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Autore: EffyLou    04/09/2017    3 recensioni
IN PAUSA - aggiornerò quando avrò alcuni capitoli pronti!
Las Vegas pullula di creature sovrannaturali e mostri.
Phoebe Montgomery ha ventitré anni e lavora come barista al casinò dell'hotel Mirage, sulla Strip. È una ragazza socievole, spigliata, c'è solo un problema: è schizofrenica. O almeno così crede di essere. Fin da bambina, si imbottisce di pastiglie per allucinazioni pur di non vedere mostri e creature spaventose che, dodici anni prima, uccisero suo fratello in un vicolo.
Esseri che la guardano come se fosse oro, che la inseguono, la braccano, la aggrediscono, solo se lei non prende la pastiglie. Devono essere allucinazioni per forza.
Tuttavia, Phoebe Montgomery è una cosiddetta Esper con il dono della chiaroveggenza.
Grazie al fortunato incontro con Damon Darden, la ragazza entrerà nell'Ordine degli Esper, organizzazione sottoposta al Vaticano che lavora per studiare e comprendere mostri e creature, e per mantenere in equilibrio quel mondo fatto di due realtà sovrapposte che mai devono incontrarsi.
È un mondo insidioso. Non si deve abbassare la guardia per nessun motivo.
Chi perde la concentrazione, chi si lascia corrompere, chi guarda in faccia il Male...
Cade.
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La storia tratta della percezione extrasensoriale.
Genere: Dark, Horror, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Esper'
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Capitolo secondo
Terra consacrata


Phoebe non aveva più risposto alle chiamate e ai messaggi di Michael Bane e lui non si era più presentato al Mirage. Questo inquietava e rendeva più tranquilla al tempo stesso la giovane barista.
Era rimasta sconvolta dalla notizia di quel cliente abituale morto in modo orribile e anche la freddezza disarmante di Bane nei confronti dell’assassinio dell’amico l’aveva turbata.
Dopo qualche giorno andò a dormire a casa di Amy. Vedeva qualcuno aggirarsi intorno alla sua casa, vedeva la sua ombra dalla finestra e sulle tende. Aveva una paura terribile e il giorno dopo era corsa a casa della sua amica con un borsone pieno di vestiti.
Lei l’aveva ascoltata con le sopracciglia aggrottate.
«Forse le pasticche non fanno più effetto e ho di nuovo le allucinazioni.» diceva Phoebe, nervosa, camminando avanti e indietro per il salotto.
«E se invece fosse davvero qualcuno che gira intorno casa tua?»
«A questo punto perché non ha sfondato una finestra e non è entrato? È una fottuta allucinazione, dio mio, di nuovo.» si passò le mani tra i capelli.
Amy alzò gli occhi su di lei, osservò i suoi movimenti nevrotici e ascoltò le parole che fluivano dalla sua bocca ben scandite ma pronunciate alla velocità della luce. Riusciva a parlare davvero veloce. «Ti terrorizzano tanto. Mi chiedo cosa vedi.»
«Mostri. Demoni, fantasmi, persone con abbaglianti occhi rossi o gialli, che mi danno la caccia. Credevo che loro avessero ucciso mio fratello, invece probabilmente è stato solo un assassino in un vicolo.»
La bionda aggrottò le sopracciglia, stavolta seriamente interessata. Come se stesse riflettendo.
L’amica si stava martoriando le unghie con i denti, consumando le suole delle scarpe nel suo nervoso andirivieni per il salotto. Non l’aveva mai vista così tesa, così agitata.
Improvvisamente si fermò, come se si fosse spenta. Lanciò un’occhiata di sottecchi tra le tende, fuori la finestra, nella strada debolmente illuminata dalla luce dei lampioni. In lontananza, la Strip sfavillava.
«Se fossero stati reali, le altre persone li avrebbero visti e si sarebbero spaventati. Se fossero stati reali... – chiuse gli occhi. – Avrei continuato a vederli anche con le pasticche. Non ci sono tante spiegazioni, Amy, ho una malattia mentale. Quindi quell’ombra dev’essere frutto della mia mente malata.»
