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Autore: EffyLou    04/09/2017    0 recensioni
Johann Trollmann è un pugile, beniamino del popolo tedesco negli ultimi anni della Repubblica di Weimar.
Indisciplinato, imprevedibile, borioso. Non sono i suoi difetti più grandi. Johann Rukeli Trollmann appartiene ad un popolo scomodo: è uno zingaro. Conquista le platee di Germania e fa innamorare le donne tedesche.
Nella sofferenza che porterà il Nazismo, il suo unico punto fermo e pilastro incrollabile è Frieda. Johann tocca l'apice e il fondo, assaggia il successo e la disperazione, conosce la serenità e la guerra. La derisione nazista si scontra con l'orgoglio di uno zingaro, che proprio non vuole saperne di abbassare la testa a quelle umiliazioni.
C'è solo un modo per far tacere quell'anima in rivolta: ridurlo ad un numero e darlo in pasto al Porajmos, l'Olocausto del popolo zingaro.
- - - - - -
I veri combattenti non temevano la loro ultima battaglia, e se c'era una cosa che Rukeli aveva sempre fatto, era dimostrare di non temere neppure il Diavolo. Neppure il Nazismo.
Genere: Drammatico, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Novecento/Dittature, Olocausto
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7 - Schönower Heide



Si svegliò riposato, ma in una posizione assolutamente inconsueta sul letto. Erano sdraiati ai piedi del letto, sul bordo, le gambe intrecciate. Completamente nudi.
Ah già.

Ricordò quella notte con un sorriso assonnato. Guardò la ragazza, dormiva serena accoccolata al suo petto. Le labbra arrossate dai baci di quella notte erano leggermente schiuse e mostravano il bianco dei denti. I capelli biondi arruffati e luminosi alla luce dei raggi solari che filtravano dalle tende bianche della stanza. Aveva una pelle meravigliosa: liscia e morbida, era porcellana preziosa.
Era calda, gli scaldava l’anima e il corpo.
Quella notte l’aveva vista nuda, l’aveva sentita, l’aveva toccata; il suo profumo di lavanda, la sua forma a clessidra, le natiche lisce e morbide, i seni rotondi e sodi, le sue gambe affusolate strette intorno a lui durante l’amplesso. La loro prima volta.
Era quello fare l’amore. Con dolcezza e premura, mettere le anime a contatto ancora prima del corpo.

Chiuse gli occhi riassaporando quel momento, mentre con la mano continuava a disegnare cerchi sulla spalla della ragazza accoccolata a sé.
Aveva conosciuto moltissime donne, andato a letto con molte di loro. Ma Frieda era perfetta, era sua ed era una bambola di porcellana preziosa. Per troppo tempo aveva desiderato poterla toccare come quella notte. Era solo sua. Un angelo incarnato solo per lui. Nessuno avrebbe potuto portargliela via.

Frieda mugugnò qualcosa e si stropicciò gli occhi.
«Buongiorno, bambina» le sorrise, scoccandole un bacio tra i capelli.
«Ehi» pigolò e si mise a sedere, allungando le braccia al soffitto per stiracchiarsi.

Johann contemplò ancora una volta quel magnifico corpo nudo. La luce della mattina lo rendeva ancora più morbido, e la finezza che sfoggiava Frieda anche appena sveglia era rara.
Altre donne, appena sveglie, erano volgari. Non nel parlare, ma nell’atteggiamento e nell’aspetto. Il trucco completamente distrutto, il corpo quasi grottesco. Belle, sì, ma solo se agghindate e in ordine.
Lei non era così. Anche senza trucco e con i capelli arruffati, anche appena sveglia e assonnata, era fine. Il lenzuolo copriva elegantemente le nudità, e i seni ben rotondi e sodi non risultavano volgari come quelli estremamente prosperosi ma decadenti di altre.
Amava guardarla. Poteva fissarla per ore e non stancarsi mai.

«E ora come faccio, volevo arrivare vergine al matrimonio. Sei un tipo losco, Trollmann»
Lui si mise a ridacchiare, tirandola per un braccio per farla stendere di nuovo vicino a sé. «Allora ti sposerò, un giorno, così non ti devi preoccupare» le stampò un bacio sulla punta del naso.
«È una promessa?» domandò lei, con un sorrisetto sfottò.
Johann arricciò il naso con un sorriso. «Se vuoi»
«Io comunque scherzavo» gli morse piano la punta del naso.
Lui inarcò le sopracciglia, con aria di sufficienza. «Lo so. Alla fine l’ho capito, comunque, che non era la tua prima volta»
«Sei un grande esperto sul serio, allora» si appoggiò su un gomito, di fianco a lui.
«Nemmeno ti rispondo, guarda» un sorriso sornione si aprì sul bel viso del sinti, come un gatto che fa le fusa.

