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Autore: SuperGoat    03/09/2017    3 recensioni
Come spero TUTTI voi abbiate già intuito è una storia ispirata al celeberrimo canto alpino "Il testamento del capitano". Come? Temo lo si scoprirà solo alla fine....dopo indicibili sofferenze.
Quel che è certo è che troverete molto patriottismo, molte montagne e molta morte, forse anche in quantità eccessiva, in questa storia ambientata in Trentino tra il 1905 ed il 1918.
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento, Guerre mondiali
Capitoli:
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Quella sera del 1905, quando tornammo a casa dai pascoli, trovammo ad accoglierci, come sempre, nostra madre.
Della mia famiglia così come era composta ai tempi, adesso, nel 1999, non sono rimasto che io, ma penso che questo sia abbastanza naturale.
Nel 1905, mio padre, che tra tutti fu il primo ad andarsene, aveva trentun anni, si chiamava Giuseppe e faceva il falegname, aveva una bottega piuttosto grande giù in paese, questo rendeva la nostra famiglia abbastanza benestante. Era un uomo rigido, estremamente legato alle regole ed ai valori morali, con noi era severo, soprattutto con Italo, il primogenito, ma non si può dire che non ci amasse, al contrario, nella rigida disciplina riversava il suo amore per noi. Nella disciplina e nelle storie di coraggio ed eroismo che ci raccontava ogni notte prima di metterci a letto. Mio padre, pur essendo un falegname, era un grande appassionato di letteratura, filosofia e, più di ogni cosa, storia moderna. Possedeva diversi libri ma più di tutti era affezionato ad un’enciclopedia lasciatagli da nostra nonna, sua madre, mio padre la leggeva spesso, ogni qual volta ne avesse avuto voglia ed io suppongo l’abbia letta tutta almeno trenta o trentacinque volte prima di morire.
Mia madre si chiamava Anita e con mio padre formava una perfetta coppia, solo con lei mio padre era stato capace di aprirsi, lei conosceva le parti più recondite della sua anima. Quando si erano sposati mio padre aveva vent’anni e mia madre quasi diciannove. Era una donna forte e pragmatica, ci amava più di chiunque al mondo.
I miei genitori si sposarono in estate del 1894, nella primavera del 1895 nacque Italo. Si raccontava che mio fratello, prima ancora di imparare a camminare, fosse riuscito a gettarsi dalla finestra del piano di sopra cadendo, fortunatamente, su un metro di neve soffice. Successivamente, da più grande, Italo era riuscito a far schiantare e andare in pezzi tre diversi slittini creati per lui da nostro padre, due contro la parete esterna di casa e uno contro un muro di neve compatta. Si era arrampicato diverse volte sul tetto di casa ed aveva distrutto un pendolo di enorme valore che aveva il doppio dei suoi anni. Infine Italo aveva anche rubato un capretto, un vero e proprio furto, per mio padre fu forse il colpo più duro da sopportare, quello stesso ottobre spedì Italo, che allora aveva cinque anni e mezzo, in collegio per essere “messo in riga”. Io dubito siano riusciti nell’intento di domare mio fratello ma quel che è certo è che si dimostrò precoce e portato per gli studi, così che a dieci anni, non solo Italo era uno dei pochi ragazzi del paese a continuare l’istruzione, pur aiutando nostro padre con il lavoro, ma, per altro, frequentava il ginnasio.
Dopo Italo era nata Anna, nel 1897,  era dolce, tranquilla, con le guance rosee ed i capelli castano chiaro sempre ordinati nelle trecce. Quando si rotolava nel fango, perché naturalmente non evitava di farlo, aveva sempre cura di lavarsi per bene. Mia sorella amava due cose principalmente, gli animali e le fiabe. Avvicinava ogni animale selvatico, specialmente cervi e daini, dava loro da  mangiare sul palmo della mano, alle volte, invece, passava ore immersa nella lettura. A lei come a  tutte le altre ragazzine venivano impartite lezioni di cucito e ricamo, oltre che quelle delle normali materie scolastiche, in entrambe le attività se la cavava egregiamente, per ovvie ragioni era la preferita dei miei genitori. A me capitava spesso di litigare con Anna, che era poco più di due anni più grande di me, e poteva anche finire che ci picchiassimo, in tal caso tirava pugni, calci e schiaffi da far invidia al peggior delinquente da strada, altre volte girava per casa tenendosi i lembi della gonna con le mani e fingendosi una nobil donna, l’avrei volentieri presa in giro. Erano strane le bambine.
Io nacqui il 31 dicembre 1899, ero prematuro.  Mio padre raccontava spesso di come fossi estremamente piccolo da appena nato, erano le 23 passate quando gli fui dato in braccio, mio padre mi aveva preso con due mani, una sotto l’altra, ed ero talmente minuscolo da potermi contenere tutto anche in tal modo. La leggenda voleva che mio padre mi avesse guardato estasiato per qualche secondo prima che il caro vecchio orologio a pendolo, quello che Italo avrebbe distrutto poco tempo dopo, suonasse la mezzanotte del primo gennaio 1900. Io ero l’ultimo nato del diciannovesimo secolo.
Dopo di me nacquero Emanuele, nel 1902 e Umberto che nell’estate 1905 non aveva ancora compiuto un anno. Sarebbe poi nata Teresa, nel 1907.