Amethyst le si accostò, facendole una carezza sulla schiena. Poi le fece un cenno col capo, per farle capire che doveva aiutarla ad aprire il divano-letto per la notte.

 
* * *

 
Phoebe si passò i lacci del grembiule rosso cremisi intorno alla vita e li allacciò sulla schiena.
Indossò il cappellino e sistemò i capelli nocciola in una coda bassa laterale. Il direttore ci teneva che le ragazze fossero carine sul lavoro, anche le divise le rendevano apprezzabili.
Controllò sull’orologio da polso l’orario, fece un rapido conteggio, e decise che l’effetto delle pasticche stava per finire e doveva prenderne altre.
Infilò la mano nella borsa ed estrasse il tubetto di pastiglie.
Vuoto.
«Oh, no. Cazzo.»
Cercò istericamente se nella borsa avesse altri tubetti.
Non poteva stare senza quelle pasticche, non poteva. Non aveva alcuna intenzione di vivere di nuovo quegli incubi con mostri orrendi che l’annusavano e la inseguivano. Le avevano perseguitato il sonno da quando aveva undici anni, le avevano reso la vita piena di ansia e un continuo conto alla rovescia per controllare la durata dell’effetto delle pasticche e quando avrebbe dovuto prenderne un’altra dose. Era terrorizzata.
Ma non c’era nessuna pasticca, nemmeno di scorta, nemmeno sfuggita dal tubo di plastica arancione trasparente. Niente.
Si guardò allo specchio un’altra volta. Gli occhi arrossati di lacrime sembravano ancora più verdi, l’espressione stravolta e terrorizzata. Lisciò il grembiule con le mani, anche se in realtà si stava solo asciugando il sudore, e prese un bel respiro.
Mancava ancora un po’ prima che effettivamente le pasticche che aveva preso esaurissero il loro effetto e dunque poteva andare a comprarle in una farmacia. Doveva solo essere svelta.
L’avrebbe detto ad Amy, l’avrebbe avvertita.
Arrivò al bancone del bar, si accostò subito ad Amethyst.
«Devo andare in farmacia. Urgente. Puoi coprirmi?»
La bionda la guardò confusa. «Sono chiuse a quest’ora.»
«Una che rimane aperta ventiquattr’ore non c’è in questa città?»
«Devi provare quella in fondo alla Strip, ma i proprietari fanno sempre quello che vogliono.»
Alzò gli occhi al cielo, la mascella serrata. «È una fottuta farmacia! Non possono fare quello che vogliono.»
Amy la guardò di sottecchi, come se la stesse soppesando.
«Sono finite le pasticche, eh? Vai. E sta’ attenta.»
Phoebe si slacciò il grembiule, lasciandolo da qualche parte sotto il bancone. Quando si voltò, incrociò gli occhi azzurri di Michael Bane. Una sigaretta tra le labbra, un Martini in mano. La fissava in modo indecifrabile, enigmatico. Come se non lasciasse trasparire alcuna emozione, oppure ne volesse mostrare troppe.
Lei s’irrigidì ma non lo degnò di una parola.
Uscì dall’angolo bar come una furia. Poi fu fuori dal casinò, nella hall dell’hotel e in strada.
Non aveva nemmeno la bicicletta con sé, non andava a lavoro pedalando perché casa sua era molto vicina al Mirage. Ma in quel momento si maledisse per non averla portata, la Strip era lunga da fare a piedi e non poteva passare da casa per prenderla.
L’aria estiva del deserto del Nevada, a luglio, infuocava l’asfalto anche la sera.
Phoebe fece scivolare il primo bottone della camicia dall’asola e cominciò a correre. Sfrecciava vicino ai passanti che le rivolgevano sguardi fugaci, insulti più o meno coloriti quando li urtava, e occhiate confuse di chi non capisce perché una persona ha tanta fretta. D’andare dove, poi?
