzando ma ricevetti solo silenzio. Spianai la fronte muovendo di scatto il capo.
«Non muoverti.»
«Cocaina..?». Non so perché fosse vitale per me saperlo.
«Vuoi sapere se sono un tossico come il tuo pseudo fidanzato?». Lo stava rifacendo.
«E tu che diamine ne sai?»
«Questa è facile. Sei bella, sei molto bella, ma abiti in un quartiere orrendo. Avrai attirato attenzioni, facendo due più due il risultato è semplice». Rividi il viso di Juan.
«Forse, ma che ne sai che a me non piaccia?». Lo vidi fermarsi e riporre il pennello, sollevò il capo fissandomi per la seconda volta mentre un lento sorriso delineava le labbra.
«Io questo non l’ho mai detto». Mi aveva battuta, decisamente.
 
Novanta dollari riempivano adesso le mie tasche mentre uscivo dal portone lungo la strada solitaria. Mi sentivo come stordita, bombardata dalle troppe informazioni sconnesse che avevo provato a racimolare su di lui. Non sapevo neppure se fossero tutte esatte, né sapevo il perché mi sentissi così ossessionata.
Attraversai la strada bloccandomi in prossimità della segnaletica, voltandomi a fissare il palazzo alle mie spalle. I miei occhi risalirono lungo le mura finché il cellulare non vibrò nella tasca facendomi sobbalzare. Il numero era familiare.
 
–  Fissare la mia finestra è da stalker.
–  Fissarmi mentre fisso la tua finestra è da psicopatici.
–  Magari lo sono.
–  Rincuorante, ho un debole per i pazzi.
–  Ali di pollo piccanti e birra.
–  Come?
–  Portale la prossima volta, è il minimo dopo i novanta dollari.
–  Ti ho mostrato le tette, non basta?
–  Non me le hai mica fatte toccare.
–  Tu non l’hai chiesto.
 
Riattaccai con un mezzo sorrisino, riuscivo a vedere la sua sagoma, lo salutai sollevando il dito medio e mentre mi allontanavo fui sicura di sentire la sua risata accompagnarmi. Ero andata lì alla ricerca di risposte e mi ritrovavo ore dopo solo con domande scomode tra le mani, ma almeno una cosa l’avevo ottenuta: la scossa. Anche quel giorno aveva assunto un misero significato.

 
 

AJ

 
Azionai il giradischi ascoltando la musica propagarsi nell’aria, riempire le mura incrostate di muffa e pittura scadente mentre occupavo il divano con ancora il lenzuolo spiegazzato ai margini. Chiusi gli occhi respirando profondamente, le mie unghie graffiarono la stoffa consunta, eppure mi piaceva. Non erano odori familiari ma lentamente sembravano esserlo diventati. Riaprii gli occhi osservando la tela appena iniziata, ancora simile ad una piccola larva che deve divenire farfalla. Linee su linee, eppure le mie iridi riuscivano a coglierne l’essenza: la sua. Non pensavo di incontrare la mia musa in un luogo simile, eppure era arrivata in punta di piedi, a suon di parolacce e interrogatori. Il cellulare squillò in quel momento e un’ombra sfrecciò sul mio viso, risposi al quinto squillo.
 
–  La casa è nel caos senza te.
–  Sopravvivrete.
–  Non credo, non resti che tu. Sei l’unico erede, o vuoi lasciare tutto nelle sue mani?
–  Sono andato via per questo, continua ad amministrare al posto mio.
–  Per quanto?
–  Per il tempo necessario.
–  AJ..
–  Se tornassi adesso, cosa pensi succederebbe? Pareti imbottite, e catene ai polsi.
–  Non lo permetterei.
–  Sarò io a non permetterlo.
–  Dimmi almeno dove ti trovi.
–  Nel mio studio, ho finito di dipingere.
–  Molto divertente, intendo il luogo. La città.
–  Non voglio dirtelo, poi dovrei trasferirmi e non voglio. Ho appena trovato qualcosa di interessante.
–  Trovi sempre qualcosa di interessante, a tuo dire.
–  Stavolta è vero. Hai mai visto qualcuno con più occhi che anima?
–  Ho capito, ti sei fatto. Avevi detto che avresti smesso.
–  Non mi faccio da circa due settimane, ora che ci penso dovrei rimediare.
–  AJ.
 
I want to find something I've wanted all along
Somewhere I belong
 
 
  
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