La scuola, per noi, iniziava ad ottobre. Durante la mia infanzia, per quanto iniziai ben presto ad odiare la scuola, ottobre fu sempre il mio mese preferito, le giornate erano fresche, non c’era quel clima glaciale dell’inverno, non dovevamo salire ai pascoli come in estate e la domenica era il nostro giorno completamente libero. Io e i miei fratelli passavamo le giornate a giocare all’aperto, non c’era limite a dove potessimo andare e a ciò che potessimo fare, ci era consentito di passeggiare per le montagne "purché non uscissimo dal comprensorio e fossimo in paese in giusto orario per la messa" il che significava ore ed ore di svago.
Spesso imboccavamo la strada nel bosco e se aveva piovuto di recente aguzzavamo la vista in cerca di funghi, facendo a gara a chi riconosceva con più perizia quelli velenosi e quelli commestibili.
Alcune volte Italo ed Anna inventavano storie sulle streghe ed i folletti che vivevano nel bosco, spesso giocavamo ad impersonare i personaggi delle nostre stesse storie. "Io sono la strega!" Esclamava Anna "Ed io sono il cavaliere!" Affermava Italo "Anche io sono un cavaliere" gli facevo eco io. "No, tu sei il vecchio e saggio gnomo" rispondeva mio fratello, io me la prendevo, il piccolo Emanuele, invece, non ribatteva.
Quando arrivavamo in alta montagna Anna si sedeva sul prato, quasi sempre iniziava a leggere e mi ignorava per ore. Io ed Emanuele restavamo buttati ai suoi piedi e per la noia capitava che ci picchiassimo. Italo se ne andava in esplorazione, il che voleva dire che camminava fino alla prima parete e la scalava, nonostante le mie suppliche non mi aveva mai portato con sé, mai fino all’8 ottobre 1905.

Quel giorno Emanuele era dovuto rimanere a casa perché mio padre credeva si stesse raffreddando, Anna era venuta con noi ma mentre eravamo ancora vicino casa, aveva intravisto la sua amica Alice e suo fratello Angelo che giocavano nei pressi di casa loro e aveva chiesto ad Italo il permesso di passare la giornata con quei due. Così eravamo rimasti solo io e mio fratello, avevamo parlato a lungo durante la salita, lui mi raccontava delle sue avventure a scuola, che erano sempre più entusiasmanti e mirabolanti delle mie, ed io gli raccontavo dei miei problemi a tracciare le aste che ormai erano quasi superati e nonostante ciò mi sentivo ancora uno stupido di fronte ai miei compagni di classe. “Non riesco a capire da che parte farle, Italo, hai capito?” gli chiedevo “Non so se sono inclinate a destra o a sinistra…non le riconosco, è come se fossero…girate” mio fratello aveva stretto le spalle “ma questo non vuol dire essere stupidi, Vittorio” aveva obiettato “Vuol dire avere problemi…di vista, oppure ti gira la testa” io negai rassegnato “Dai ti faccio un gioco” propose lui “pesa di più un chilo di ferro o un chilo di piume?” “pesano sempre un chilo” risposi subito “visto che non sei stupido?” io non ero convinto. Mio fratello si chinò per guardarmi negli occhi “secondo me sei abbastanza intelligente da scalare con me oggi” sussurrò. Dopo un attimo di incredulità la mia tristezza svanì, fissai mio fratello negli occhi con un gran sorriso e gli afferrai la mano perché mi conducesse con lui alla parete.

