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Autore: EffyLou    30/08/2017    1 recensioni
Johann Trollmann è un pugile, beniamino del popolo tedesco negli ultimi anni della Repubblica di Weimar.
Indisciplinato, imprevedibile, borioso. Non sono i suoi difetti più grandi. Johann Rukeli Trollmann appartiene ad un popolo scomodo: è uno zingaro. Conquista le platee di Germania e fa innamorare le donne tedesche.
Nella sofferenza che porterà il Nazismo, il suo unico punto fermo e pilastro incrollabile è Frieda. Johann tocca l'apice e il fondo, assaggia il successo e la disperazione, conosce la serenità e la guerra. La derisione nazista si scontra con l'orgoglio di uno zingaro, che proprio non vuole saperne di abbassare la testa a quelle umiliazioni.
C'è solo un modo per far tacere quell'anima in rivolta: ridurlo ad un numero e darlo in pasto al Porajmos, l'Olocausto del popolo zingaro.
- - - - - -
I veri combattenti non temevano la loro ultima battaglia, e se c'era una cosa che Rukeli aveva sempre fatto, era dimostrare di non temere neppure il Diavolo. Neppure il Nazismo.
Genere: Drammatico, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Novecento/Dittature, Olocausto
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4 - Sicherheitsnetz



Con i soldi guadagnati e tenuti da parte dalle borse degli incontri vinti, aveva trovato un appartamento a Schluterstaße, numero 70, a Charlottenburg. Non molto grande, e non molto lontano dalla sua palestra. Per raggiungerla faceva una corsetta di riscaldamento, la mattina, tra le strade addormentate di Berlino. Di rado prendeva la moto.

Aveva incontrato Frieda durante la prima settimana di dicembre, in serata dopo gli allenamenti, sulla strada dietro Schluterstaße.
Era stato per caso. Lui era sulla moto e tornava a casa, lei era a piedi sul marciapiede con un quotidiano sottobraccio e le mani nelle tasche della gonna. La contemplò un po’ prima di fermarsi. Il modo in cui le oscillavano i fianchi mentre camminava, i capelli che si muovevano un po’ al vento, la forma affusolata del polpaccio, il piede stretto nelle scarpe col tacco basso.
Accostò la moto al marciapiede, la spense. «Casa tua è dall’altro lato, biondina»
Lei si fermò. «Trollmann?»
In effetti avrebbe riconosciuto quella voce tra mille, quel tono che usava solo lui quando la chiamava biondina.
«E chi sennò?» le sorrise, togliendosi occhiali e casco «Dove vai a quest’ora? Posso darti un passaggio, se vuoi»
«In realtà non sto andando in nessun posto» ammise con un sorriso cauto.

Sembrava stanca, quasi provata. Era dimagrita, se ne accorse dalle guance scavate. Aveva sempre avuto il visetto magro, ma così era troppo. Notò occhiaie scure che le cerchiavano gli occhi. Frieda sembrava spenta: l’oro dei capelli non brillava, gli occhi di cielo erano opachi, la labbra come ciliegie erano pericolosamente pallide. Gli salì un groppo in gola. Non l’aveva mai vista così, e gli fece un orribile effetto non vedere la scintilla dispettosa nel suo sguardo, ma solo il vuoto. La morte.

«Vieni con me, ti porto via» le mormorò, facendole un cenno col capo e indicandole il posto sulla sella dietro di sé.
Frieda non se l’era fatto ripetere due volte. Lasciò cadere il quotidiano, saltò sulla moto dietro di lui e si accoccolò alla sua schiena marmorea. Aveva un profumo che sapeva di libertà e spazi incontaminati, come pini e tabacco.

Rukeli guidò fino alla palestra di Charlottenburg. Allo sguardo interrogativo di lei, si portò un dito alle labbra. «Non c’è nessuno a quest’ora. Anche gli inservienti se ne sono andati. La porta principale, quella lì, è chiusa. Ma sul retro ce n’è un’altra.» le spiegò, guidandola dietro il palazzo «Una notte Kaspar si è infuriato, ha quasi distrutto casa sua. Da allora lasciano una porta aperta, per quando qualcuno di noi sfuria»
«A te è mai servito?»
«No. Io non mi arrabbio» le sorrise, tenendole aperta la porta di metallo pesante.