Se n’era accorto, ma aveva capito che la ragazza non doveva avere esperienza. Praticamente, era come se fosse stata la sua prima volta. Era ipersensibile agli stimoli e dolcemente inesperta, e l’aveva mandato in knock-out.
Era audace e questo gli piaceva, non era passiva. Non ci aveva impiegato molto a prendere familiarità con il corpo di Johann.
Tra cosacchi vivevano il sesso senza tabù. E poi, con un’amica come Hildi, un po’ di cose le sapeva in anteprima. Lei confidava tutto, ogni dettaglio. Tra una cosa e l’altra, Frieda aveva una mente molto aperta alla sessualità, non si scandalizzava come le sue coetanee e non era schizzinosa. La considerava una cosa assolutamente normale e naturale. Non esistevano tabù.
La prima volta di Frieda era stata a diciassette anni, ed era stata la prima ed unica. Fu un disastro e non le piacque nemmeno, anche se il ragazzo le piaceva ed era un tipo apposto. Aveva capito lì che saper fare sesso era quasi un’arte, non tutti ne erano in grado.
Ma Johann… Ci sapeva fare sul serio. Non era un cialtrone.

«È stato fantastico» ammise timidamente, le guance rosse d’imbarazzo.

Rukeli inghiottì l’azzurro cielo nel baratro del suo sguardo. Un breve silenzio, un lento sorriso sornione, lo sguardo di un lupo sul punto di saltare sul cerbiatto; la punta delle dita percorsero il fianco e la coscia della ragazza, fino a stringere sulla carne.
«Facevi la preziosa, che a bordo ring non volevi urlare il mio nome come le altre. Alla fine però hai gridato per me.» sussurrò sfiorandole le labbra con le sue «Mi piace quando lo fai, mi piace quando gridi il mio nome».
 

Avevano fatto colazione insieme. Johann non doveva allenarsi e lei aveva il turno al pub dopo cena, perciò avevano una giornata libera.
La mattina avevano fatto un giro per Mitte, mano nella mano, e avevano spaventato bambini o comprato loro dei dolci come facevano di solito. Poi avevano fatto un salto al mercato ed erano tornati a casa. La neve era cominciata a scendere ma non attecchiva ancora. Pranzarono con uno stufato e poi andarono al maneggio.
Frieda prese la macchina di suo padre senza chiedergli il permesso, gli lasciò solo un biglietto d’avviso nella cassetta della posta. Per metterla in moto collegò dei fili sotto al volante.
Ricordava ancora la prima volta che l’aveva accompagnata al maneggio, che l’aveva vista guidare e mettere in moto l’auto. A volte con i fili sotto al volante, altre volte chiedendo le chiavi al padre.
Ogni volta, appena saliva in macchina, c’era la routine: capelli dentro il borsalino, baffi finti e finti occhiali da vista dalla montatura enorme.
 
«Le donne non potrebbero guidare, in teoria» osservò Johann, vagamente divertito.
«Allora fallo tu, sei capace a guidare una macchina?» lo provocò, indossando il borsalino e nascondendoci dentro i capelli.
«Beh, no.» ammise controvoglia «Chi ti ha insegnato?»
«Mio padre, quando ha visto che tentavo di farlo da sola.» trafficò con uno scomparto dell’auto, estraendo un paio di biondi baffi finti che attaccò sopra il labbro «Però, come hai detto tu stesso, le donne non possono. È per questo che giro come Friedrich Bilda» disse orgogliosa, presentando il suo alter ego maschile con una carezza sui baffi.

Non se l’aspettava. Ciò che stava facendo Frieda era praticamente illegale e non le importava nulla. La realtà era che in assenza del padre qualcuno doveva pur occuparsi dei cavalli, e chi meglio di lei? Non le interessava se la legge diceva che le donne non potevano guidare, le interessava dei suoi animali e della loro salute, e infrangere quelle sciocche regole era l’unico modo per prendersi cura di loro quando Edmund non poteva.
«Non c’è il maschile di Olga?» sghignazzò.
Lei ingranò la marcia. «Oleg. Un nome odioso come la sua controparte femminile. Frieda è il diminutivo di Friederike, perciò devo mettere al maschile Friederike»
«Mia madre si chiama Friederike»
Frieda gli strizzò l’occhio. «Sicuramente è una donna fantastica»
«Egocentrica».