Due chilometri dal Mirage alla farmacia. Poteva farcela. Nonostante le vertigini che stringevano il cervello come una morsa, nonostante il fiato che abbandonava i polmoni prima del previsto. Eppure Phoebe era sempre stata piuttosto atletica, era agile e anche veloce. Durante l’adolescenza era dedita al parkour, per sfogare l’indole iperattiva. O qualcosa che doveva somigliarci molto, ecco.
Ora era stanca, affaticata, le cosce bruciavano. Ma doveva correre, doveva comprare quelle pasticche. Non voleva vedere i mostri, non voleva avere le sue allucinazioni terrificanti e così reali da essere malsane.
Durante la sua corsa a perdifiato verso la “salvezza”, si rese conto – tra una vertigine e l’altra – che l’effetto delle pasticche era svanito. I mostri camminavano per la Strip, indisturbati e accompagnati da donne normali o mostruose come loro. Si soffermavano a guardarla, annusavano l’aria.
Come il giorno in cui perse Mitch. Stavolta non la rincorrevano, perché?
La farmacia era chiusa, la serranda abbassata. Diede un pugno al metallo, e sventolò la mano perché si era slogata il polso. Si accasciò sul marciapiede, il sudore che scendeva dalle tempie.
Era vulnerabile ai mostri, ma loro non l’aggredivano. Si limitavano a fissarla, annusare l’aria intorno a lei. Avrebbe voluto diventare minuscola, oppure venir inghiottita dal cemento del marciapiede. Qualsiasi cosa era meglio di stare lì, a farsi guardare come una bestia allo zoo dalle vere bestie e farsi annusare.
«Trovata.» sibilò la voce di qualcuno.
Phoebe girò la testa di scatto. Due luminosi occhi rossi, incastonati sul viso squadrato e cereo di un uomo simile ad un divo del cinema con i capelli biondi, la fissavano. Vicino a lui ce n’era un altro, ma i suoi capelli tendevano al bianco nonostante fosse molto più giovane. Dovevano essere fratelli.
Quello più giovane le saltò addosso, Phoebe lanciò un grido, e gli mollò un calcio sul diaframma che lo fece volare almeno un metro indietro. Ne approfittò per scappare, ma non implorò aiuto.
Cercò nei suoi ricordi il giorno in cui era stata inseguita la prima volta, a come era sfuggita. Il rosario, la nicchia con la Madonna.
Un luogo di culto.
Il suo cervello sembrò quasi un navigatore satellitare, cercò strade, cunicoli, edifici. Chiese, moschee, sinagoghe, qualsiasi ritrovo religioso.
E dietro di lei, i mostri comandati da quei due con gli occhi rossi che la inseguivano. Saltavano agili sui tetti delle case, correvano rapidi. Quelli con i lampeggianti occhi gialli correvano a quattro zampe come i cani, le zanne affilare scoperte in un ringhio. Quelli con gli occhi rossi avevano volti deformati da larghe bocche nere piene di denti acuminati come quelle degli squali, la pelle cerea e vene nere esposte.
I demoni avevano corna, pelle putrefatta o bruciata, e nella maggior parte dei casi anche le corna; i fantasmi erano semi trasparenti, evanescenti, gli occhi neri come le orbite vuote di un teschio.
Il fiato le mancava, i polmoni bruciavano, i muscoli delle cosce s’infiammavano per la fatica. Cercò di seminarli, ma non ci riuscì. I bidoni che lasciava cadere dietro di sé non arrestavano la loro caccia.
I cancelli della parrocchia le si pararono di fronte, e quasi le sembrarono le porte del paradiso. Phoebe fece appello a tutte le rimembranze di parkour per scavalcarlo: la mente dimentica, il corpo no. Riuscì ad arrampicarsi nonostante il tremore che le scuoteva le membra per via dell’adrenalina, nonostante le vertigini, nonostante il panico totale.