Arrampicarsi dietro Italo in quella parete estremamente alta, della quale non scorgevo nemmeno la cima, non era poi così difficile "Arriveremo su e poi cammineremo sulla cresta" mi aveva spiegato lui "Ecco, metti un piede lì" aveva aggiunto indicando senza guardare "È semplice come salire su una scala a pioli" diceva lui. Le mie braccia tremavano ma non per lo sforzo in effetti, ogni volta che guardavo giù il vuoto mi metteva terrore, come facesse Italo a non avere un minimo di paura non ne avevo idea. Salimmo ancora per molto, Italo spesso mi aspettava tendendomi una mano, io gliela afferravo tremante. "Hai paura?" Mi chiedeva "No" mentivo con le lacrime agli occhi. "Anche io tremavo sempre quando arrampicavo alla tua età" raccontava lui, spensierato. "Una volta scalai un albero con Anna sulle spalle, ed era molto facile ma arrivato in alto tremavo come una foglia, lassù il vento faceva ondeggiare i rami, Anna aveva paura e ne avevo anche io ma feci finta di nulla, restammo in cima per un po' e nostro padre ci vide, dovevi vederlo come scalò in fretta l'albero per recuperare Anna! Era arrabbiatissimo, comunque il ramo reggeva bene e allora decise di lasciarmi lì per punizione..." "Per quanto?" Lo interruppi ridendo "Quando ha iniziato a piovere mi ha fatto scendere ma credo volesse lasciarmici tutta la notte" "Davvero?" Italo annuì "mi aveva detto anche: Magari un'Aquila verrà a mangiarti il fegato, come il supplizio di Perseo" risi nell'immaginare la voce di mio padre ma il racconto di mio fratello si interruppe, la parete non proseguiva più in verticale e potemmo passeggiare sulle rocce con i soli piedi. "Siamo arrivati?" "Non ancora" Raggiungemmo un punto in cui la roccia su cui camminavamo terminava per gettarsi nello strapiombo, un salto di circa un metro e mezzo ci separava dal proseguimento verso la cima.
Italo saltò a piedi uniti. Io esitai prima di seguirlo, lui si voltò verso di me. "Mi pare troppo difficile per te, Vittorio", disse. In un altro frangente me la sarei presa ma il mio sguardo era bloccato sulle due pareti dello strapiombo, completamente lisce, quella spaccatura scendeva di oltre 200 metri. Mi rivolsi a mio fratello, terrorizzato "Torniamo indietro?" Chiesi, lui scosse la testa "La via da cui siamo saliti era troppo pendente" affermò "Tu aspettami qui. Io cerco una discesa migliore" detto questo sparì con un salto.

Quando mio fratello sparì alla mia vista mi sentii estremamente solo. Per istinto mi allontanai dalla crepa e mi accucciai contro una roccia. Quando si è piccoli il tempo passa lentamente, soprattutto quando si ha paura. "E se Italo si scorda di venirmi a recuperare" mi chiedevo "Quanto potrò resistere quassù". Un'aquila volò sopra la mia testa emettendo il suo inquietante verso "Magari un'aquila ti mangerà il fegato, come il supplizio di Perseo" ricordai. Mi afferrai la pancia e la tenetti stretta per proteggerla con le mani. Con le lacrime agli occhi pensai che Italo era stato lasciato sulla cima di un albero, si, ma per punizione...io, invece, non avevo fatto niente.
Mi avvicinai tremante al punto in cui Italo era saltato, mi misi in punta, forse sarebbe stato meglio provare a saltare, con le braccia in avanti avrei potuto farcela, o forse era meglio restarmene dov’ero ad aspettare Italo. Mi guardai intorno, mio fratello non si vedeva da nessuna parte, mi vennero le lacrime agli occhi al pensiero della mia solitudine, e più i miei occhi si inumidivano più quel salto sembrava semplice. Dopotutto, Italo lo aveva fatto, mi piegai leggermente sulle gambe e spiccai nel balzo.
Credo che la paura mi colse in pieno, non nel momento di saltare, ma in quello in cui i miei piedi abbandonarono la roccia, era un salto troppo corto, sarei precipitato da trenta metri. Lanciai un terribile lamento di dolore simile a quello di un cucciolo sgozzato, atterrai sulla roccia di fronte a me ma con il ventre mentre le gambe brancolavano nel vuoto. Disperatamente cercai un appiglio sul pavimento roccioso con le braccia mentre il mio peso mi trascinava inesorabilmente verso la morte, ma la roccia era desolatamente liscia, “Cado! Cado!” urlai. Nessuno mi sentì. Le mie dita sudate lasciarono dieci lunghe striature su quella roccia liscia e polverosa mentre io perdevo la presa sul nulla. Prima d’allora non mi ero mai confrontato con la vera paura ma allora, a cinque anni, stavo morendo. Non riuscii ad emettere altro che un lungo grido mentre sparivo giù dalla parete.