 
La ragazza guidò sull’asfalto freddo seguendo le linee sinuose delle colline a nord di Berlino. Uscirono dalla regione, Frieda guidò a lungo. Arrivarono alle campagne di Schönower Heide[1].
Il fazzoletto di terra della famiglia Bilda era delimitato con una recinzione di legno e un cancello basso, era una porzione ampia che permetteva ai cavalli di girare liberamente. In fondo c’era un vecchio casale di piccole dimensioni che veniva usato per qualche rimpatriata ed era tenuto pulito, poi c’erano le stalle e il fienile, che era così grande che ci avevano persino messo dentro i trofei di Frieda e un tavolo con qualche sedia. C’era il tiro a bersaglio con le freccette nere e rosse, e i bersagli di fieno per il tiro con l’arco tra l’erba.
Schönower Heide era quasi interamente coperta di fiori di lavanda e piccoli cespugli, e non c’erano molti alberi. Johann amava quel posto, profumava di natura e lo faceva sentire libero.
Frieda scese per aprire il cancello di legno e rimontò sull’auto per entrare e parcheggiare dentro, vicino al fienile.
Dovevano ripulire le stalle, rifornire con il fieno, rimettere l’acqua, coprire i cavalli e fargli fare un giro. Avevano il loro da fare, come sempre, ma in due si faceva prima.

Johann adorava quel lato del carattere della ragazza: sempre pronta a rimboccarsi le maniche anche per fare lavori faticosi o non molto puliti come spalare via le feci dei cavalli, non si schifava e non era schizzinosa.
Johann dal canto suo non aveva imparato un mestiere vero e proprio, eccetto magari fare il pane, e ogni tanto prendeva in giro scherzosamente Frieda dicendole che con lei stava imparando a fare lo stalliere.
Mentre ripulivano il fienile, guardò le foto e i premi che la ragazza aveva vinto con il tiro con l’arco. Una meravigliosa amazzone con i capelli biondi e la mira micidiale di un cecchino.

«Insegnami a tirare con l’arco o a freccette. Voglio migliorare la mia mira» le disse.
Lei posò il grosso masso di fieno su una pila bassa, e lo guardò interrogativa. «D’accordo. Prima copriamo i cavalli, vieni».

Edmund Bilda, scappato dall’Ucraina per via delle persecuzioni ai cosacchi e arrivato in Germania all’inizio del 1900, domava i cavalli per l’esercito tedesco. Viveva con Frieda e la moglie Agnes in una campagna grande il doppio di quella, ad ovest di Berlino. Perciò la ragazza era cresciuta in campagna, non aveva assistito neanche molto agli orrori della guerra. Ma la guerra le portò via sua madre nel 1917, un giorno che era a Berlino per comprare alcune stoffe.
In concomitanza con il successo sportivo di Frieda, in ambito equestre, Edmund Bilda perse il lavoro e importanza, perché slavo, cadendo in miseria. Solo grazie all’aiuto di un amico ebreo, riuscì a tenere tre cavalli e prendere un pezzo di terra di modeste dimensioni, ed era quello.
Ora gli restavano tre cavalli: Annika e Livia, due giumente, la prima grigia pezzata e l’altra color nocciola, e Alfie, lo stallone di razza gidran dal manto color castagna.

La prima volta che Johann vide Alfie, così aggraziato e possente, era convinto che fosse il cavallo di Edmund Bilda. Alfie era stato prelevato dalle praterie dell’Ungheria, era un puledro selvaggio. Aveva pensato che fosse del signor Bilda perché era un grande esperto nella doma dei cavalli. Invece apparteneva a Frieda, lo cavalcava lei e avevano vinto insieme il titolo nazionale di cross-country. Alfie era addestrato alla perfezione ed abituato ai boschi. Gli gidran erano originari dall’Ungheria ed erano cavalli anglo-arabi perciò molto aggraziati, eleganti, ma forti e veloci. Dal temperamento vivace, energico, estremamente intelligente ed espressivo, erano molto poco inclini a lasciarsi domare e per questo non era semplice trovare gidran addestrati. Ma con una buona dose di comprensione ed empatia tra fantino e cavallo, si poteva arrivare ad un compromesso.
Johann adorava quel cavallo, e quel cavallo sembrava apprezzare la sua scherzosa compagnia.
Frieda gli aveva detto che se Johann fosse stato un cavallo, sarebbe stato un mustang selvaggio, dalle Americhe, per il suo temperamento indomito, indipendente, coraggioso, difficile da addestrare e dalla volontà impiegabile. Invece, secondo Johann, Frieda sarebbe stata proprio una gidran.