Accese poche luci, per non dare nell’occhio. Bastava quella potente del corridoio e quella sopra l’angolo dove venivano raccolte iscrizioni per fare un po’ di luce nella sala spaziosa.
C’erano panche, un ring montato al centro, sacchi appesi a ganci da macellaio, sacchi piccoli di mais, specchi sulle pareti.
«Senti, c’è ancora puzza di giovane adulto maschio e sudato» scherzò, cercando di farla sorridere un po’.
«Io sento solo la tua di puzza.» gli lanciò un’occhiata maliziosa «Come mai qui?»
«Hai l’aria di una che deve scaricare la rabbia o qualcosa. Vuoi prendere a pugni un sacco?»
«Molto galante come primo appuntamento.» gli passò davanti, andando a prendere un paio di guantoni buttati all’angolo del ring «Non potevi invitarmi a cena oppure a bere qualcosa? Guarda che avrei accettato volentieri»
«Buono a sapersi, allora lo farò. Ci sono tante cose che potremmo fare insieme, in effetti. Vuoi sapere la prima?»
«Fammi indovinare. Sesso?» inarcò le sopracciglia in un’espressione sarcastica.
«Beh, io non l’avrei detto in modo così diretto. Però visto che tocchi l’argomento in modo così brutale: sì, farei sesso con te» ammise con un’alzata di spalle e con naturalezza inaudita.
Frieda sfarfallò le ciglia, colta alla sprovvista da quell’ammissione così sincera. «Credo che tu abbia il filtro bocca-cervello difettoso. Sei sempre così schietto?»
«Hai cominciato tu, biondina.» ghignò «Quando sei tornata?»

Le prese la mano per aiutarla ad infilare i guantoni da dieci once. Non poteva strattonarle il braccio come avrebbe fatto con i suoi colleghi. Frieda aveva la mano piccola, magra e delicata, le dita affusolate, il braccio sottile e la pelle di porcellana, liscia e morbida. Sul polso e sul dorso della mano intravedeva le venature lilla.
«Hai delle mani molto belle» sussurrò, senza accorgersene. Non aveva nemmeno sentito la risposta di lei, preso com’era a sentire l’effetto di quella pelle morbida e liscia sotto le sue dita ruvide.
«E tu non hai filtri. Sei proprio sconveniente» gli sorrise, alzando gli occhi su di lui e guardandolo da sotto le ciglia.
Johann alzò le sopracciglia. «Se è per questo hai pure una bella pelle, bionda.» le confessò con un tono scherzoso «Non ho sentito la tua risposta»
«Sono tornata stamattina» mormorò.
Lui ricontrollò i guantoni. Ne indossò un paio anche lui, da dodici once, e le batté il pugno sul suo, con leggerezza. Si mise a ridere vedendo come erano grandi quegli arnesi su Frieda.
«Posizione di guardia» si posizionò, lei cercò di imitarlo alla bell’e meglio.
«Voglio solo tirare due pugni» protestò Frieda, bonariamente.
«C’è tutta una preparazione dietro al semplice pugno. E tu hai la boxe nel sangue, biondina»
«Stai cercando di raggirarmi con le tue subdole tecniche lusinghiere» lo pungolò, facendolo ridacchiare. Le diede un altro colpetto sul guantone.
«Dico sul serio, per essere una che non segue nemmeno il pugilato, tiri ottimi colpi»
«Mi ha insegnato mio padre. Una donna deve sempre sapersi difendere, anche se solo un minimo come nel mio caso»
«Mi sembra giusto e saggio. Potresti approfondire, t’insegno io» ammiccò con le sopracciglia.
Frieda scoppiò a ridere, abbassando le braccia e piazzandole sui fianchi. Inclinò la testa, lo studiò nella penombra della palestra. Lui si lasciò contemplare.
«C’è qualcosa che non va?» le domandò, avvicinandosi di un passo.
«Sono solo un po’ stanca. È stato un lungo viaggio»
«Dove sei stata?»

Non era aria di tirare pugni al sacco. Quello poteva essere il suo modo di sfogarsi, ma di certo non era quello di Frieda. Aveva accettato di indossare i guanti e scherzato sul tirare due pugni solo per sdrammatizzare. Nella sua ingenuità, non aveva tenuto in considerazione il fatto che Frieda potesse avere un altro modo di sfogare la negatività. Senza contare che era ridotta ad uno straccio.
Si sfilò i guantoni, e tornò da lei per aiutarla a togliere i suoi. Gli sorrise, grata per essersene accorto, lui ricambiò con un sorrisetto sghembo.