C’era un forte vento, ed era il motivo per cui mio fratello non mi aveva sentito urlare. Lui era dapprima sceso per la roccia e poi, seguendo un contorto tragitto, era riuscito a risalire per raggiungere il punto in cui mi aveva lasciato. Trovandolo deserto. Se io poco prima avevo provato il più grande spavento della mia vita nulla era stato in confronto a ciò che aveva sentito mio fratello nel non vedermi. Il suo cuore aveva iniziato a battere all’impazzata prima ancora che il suo cervello potesse capire che cosa volesse significare la mia assenza, lo sguardo di Italo vagò il più velocemente possibile tra le montagne e non mi trovò da nessuna parte. “Vittorio?” riuscì a chiamare in un fil di voce, poi col respiro mozzato agitò ancora la testa nella speranza di scorgermi da qualche parte, poi il panico si trasformò in assoluto terrore. “VITTORIO!!!” chiamò con tutto il fiato che aveva in corpo “VITTORIO!!!”. Il suo sguardo si posò sulla strada che avevamo fatto per salire, fece la considerazione che potessi aver tentato di tornare indietro da là, come un fulmine sparì per quella strada.
“VITTORIO!!!” Di tanto in tanto mio fratello urlava di nuovo il mio nome ma ogni mancata risposta era una pugnalata al cuore “VITTORIO!!!” la voce di Italo era ormai incrinata e pronta a cedere al pianto.
“Sono qui!” sentire la mia voce, ad Italo, parve un glorioso miracolo, io, invece, appeso all’unico spuntone di roccia che ero riuscito ad afferrare con le mani, mentre sentivo le braccia tirare e le dita sempre più dolenti, non riuscivo a far altro che piangere. “Italo, non ce la faccio più!” urlai tra le lacrime. Mio fratello era più in basso di me di una decina di metri e non aveva la più pallida idea di come raggiungermi “Come sei finito lì?” domandò disperato, “Non lo so!” piansi io. “Sta tranquillo!” mi urlò con estrema preoccupazione nella voce “Non ti agitare, va bene? Sto arrivando!”. “Aiutami, Italo, Aiutami” continuavo a gemere, non potevo resistere a lungo, mio fratello correva tra le rocce veloce come ne era sceso, improvvisava la strada, era l’unico modo per raggiungermi.