Lui conosceva i cavalli. Durante la Guerra era andato a vivere nelle campagne dello zio, che domava quegli animali per l’esercito. Aveva imparato le diverse razze, le varie caratteristiche fisiche e caratteriali, e aveva imparato a cavalcare. D’altronde, lo zio Robert Weiss - fratello minore di sua madre - gli ripeteva sempre un proverbio gitano, aggiungendo: «I miei tesori non luccicano né tintinnano ma brillano nel sole e nitriscono nella notte. Questi animali sono con noi dall’alba dei tempi, senza di loro non saremmo qui. Sono il nostro tesoro più grande».

Coperti i cavalli con dei teli pesanti, l’unica cosa che ai due restava da fare era tirare con l’arco.
Frieda prese il suo arco, in legno chiaro e ricurvo sugli estremi, e la faretra. Si posizionò a diversi metri dal bersaglio, incoccò la freccia e tese la corda. Johann vide che quando la corda era tesa e arrivava al viso, Frieda fermava il respiro per una manciata di secondi. Tempo di prendere la mira. Espirava quando la freccia era già partita.
Toccò a lui provare, lei non gli diede indicazioni né niente. Cercò di imitare la sua postura, l’incocco, il fiato. Non immaginava che anche nel tiro con l’arco fosse importante il respiro.

Lei gli stava dietro. Gli alzò il gomito che teneva la corda tesa. «È la schiena che lavora, le scapole, le spalle. Non le braccia» gli disse.
Lui seguì le indicazioni. Prese la mira.
«Non mirare guardando la punta della freccia. Guarda dove vuoi colpire. I colpi vanno dove si posa lo sguardo».
Era quello che gli diceva sempre anche Leyendecker, ma con il pugilato era diverso.
«Fissa il punto, tieni il fiato. Quando sei pronto, lascia».

I primi tentativi furono quasi disastrosi. Le frecce non prendevano il bersaglio oppure lo colpivano solo nei margini. Ma Frieda gli aveva detto che andava bene così, che era la prima volta e che era stato bravo. Gli aveva dato un bacio sulla guancia e lui aveva sorriso.
Si sarebbe allenato meglio piano piano. Non doveva fare gare o combattere per il titolo nazionale di tiro con l’arco, aveva tutto il tempo. Ma si era impuntato che doveva imparare, e l’avrebbe fatto.

Riuscirono a tornare a Berlino con il crepuscolo, tornarono a casa di Johann visto che Frieda aveva lasciato lì le sue cose. Si strappò via i baffi finti e li rimise a posto nel cruscotto, infine si tolse i capelli da sotto al borsalino.
Quando entrarono nell’appartamento, doveva sbrigarsi a cenare per andare a lavorare puntuale. Ci pensò Johann a preparare la cena, mentre lei sistemava le sue cose.
«Non sapevo che sapessi cucinare» commentò lei, la sacca appesa alla spalla.
«Non sai tante cose di quello che so fare» replicò lui, lo sguardo furbo come quello di una volpe.
«Ad esempio?»
«So suonare il violino. Lo sapevi?»
«Suonalo per me un giorno»
«Te lo suonerei ogni sera per farti addormentare.» replicò, con un sorriso tenero «E farti chiudere quella bocca. Ché parli sempre» aggiunse, scherzoso.

Tra uno sfottò e l’altro, si ritrovarono a parlare di loro. Cose che non si erano ancora mai detti. Cose che avrebbero voluto fare insieme come campeggi, viaggi, vacanze. Cosa sarebbero voluti diventare. Frieda voleva fare l’antropologa, Johann voleva diventare un campione di boxe. Sogni di due ragazzi che non volevano altro che divertirsi e andare avanti, trovare la loro strada. Progetti di gioventù destinati ad un boulevard di sogni infranti.

Lui la accompagnò a casa a posare la sacca, e poi al Der Blume.
«L’undici novembre c’è l’incontro di un mio amico ad Hannover.» le disse «Era mio compagno ai tempi della Sparta Linden. Andrò a vederlo, così saluto anche la mia famiglia. Ti va di venire?»
Frieda ci pensò su. «Devo sentire se mi danno un paio di giorni di permesso.» indicò il pub «Se me li concedono, vengo volentieri»
«Tanto staremo da qualche parte tipo un motel.» abbassò lo sguardo, imbarazzato «Casa mia è troppo piccola»
Lei gli diede una pacca scherzosa. «Non importa. Io vado» si mise in punta di piedi e lo tirò verso il basso per ricevere un bacio.
«Dopo ti riporto a casa io» le pizzicò il fianco scherzosamente e le strizzò l’occhio prima di voltarsi e andare. Lei entrò nel pub di fretta e furia, salutò tutti e si andò a cambiare.
Da quando conobbe Rukeli, l’uomo molesto non si era più fatto vedere.




 

[1] Schönower Heide
Attualmente è una riserva naturale, ma fu proclamata tale dopo la Seconda Guerra Mondiale.
   
 
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