«In Ucraina» gli rispose infine, in un sussurro. Liberata di quei guantoni, si andò a sedere a bordo ring, appoggiandosi alle corde come se fosse un’amaca.
Lui la seguì, ma restò in piedi per guardarla meglio. «Ti vedo davvero stravolta»
Restò in silenzio a lungo. «Tu come ti sentiresti se il leader della Germania cercasse di sterminare tutti i sinti tagliando gli alimenti?»
Lui non fiatò. Allora Frieda spiegò.
«Stalin ha tolto gli alimenti alle comunità kulaki e cosacche, per via della collettivizzazione dell’agricoltura, sai. Io e mio padre siamo andati lì per portare via mio cugino Ivan, ma non l’hanno lasciato andare e non volevano mandar via neanche noi. Ecco perché ci abbiamo messo tanto a tornare.» sospirò «Lo chiamano moryty holodom. In ucraino, significa “infliggere la morte attraverso la fame”. All’inizio ce la cavavamo, mangiavamo grazie ad alcune conoscenze di Ivan. Poi però lui è sparito, noi siamo stati trattenuti e abbiamo patito la fame».
Johann sembrò perdere ogni traccia di ironia e allegria nel viso. Era rimasto pietrificato. Immaginò solamente cosa stesse succedendo e cosa fosse accaduto a Frieda in quei mesi.
«Ho visto cose orribili. Non credevo nemmeno che fossero possibili.» continuò «Una madre che veniva mangiata viva dai figli, perché aveva deciso di sacrificarsi pur di nutrirli con qualcosa. Il cannibalismo sembrava all’ordine del giorno».

No. Non poteva immaginare il dolore di Frieda, si era sbagliato.
Quando lei incrociò i suoi occhi neri, si sentì prosciugare le forze da quello sguardo infinito. Il peso del cielo. Si sentì come Atlante che reggeva la volta celeste. Quando abbassò lo sguardo, si sentì quasi rincuorato. Sentì che poteva riprendere fiato, sentì che il cuore stava tornando a battere.
Non sapeva cosa dire. La verità era che non poteva limitarsi ad un banale “mi dispiace” e preferiva tacere piuttosto.

«C’è qualcosa che posso fare?» le sussurrò, accarezzandole la spalla e la schiena.
Lei chiuse gli occhi, accennò un sorriso. «Portami a cena. Sto morendo di fame»
Johann sorrise debolmente, cogliendo una sfumatura tetra nella battuta di Frieda. «Con piacere» le tese la mano, invitandola ad afferrarla.
D’altronde anche lui aveva fame. E anche se non l’avesse avuta, avrebbe portato Frieda a cena a prescindere. L’avrebbe ricoperta di cibo, le avrebbe comprato tutto ciò che desiderava pur di vederle prendere un po’ di colorito e la scintilla dispettosa nello sguardo che tanto gli piaceva.
La ragazza lo guardò, nella penombra. «C’è un’altra cosa che potresti fare»
«Farò di tutto».
I suoi occhi neri sembrarono brillare, vividi e intensi. Si accorse in quel momento che per lei avrebbe spostato mari e monti.
«Abbracciami».

E Johann non si fece pregare. Quasi le si fiondò addosso. Strinse dolcemente a sé quel corpo minuto e dimagrito, inspirando forte il profumo di lavanda dai suoi capelli biondi. Le spalle piccole, la spina dorsale curvata per modellarsi al corpo di Johann, le scapole che sporgevano. La schiena compatta del pugile, le spalle ampie e il bacino stretto, le braccia forti che la stringevano delicate.
L’unica cosa che voleva Frieda in quel momento era un abbraccio, e quello era il miglior abbraccio che qualcuno le avesse mai dato. Rukeli, col suo corpo stretto a lei, le comunicava che c’era. Era lì per lei, non sarebbe andato via. Una presenza forte e rassicurante, la sua ancora di salvezza. Ogni cellula sembrava dire “Sono qui, stringimi e andrà tutto bene, io non ti lascio”. E lei si era aggrappata alle sue spalle come se tutto il mondo stesse crollando tranne lui, tranne l’Albero.
Pensò che il mondo poteva finire in quel momento e non le sarebbe importato niente, perché c’era lui ad abbracciarla. Pensò che se c’era lui, niente sarebbe potuto accadere.