Fu lui a raccontarmi di quel momento, molti anni dopo, ma mi disse che era vivido nella sua mente come se non fosse successo nemmeno il giorno precedente ma la notte stessa, la parete alla quale mi ero aggrappato, al di fuori di quell’unico spuntone provvidenziale era liscia, era la parte interna della fessura di circa un metro e mezzo che Italo aveva saltato. Quando le mani di mio fratello furono a contatto con quella roccia gli fu chiaro che per raggiungermi avrebbe dovuto arrampicare la parete liscia, con un vuoto di centinaia di metri sotto di se. Non aveva ne corda ne piccone, l’unico fattore naturale a venirgli in aiuto era il restringimento delle due pareti a quell’altezza, distanti meno di un metro, e non un metro e mezzo. Italo riuscì a rimanere in equilibrio facendo pressione su una parete con mano e piede destri e sull’altra con mano e piede sinistri. Senza perdere tempo continuò ad avanzare il più velocemente possibile verso l’alto e verso di me, finchè non si ritrovò nelle condizioni in qui un minimo errore avrebbe significato la morte.
Più Italo saliva più la distanza tra le due pareti si faceva accentuata, ma io ero sempre più vicino, mentre Italo mi raggiungeva il suo piede destro perse la presa. Italo trattenne il fiato, in una scarica di adrenalina riuscì ad arrestare l’inevitabile caduta gettandosi con il ginocchio destro e con entrambe le braccia sulla parete destra mentre il piede sinistro restava ben piantato sulla parete opposta. Si ritrovò a guardare in basso, un sassolino, che si era staccato dalla roccia nel trambusto era caduto in quell’abisso oscuro rimbalzando sull’una e sull’altra parete. “Se cado, muoio” pensò Italo in quel momento “E se muoio, nessuno salverà mai Vittorio”. Disse che il pensiero di me abbandonato al mio destino gli avesse messo un angoscia mai provata e che il desiderio di salvarmi lo privò di ogni paura. “Tranquillo Vittorio” mi disse volgendo lo sguardo in alto “Ci sono quasi”. Mettendo una forza sovraumana prima sulle braccia e poi sul ginocchio si staccò dalla parete, fece ancora forza sul piede destro per portare il braccio sinistro sul termine della parete, con un rantolo di dolore si sollevò con le sole braccia raggiungendo finalmente una zona sicura. Saltò nuovamente dal lato opposto della spaccatura e si sporse con tutto il busto sotto la roccia dalla quale ero caduto per porgermi la mano. “Prendila, Vittorio” mi disse “Tranquillo, prendila”. Con uno sguardo disperato staccai una mano dal mio appoggio ed afferrai saldamente quella di Italo, poi feci lo stesso con l’altra. Mio fratello gemette per la fatica. “Aiutati con le gambe!” mi gridò. Agitandomi riuscii a portare i piedi laddove erano le mani mentre mio fratello, più saldamente in equilibrio, mi afferrava per la camicia.

Appena fui in salvo tra le sue braccia, sentii il corpo di mio fratello tremare, Italo si sedette debolmente a terra con l’aria di chi stava per scoppiare a piangere. “Ti avevo detto di non muoverti di lì!” mi ruggì contro. Le lacrime iniziarono spontaneamente a rigarmi il viso “Scusami Italo” cercai di dire con un groppo in gola “Io…io” anche lui tentava di controllare le parole “Dovrei picchiarti!” esclamò in fine “Che cosa avrei fatto se fossi morto, eh?” mi gridò “Hai…hai idea di che cosa…” scoppiai a piangere, per istinto mi gettai su di lui e singhiozzai afferrandogli i vestiti “Italo!” gridavo “Mi hai salvato! Tu mi hai salvato”. Per un po’ mio fratello non disse nulla, sentii solo la sua testa che si poggiava alla roccia dietro di se. Poi poggiò delicatamente una mano sulla mia schiena. “Ho avuto paura di perderti per sempre” confessò. Anche lui stava piangendo. Rimanemmo su quella roccia abbracciati per un po’. “Vorrei essere coraggioso come te” affermai.
 
Tornando a casa, recuperammo Anna. “Non ci credo che stavaste per morire entrambi” sentenziò lei. “E’ vero, per questo abbiamo fatto tardi” ribattè Italo “la peggiore scusa per un ritardo” “non c’è nulla da ridere” mi intromisi “Italo, mi ha salvato.”
Mia madre non fu altrettanto difficile da convincere, ci attendeva a braccia conserte fuori dalla porta, le raccontammo tutto quanto era successo, senza vergogna né esaltazione. Inutile dire che ci fossimo aspettati una reazione negativa, era stata corrucciata dal momento in cui avevamo detto che Anna era rimasta con Alice e Ambrogio. A fine racconto assestò uno scapaccione ben mirato sulla guancia sinistra di Italo, che fu costretto a voltare la testa. “Questo è per aver lasciato tua sorella sola”. “Ma mamma, era con Alice” un altro scapaccione gli colpì la guancia destra. Senza ulteriori commenti Italo tornò a guardare avanti. Mia madre gli diede altri tre schiaffi “E questi sono per aver messo a rischio la vita di tuo fratello”. Dopo un attimo di pausa, Italo parlò “posso andare adesso?” Mia madre annuì. Io mi fissai i piedi, nostra madre non aveva affatto intuito il coraggio che aveva mostrato Italo quel giorno, e la stupidità che avevo mostrato io, ciò mi dispiaceva.