E quando fu dentro si accorse che quelle creature, se provavano a toccare le inferriate, si bruciavano le mani.
Indietreggiò di un paio di passi, alzando il dito medio nella loro direzione. Il petto si sollevava ed abbassava frenetico nel tentativo di riprendere fiato. Bussò alle porte della parrocchia, un prete tremendamente anziano le aprì dopo un po’. Era vestito con una tunica bianca dalle maniche larghe, la barba grigia e ispida.
Lanciò un’occhiata fuori dai cancelli, vedendo tutta quella gente che ronzava lì intorno come se quella ragazza fosse un boccone prelibato. Poi guardò di nuovo lei, gli occhi arrossati dal pianto e i capelli scarmigliati, il fiato corto. Si sorreggeva allo stipite della porta a causa delle forti vertigini.
Il prete la condusse dentro, aiutandola a sorreggersi, e la fece accomodare su una delle panche di fronte all’altare. Andò a prenderle un bicchiere d’acqua fresca.
«Nottataccia.» borbottò Phoebe.
«Cos’è successo?»
«Sa, gli acidi e altre droghe sintetiche che si trovano nelle discoteche... Non rendono tranquille le serate. Brutte allucinazioni, scappavo da loro.»
Il prete la guardò di sottecchi. Non sembrava una tossica. Non aveva gli occhi stralunati di chi era imbottito di acidi, ecstasy e altri intrugli sintetici in pasticca. E poi…
«Scappavi da tutta quella gente? Cosa vedevi di tanto orrendo per scappare così da quelle persone? Erano vestite di tutto punto. Erano forse i membri di una gang?»
Lei lo guardò in tralice, scoccandogli un’occhiataccia carica di seccatura. Quante domande per essere un prete, non si stava mica confessando.
Ma poi un pensiero le balenò nella testa. Quelle persone erano reali, l’avevano inseguita. Il suo cervello creava su di loro immagini distorte a causa della malattia, ma erano reali. Forse erano davvero i membri di un’associazione criminale, ma perché la cercavano? Perché avevano ucciso Mitch quando aveva solo quattordici anni e perché ora tentavano di uccidere lei, dopo così tanto tempo? Forse avevano un conto in sospeso con i suoi genitori e si erano accaniti sui figli, dopotutto succedeva sempre così. Solo che dodici anni prima avevano trovato solo Mitch e di lei avevano poi perso le tracce. Doveva essere una spiegazione del genere, ma sentiva che c’era qualcosa che mancava perché non tutto combaciava con questa sua teoria. C’erano tante domande a cui la sua ipotesi non riusciva a dare una spiegazione.
Si prese la testa fra le mani, gli occhi fissi al pavimento. Talmente sconvolta da non riuscire neppure a piangere. Non poteva chiamare Amy, non poteva chiamare i suoi genitori. Non aveva il telefono.
«Non lo so, non lo so! – passò le dita tra i capelli, mordendosi il labbro. – Senti, prete, domani devi farmi un favore. Un atto di carità, l’elemosina. Ho bisogno di pasticche, non posso uscire da qui.»
«Le tue droghe sintetiche?» la incalzò, ironico, facendole ben intendere che non ci credeva alla sua montata tossicodipendenza.
«Qualcosa del genere, clozapina. È un farmaco.»
Il prete sembrò addolcirsi un po’, lo sguardo compassionevole.
«Domani mi darai tutte le indicazioni. Posso sapere il tuo nome?»
«Phoebe Montgomery, lavoro come barista all’hotel Mirage. Non ho niente con me, è tutto al casinò dell’hotel, mi dispiace non poterti dare prove.»
«Non sono mica un poliziotto. – le fece un sorriso rassicurante. – Domani mattina andrò a comprarti le pasticche e recupererò le tue cose al casinò. Ma, se posso, ti consiglio di restare qui per qualche giorno. Nessuno potrà farti del male, nella casa del Signore. È terra consacrata.»
 

 
   
 
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