«Sento il tuo stomaco che brontola, bambina» le sussurrò, il viso affondato tra i suoi capelli.
Lei ridacchiò. «Ancora un po’, poi andiamo».
Johann sbuffò un sorriso e si accoccolò col viso sulla sua spalla, stringendola con dolcezza, senza mai abbandonarla. «Sono contento che tu sia qui. In Germania, al sicuro tra le mie braccia. Mi sei mancata, lo ammetto, ti ho cercata ovunque»
Frieda avvampò, nascose appena il viso nell’incavo della spalla del ragazzo. «Anche io sono felice di essere qui, in questo momento. Sono a casa».
Fu in quel momento che sentì qualcosa di strano scuotergli l’anima. Sentì quel legame che prima non aveva mai sentito, ma era forte come fil di ferro e lo legava a Frieda. C’era sempre stato e non se n’era mai accorto. Come se con lei, in qualche modo, si sentisse completo. Sentì come se la conoscesse già, ma non lei. La sua anima. Una sensazione di ancestrale familiarità. Come un remoto ricordo. Un sogno, una vita passata. Jaaneman.

 

 

11 dicembre 1931

Un nuovo incontro con Vogel. Era il quarto che disputava contro quel pugile.
Il primo era stato il 27 dicembre 1929. Quando si era regalato per il suo ventiduesimo compleanno un bel knock-out al secondo round.
Il secondo era stato il 4 luglio 1930. La volta in cui Vogel l’aveva chiamato sporco zingaro, e lui in risposta se l’era fatto cucire su tutti i pantaloncini che usava per salire sul ring e lo aveva battuto ai punti al sesto round.
Il terzo era stato il 5 dicembre 1930. Aveva vinto ai punti all’ottavo round. Vogel era rimasto quasi sconcertato dai pantaloncini nuovi di Gipsy. Si sentì ridicolizzato, preso in giro davanti a quella parola che lui aveva usato per cercare di insultare lo zingaro.
Quell’ultimo incontro lo stavano disputando l’11 dicembre 1931, poco più di un anno dopo dall’ultima volta, alla Tennis Halle di Berlino.
Il soffitto era triangolare, con le luci al neon lunghe che seguivano il profilo del tetto. Al centro, nella sabbia rossa, era stato montato il ring.
Vogel era più pesante ora. Pesava settantasette chili, contro i settanta di Rukeli.

Ma Johann non lo temeva, conosceva il suo stile e sapeva come destreggiarsi. Per questo restò sorpreso quando l’altro lo attaccò accorciando le distanze. All’inizio aveva incassato, cercando di inquadrare il nuovo stile di Vogel.
Al suo angolo, Leyendecker gli massaggiò le spalle.
«Che ti succede?»
Scosse la testa, rivoli di sudore scendevano sulla fronte dalla cute. «Acqua».
L’aiutante gli passò la spugna, lui la succhiò e sputò nel secchio. Respirò forte, il fiato corto.
«Non riesco, non ho più fiato».
L’aiutante gli allargò le narici per farlo respirare.
«Ti sei fatto prendere dalla foga di diventare campione, dalla foga della vittoria. Lo guardi come se fosse un sacco da boxe.» gli rispose Leyendecker, lapidario «Hai dimenticato che ogni incontro ti mette davanti il pugile che saresti potuto essere. Rimettitelo in testa»
«Secondo Box-Sport per avere la meglio su di te bisogna costringerti alla rissa, al combattimento ravvicinato.» se ne uscì Zirzow «Credono che tu non sappia combattere in questo modo, visto che preferisci le distanze»
«Non c’è problema».
Tirò forte su col naso, Leyendecker gli rimise il paradenti bianco. L’allenatore aveva dannatamente ragione. Non viveva più l’attimo, non metteva più tutto sé stesso nell’incontro come se fosse l’ultimo. Puntava troppo al futuro, alla vittoria che non era mai scontata.
Tutti sono capaci a vincere.