Quella notte, mi fu impossibile addormentarmi subito. “Italo” sussurrai rigirandomi nel letto “Ma tu non hai mai paura della morte?” lui si voltò verso di me “Ma certo che ho paura, Vittorio, sapessi quanta ne ho avuta quando non ti trovavo più…” “Intendo della tua morte” dissi io, Italo sospirò “Io non voglio morire” mi disse “Amo la vita, la nostra famiglia, le montagne, le capre e tutto il resto ma…” io stavo a sentire “Insomma, cosa vale tutto questo se ce ne freghiamo degli altri, se lascio morire te o chiunque altro io non valgo nulla ma…”
“Quindi tu…moriresti per uno sconosciuto?” sussurrai “Penso di si” fece lui “Ma non possiamo saperlo visto che, questa volta, era te che dovevo salvare, e io senza di te, che vita avrei avuto?”
“Allora mi vuoi bene, Italo?”
“Certo che te ne voglio, che domande sono? Sei mio fratello”
“Non sono un buon fratello, però, stavo per ucciderti”
“Non dire sciocchezze” disse in un sussurro ma con più forza “Sei ancora molto piccolo e poi…” Italo sospirò “Non c’è davvero nessuno a cui io voglia più bene”
“Per me è lo stesso” gli dissi “Non voglio che tu muoia, non voglio che tu muoia per colpa mia”
“Forse non succederà mai ma se dovesse capitare voglio che tu sappia…”
“Cosa?”
“Che sarei felice di morire per te, Vittorio, perché anche se sarò morto, se ti avrò salvato, continuerò a vivere attraverso di te”
“Anche io sarei felice di morire per te, Italo” dissi con convinzione “Tu oggi mi hai salvato ed io ti sarò fedele fino alla morte”
Nel buio intravidi Italo annuire “Si vede che sei mio fratello” disse “Sei un bravo piccolo soldato”. Mi addormentai col sorriso sulle labbra.
 
All’inizio della scuola, grazie all’encomiabile impegno di mio padre, non avevo avuto grossi problemi. Riuscivo, pur con difficoltà, a tracciare le aste e non avevo certo problemi di disciplina. La scuola, a quei tempi, era principalmente basata su quest’ultima. Io ero stato istruito dai miei genitori anche più del necessario sul comportamento da tenere, entrambi erano abituati all’irrequietezza di Italo e si aspettavano che il secondo maschio avesse la stessa indole per cui mio padre mi aveva anche minacciato di fare uso del bastone se avesse avuto lamentele dalla scuola. Io, però, già dal primo giorno, avevo raggiunto in silenzio il mio posto, ai compagni che mi rivolgevano la parola rispondevo con un sorriso o un cenno del capo, conscio di non poter parlare e avevo sistemato ordinatamente il materiale scolastico sotto il banco.
Quando il parroco, che ci faceva da insegnante, era arrivato, sulla classe era piombato il silenzio ed eravamo tutti scattati in piedi. Avevamo detto la preghiera ed avevamo assistito alla messa, ed io mi ero anche proposto come chierichetto, sicchè da quel momento, ebbi sempre qualcosa da fare durante le prime ore di scuola. Fino a novembre, non ero mai stato veramente punito, soltanto una volta, dopo un’ora che tracciavo aste, la mano destra aveva iniziato a dolermi fin troppo e senza neanche pensarci avevo passato il pennino nella sinistra. Il parroco, mi aveva sorpreso da dietro, mi aveva preso la mano tra le sue, tra l’altro era sporca di inchiostro, cosa che si doveva sempre evitare. Per regolamento, aveva detto, avrebbe potuto colpirmela con la bacchetta di legno ma, poiché credeva nel perdono, si era limitato a legarmela dietro la schiena. A causa del rimprovero avevo gli occhi lucidi, tuttavia ero grato al senso del perdono del parroco.