Durante le ultime riprese, Rukeli riprese il controllo. Dominò il ring. Vogel cercava di costringerlo alla rissa, cercava di inchiodarlo agli angoli o alle corde. Johann assecondava, dimostrando a lui e a Box-Sport che sapeva combattere anche in quello stile. Si pestarono un po’.
Vogel tentò di nuovo di chiuderlo nel combattimento ravvicinato. Trollmann tenne le gambe divaricate, gli mollò un buffetto giocoso sull’orecchio per dargli fastidio e provocarlo, e si mosse veloce per allontanarsi dalle corde mentre l’avversario era distratto.
All’ultimo round, Rukeli impose di nuovo il suo stile. Vogel doveva inseguirlo, ma non lo trovava mai. Era Trollmann che trovava lui, però.
Vinse ai punti all’ottavo round. Box-Sport non cercò più di descrivere un modo plausibile per annientare lo zingaro, perché aveva capito che non ce n’erano.

 
 

Passarono due anni, era il 1932.
Trollmann era uno di quelli sempre pronto alle stupidaggini, alle sfide in strada, ma anche a grandi generosità. Rukeli non risparmiava. Quando aveva i soldi li spendeva. Se un amico era in difficoltà non ci pensava due volte a dargli tutto quello che aveva. Quando girava in strada e si fermava nei parchi, vedeva i bambini giocare. A volte giocava con loro, altre volte gli andava a comprare cesti di caramelle e dolci di ogni genere. Altre volte ancora si perdeva in ragazzate, e spaventava i ragazzini arrivandogli alle spalle e facendo il verso dell’orso. Loro scappavano e lui rideva.
Si era perso in scemenze anche l’anno prima, durante un incontro a Dresda, in cui si presentò alla cerimonia del peso con due ore di ritardo. Aveva preso una multa di cinque franchi per questo.

Gli anni precedenti erano stati il suo trionfo. La media annuale era tra i dieci e i tredici combattimenti, un enorme record per un pugile. Era ricercato ed estremamente temuto nella categoria dei medi e mediomassimi, gli altri pugili gli stavano alla larga e quando sapevano che dovevano affrontare lui si spaventavano non poco.

Perché Rukeli Trollmann non era solo veloce come il vento e i pugni come rocce, ma aveva anche un gran cervello. Boxava con l’astuzia di una volpe, era insidioso. Dare pugni e non prenderli, divertire il pubblico e vincere. Non aveva bisogno di provare dolore per entrare nel vivo del match, odiare l’avversario o sentirsi un vero uomo. Lui non odiava nessuno, tantomeno l’avversario, che al contrario era visto come un importante componente della sua performance. Il rispetto era massimo.
Non era un pugile aggressivo. Non gli piaceva perdere sangue o avere lividi in faccia, complice anche la sua consapevolezza di essere bello. Non aveva bisogno di avere cicatrici per sentirsi un pugile, per sentirsi virile. Anche se le cicatrici sul viso le aveva anche lui, alla fine, erano inevitabili.
Le mosse provate meccanicamente in palestra, sul ring di Rukeli non funzionavano perché le conosceva e così sapeva qualcosa in più dell’avversario, sfruttando la falla. Faceva una finta, l’avversario ci cascava e veniva trafitto. Era umiliante, vedevano il loro punto debole ridicolizzato davanti a un folto pubblico. Qualcuno non la prendeva bene e bolliva di rabbia. Rukeli lo sapeva quando, e si manteneva freddo, alzando un po’ la fiamma dove lasciava a cuocere l’avversario. Quelli andavano fuori di sé, commettevano il doppio degli errori, e lui vinceva.
Abbatteva avversario dopo avversario.

Non mancava di fare un po’ il buffone. Parlare con quelli alle prime file durante il match, salutare e flirtare con le ragazze, lanciando baci, oppure semplicemente dando fastidio all’avversario con atteggiamenti spavaldi, come i pugni bassi, occhiolini, buffetti sulle orecchie.
La sua popolarità si estendeva oltre il ring. Venivano stampati poster, le agenzie pubblicitarie chiedevano il suo viso per cartelloni e manifesti, veniva invitato a programmi radiofonici, riviste femminili a risvolti rosa parlavano della sua vita privata e delle sue conquiste a bordo ring. Le persone lo fermavano per strada, chiedendo saluti e autografi. Era amato, Rukeli. Con quella bellezza tenebrosa e selvaggia, il sorriso di sfida, lo sguardo penetrante, profondo e intelligente, il corpo scolpito. Il pugile più amato della Repubblica di Weimar.
Non aveva molto tempo per una vita privata o relazioni durature: solitamente le sue avventure notturne non andavano oltre l’alba o due settimane di relazione. Ogni tanto si concedeva giorni di riposo, in cui faceva compere o andava a divertirsi. Nottate in giro per Berlino con Kaspar ed Hans, cinema, sale da ballo, pub. Donne e moto, moto e donne. Ogni giorno, ogni notte.

Spesso usciva con Frieda. La sua più cara amica e complice di dispetti.
Non andava spesso ai suoi incontri, ma quando lo faceva si materializzava vicino a Zirzow e Leyendecker, all’angolo di Trollmann. Lui la vedeva, incrociava i suoi occhi, e si facevano grandi sorrisi. Tra una ripresa e l’altra, lei gli massaggiava le spalle o lo faceva bere. Quando si faceva male, c’era lei a medicarlo. Conosceva un sacco di trucchetti per far smettere di sanguinare o sgonfiare le sacche di sangue.
Non gli lanciava baci, non gli urlava incitamenti, non gli diceva proprio niente. Questo all’inizio l’aveva lasciato perplesso, perché le altre donne lo facevano ma lei no. Però poi alla fine dell’incontro lo abbracciava, fregandosene del sudore, gli accarezzava i capelli e gli faceva i complimenti anche se magari perdeva. Era un lenitivo per l’anima.
Per vedersi più spesso, lui aveva chiesto i suoi turni al pub. Quando finiva l’andava a prendere, mangiavano insieme quando potevano. Facevano lunghe passeggiate tirando calci ai sassi, lungo lo Sprea, nel parco Tiergarten o al centro commerciale più in voga di Berlino, il KaDeWe. Gli piaceva prenderla a braccetto, o passarle il braccio sulle spalle. Era piccola e sentiva un istinto protettivo nei suoi confronti. Gli piaceva mostrarsi con lei in pubblico.
Giocavano a biliardo, bevevano birra, andavano al cinema e in sale da ballo. Poi lui la riportava a casa con la moto. Si divertivano insieme.
Qualche volta, dopo cena, si infiltravano nella palestra a Charlottenburg e infilavano i guantoni. Frieda faceva le caricature degli avversari di Johann, ma anche di Johann stesso spesso e volentieri, divaricando le gambe quasi a fare la spaccata come faceva lui, oppure saltellando qua e là.
Altre volte, la mattina, lui accompagnava Frieda al maneggio dove si occupava dei cavalli. Vide tutti i trofei vinti, non solo d’equitazione, ma pure di atletica leggera, tiro con l’arco e ginnastica. Lei gli aveva detto che era una delle migliori atlete regionali anche in quelle discipline, ma non la fecero mai competere a livello nazionale. Gli disse che avrebbe voluto fare l’università e diventare antropologa, ma costava troppo e tempo che aveva racimolato i soldi, ecco che le donne non potevano più iscriversi.

Johann trovava Frieda davvero divertente, spassosa, con la sua vena impertinente e rilassata. A volte si adombrava, pensando all’Ucraina, e non le si poteva dire niente che s’infuriava. E quando succedeva, poi anche Johann s’intestardiva. Finivano che non si parlavano per giorni, poi lui le andava a chiedere scusa urlando sotto la sua finestra.
Il loro rapporto era unico: forse più di un’amicizia, o forse no, ma erano in perfetta sintonia. L’unica donna con cui Trollmann non era stato a letto, l’unica che lo faceva indiavolare perché parlava troppo o troppo poco e lo contraddiceva per il puro gusto di farlo, l’unica con cui passava pomeriggi insieme all’insegna del divertimento e non nottate di fuoco, l’unica con cui condivideva emozioni e aspetti intimi del suo essere.
Le donne nella sua vita andavano e venivano, un via vai senza limiti. Donne che desideravano essere solo portate a letto e che lui accontentava senza remore, donne che gli si avvicinavano solo per vantarsi di essere state con il pugile. Donne piatte, prive di ogni ambizione o significato per lui.
Ma Frieda era sempre stata il suo punto fermo, il suo pilastro incrollabile. Era sempre stata lì con lui, nel bene e nel male. C’erano giorni in cui Johann voleva vedere solo lei, né Kaspar né Leyendecker. Solo Frieda. E lei c’era. Sempre.
   
 
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