Io ed Anna frequentavamo la scuola elementare in due edifici uno di fronte l’altro. Italo, invece, frequentava il ginnasio giù a Trento e viaggiava ogni giorno col treno. Dopo il treno, gli toccava salire a piedi in paese, qui recuperava me ed Anna poi, tutti insieme, tornavamo a casa. Quando Italo raccontava la sua giornata rimanevo sempre stupito da quanto facilmente si mettesse nei guai, da quanto poco temesse le conseguenze delle sue azioni.
Al ginnasio, raccontava Italo, c’erano degli studenti di lingua tedesca. Erano i figli dei funzionari dell’impero, quelli che non erano originari di Trento. Fin da subito questi austriaci avevano intrapreso una guerra contro Italo ed il suo gruppo, cioè i ragazzi delle prime classi più belligeranti. Era una guerra che si protraeva dall’attesa che il cancello aprisse, fino all’intervallo e finanche alle lezioni. Una fazione tirava uno scherzo e l’altra si vendicava, poi si pianificava un altro modo per cogliere di sorpresa i nemici.

Una volta, Italo, venne a prenderci a scuola scuro in volto, quel giorno con le battaglie c’erano andati proprio pesante. Scoprimmo che un amico di Italo di prima ginnasio, un certo Bernardi, era incappato da solo in tre austriaci. Uno lo conoscevamo, era Joseph Schmidtmeier, viveva vicino il paese ed era orfano di padre, gli altri due erano i fratelli Hofer.
I tre, avevano trovato il modo di danneggiare il povero Bernardi, lo avevano preso per la giacca e lo avevano visto in una grossa pozza di fango. Bernardi non era debole, ma era solo, inoltre Joseph Schmidtmeier e Franz Hofer avevano entrambi quattordici anni. Così Bernardi si era trovato zuppo di fango da capo a piedi.
A quei tempi la pulizia e l’ordine erano fondamentali a scuola, un giorno ogni due, ci capitava di essere ispezionati per capire se avessimo pulito bene le unghie ed il collo, Bernardi non poteva certo sognarsi di entrare in classe ricoperto di fango. Poiché aveva ancora tempo, aveva tentato di lavarsi alla fontana, il fango venne via facilmente dai capelli e dalla testa ma per i vestiti non c’era nulla da fare, era tornato verso la scuola piangente, casa era troppo lontana per potersi cambiare, non poteva nascondersi da nessuna parte senza che i suoi genitori lo venissero a sapere e, in un modo o nell’altro, per lui sarebbe finita male.
Incappò in Italo appena prima di varcare il cancello della scuola, mio fratello era apparso da dietro un albero e lo aveva attirato a se.
“Cosa ti hanno fatto?”
“Non è evidente?”
“Ho sentito che se ne vantavano”
“Come faccio? Non posso entrare in classe così”
Italo aveva scosso la testa “Seguimi” gli aveva detto. Per una via laterale lo aveva condotto sul retro della scuola. Quando Italo si trovava sul piazzale della scuola, durante l’intervallo o occasionalmente quando volgeva lo sguardo fuori dalla finestra notava sempre quella zona boscosa, sul retro della scuola, si domandava quanto fosse grande, perché non fosse urbanizzata e ne era attratto, spesso era andato ad esplorarla, tra alberi e sterpaglie aveva trovato un fosso, abbastanza profondo da potercisi nascondere dentro ed aveva pensato di utilizzarlo per tendere un agguato agli austriaci ma quel giorno il fossato avrebbe avuto uno scopo diverso.
“Non puoi andare a scuola e nemmeno tornare a casa, non ti resta che nasconderti” disse mio fratello rivolto a Bernardi. “Tanto vale che io torni a casa” rispose lui sconsolato “Tanto se faccio un’assenza e non la giustifico, la scuola avvertirà mio padre e poi lui…” “Per la giustificazione troveremo un modo” insistette Italo, Bernardi scosse la testa. “Io sono il comandante del nostro plotone di italiani” affermò con fierezza mio fratello “E’ mio preciso dovere trovare una soluzione a questo tuo problema”. Bernardi non sembrava convinto. Italo si sedette a terra con la testa fra le mani, “devo pur fare qualcosa” aveva sussurrato. “E va bene” aveva detto poi. Sotto lo sguardo sbigottito di Bernardi aveva iniziato a sbottonarsi il cappotto.
Quando il ragazzo ebbe indossato tutti i vestiti di mio fratello, ad eccezione del cappotto, non riusciciva a contenere i sorrisi di gioia per la gratitudine. “Davvero fai questo per me?” aveva chiesto per l’ennesima volta. “E’ questo quello che fa un comandante” aveva detto Italo infilandosi nel fosso.

A sentire il racconto di Italo, l’attesa dentro il fossato, era stata caratterizzata da freddo ed umidità, che lui aveva cercato di arginare coprendosi col cappotto, finite le lezioni, Bernardi, era tornato a casa con i vestiti di Italo, si era spogliato e li aveva consegnati al fratello minore, Sebastiano Bernardi, che aveva appena un anno più di me, perché li riportasse ad Italo. Casa Bernardi distava circa mezz’ora a piedi dalla scuola ma il ragazzino se l’era fatta di corsa su ordine del fratello ed era piombato dietro il cortile chiamando mio fratello per cognome. “Signor Montanari, Signor Montanari” aveva gridato scoprendone il nascondiglio, gli aveva porto i vestiti dicendo “Mio fratello le manda a dire che si è vendicato degli austriaci. E che il fatto che indossasse i suoi vestiti li ha intimoriti proprio come Patroclo con l’armatura di Achille, signor tenente”.
Da quel momento Italo, per i fratelli Bernardi e per molti altri era stato noto come “il tenente” e quell’avventura fu tramandata per molti altri anni. Quel giorno, però, nel raccontarcela, Italo, era stato piuttosto in pensiero. Aveva marinato la scuola, arrivavamo in ritardo a casa ed il suo cappotto era sporco di fango. La situazione era disperata, per quanto Italo potesse ancora sperare di salvarsi, io ed Anna lo avevamo bombardato di consigli ma nessuno di essi sembrava valido.

Quando entrammo a casa, Italo, si limitò a sospirare, sistemò il cappotto sull’appendi abiti prima ancora che nostro padre potesse notare il fango. “Com’è andata la scuola? Avete fatto tardi” chiese lui, sfogliando la sua amata enciclopedia e senza degnarci di uno sguardo. Pensai che dopotutto, l’avevamo fatta franca ma Italo fece una cosa che mi lasciò esterrefatto. Senza dire nulla, superò nostro padre, afferrò la canna che mio padre usava per le punizioni corporali e che in genere teneva sullo sparecchia tavola e gliela porse per il manico. Nostro padre si voltò lentamente a guardarlo, “Dovrei fidarmi del tuo giudizio ed usarla prima ancora di chiedere spiegazioni?” chiese. Io ed Anna lo fissavamo a bocca spalancata, “E’ troppo” disse rivolto a lui “Non voglio nasconderti nulla, padre, e questa volta ho davvero esagerato. Sapevo come sarebbe finita nel momento stesso in cui io…” “A volte la lealtà” lo interruppe nostro padre “E’ più importante della disciplina, Italo” detto ciò prese la canna e la ripose dove si trovava. “Va’ prima che cambi idea” disse a mio fratello. Io ed Anna ci fissammo l’un l’altro incapaci di proferir parola.

Pochi giorni dopo, mi capitò di essere picchiato a scuola con la bacchetta, un colpo per ogni mano, perché non ero capace di scrivere la “A” in corsivo. Avevo stretto il labbro tra i denti, per impedirmi di piangere, ed avevo avuto gli occhi lucidi, e le mani a dir poco dolenti, per tutta la giornata. Tornato a casa, senza dir nulla, avevo compiuto le stesse azioni che avevo visto compiere ad Italo quel giorno in cui aveva marinato la scuola, porgendo la canna per il manico a nostro padre, lo fissai negli occhi con decisione. Non avevo ancora compiuto sei anni ma mi sentivo forte, coraggioso, avevo il fratello più coraggioso del mondo ed io potevo e volevo diventare come lui.
 
   
 
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