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Autore: Il Cavaliere Nero    04/09/2017    7 recensioni
Shinichi Kudo è famosissimo: il più giovane detective, un curriculm che vanta il maggior numero di casi- rapidamente!- risolti. Per la sua consapevole abilità, e talvolta saccente professionalità, parte della polizia lo applaude e lo stima; l’altra metà, per la stessa ragione, lo ostacola nascondendosi dietro una finta esaltazione di rigorismo, che è in realtà qualunquismo.

“Tu…sei, sei stato in centrale oggi?”
“Sì. Ma sai, non mi sono fermato lì con loro, non sono soliti parlare benissimo di me."
In quella dichiarazione di consapevolezza, in lui tornò a dominare il detective orgoglioso e sicuro di sé, distaccato e persino un po’ scontroso.
"Tu...sai che..."
"Mph, credi che io viva sulle nuvole? Dicono che io sia ancora più arrogante da quando sono amico suo. Un mese fa ero un eroe, ora improvvisamente uno sbruffone. Come si spiega quest'incoerenza? Io sono sempre io. Sono sempre stato un eroe, sarò sempre uno sbruffone. Purchè scelgano. Sono lo stesso di un mese fa, non c'è nulla di diverso in me."

Ran apprezza i suoi metodi, totalmente distanti da quelli di suo padre. Ma li apprezzerà anche quando ne verrà travolta?
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo nono
Distrazione

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«“Sono innamorato? Sì, perché sto aspettando.”
L’altro, invece, non aspetta mai. Talvolta, ho
voglia di giocare a quello che non aspetta;
cerco allora di tenermi occupato, di arrivare in ritardo;
ma a questo gioco, io perdo sempre: qualunque cosa io faccia,
mi ritrovo sempre sfaccendato o, per meglio dire, in anticipo.
La fatale identità dell’innamorato è: io sono quello che aspetta.»
Jorge Louis Borges
 
 
 
 
Con il consueto e oramai indispensabile ringraziamento alla carissima Rob,
 
 
 
 
Le sagome di due corvi si stagliavano, appese, su un ramo del salice in giardino, irradiate dalla flebile luce lunare come se avessero volontariamente scelto la posizione al centro del palcoscenico, laddove l’occhio del faro isola e centra l’attore principale. Erano impettiti, fermi, con gli artigli conficcati nel legno come se ne stessero succhiando via la linfa, e Shinichi riusciva a scorgere il riflesso rossastro di quegli occhietti impassibili - una sfumatura che, messa in risalto dal nero del piumaggio, attribuiva loro una natura quasi demoniaca.
Correva a perdifiato, intenzionato a raggiungerli: sentiva le gambe formicolare e i piedi indolenzirsi via via che perpetrava lo sforzo della corsa, eppure non cedeva e ignorando le grida di dolore del corpo continuava, protendendo verso di loro le braccia. Arrivava ai piedi dell’albero e questo sembrava precipitare all’indietro; di nuovo riprendeva a correre e quasi poteva vedere lui stesso le sue mani protendersi in un gesto all’apparenza eroico, ma che lui riconosceva come disperato.
Finalmente, raggiungeva l’albero e, dopo una esitazione –che, seppur breve, procurava in lui la vergogna che ombreggia il codardo- faceva per afferrare quelle zampette rapaci come le hanno le aquile e preistoriche come quelle di dinosauri. Il primo corvo esplodeva in un gracchio lugubre e, aprendo repentinamente le ali per apparire più grande di fronte a quello che riconosceva come un nemico, spiccava il volo emettendo versi sempre più acuti; l’altro non era altrettanto rapido, e Shinichi l’afferrava: ma l’animale gli conficcava le unghie nella carne, e un sangue rosso vermiglio –rosso quanto quegli occhietti spettrali- immediatamente gli colava dal braccio giù sui vestiti, a impregnargli la vista e l’olfatto d’un odore acerbo quale quello del ferro arrugginito.
Come era stato anche per le due notti precedenti, a questo punto dell’incubo Shinichi aprì gli occhi di scatto e s’affrettò a sedersi sul letto, guardandosi intorno con l’immagine di quei due maledetti corvi ancora negli occhi, certo di trovarli volteggiare sopra la sua testa come rapaci pronti a precipitare sulle carcasse da divorare. *
Impiegò qualche secondo a capacitarsi dell’irrealtà che gli si era proiettata nella testa: la dimensione onirica gli s’imponeva come realtà filtrata da un diverso canale percettivo, lasciandogli addosso una sensazione sgradevole – che qualcuno avrebbe definito angoscia, ma che il giovane detective sminuiva come stress o premura data dalla brusca accelerazione che, contro la sua volontà, l’indagine sui Mib stava subendo.
Si distese di nuovo, deciso a ignorare quel sogno per assopirsi nuovamente il prima possibile. E tuttavia, gli occhi serrati, il cervello non ne voleva sapere, ma anzi aveva già ripreso a lavorare meticolosamente sul caso: la tortura ad Akai, la retromarcia coatta, il pericolo corso dall’agente Hondou a causa di una stupida foto – tutti fatti che aveva affrontato con grande ardimento e contro i quali avrebbe agito ancora e ancora senza tirarsi indietro, ma che si succedevano nell’inconscio della sua mente in un reflusso di eventi pericolosi che l’organismo stava faticando a digerire.
Shinichi non aveva provato paura neppure per un secondo – non per se stesso, almeno. Ma percepiva con grande chiarezza il dolore delle persone che lo circondavano: la frustrazione di Kir che, sempre pronta all’eventualità di essere scoperta e uccisa, lottava dall’interno in un continuo gioco di gerarchie, costretta talvolta a eseguire degli ordini raccapriccianti per scalare i gradini dell’Organizzazione – e quel maledetto articolo di giornale che aveva rischiato di mandare tutto all’aria!; agenti di volta in volta sempre più disillusi, l’intenzione di arrestarli che progressivamente si era tramutata in una speranza, e poi pian piano in anelito, quando non in slancio idealistico e puramente immaginifico; tutte le vittime inconsapevoli, che si erano lasciate risucchiare dal gorgo di quegli uomini e non erano più riuscite a salvarsi: uomini corrotti e stupidi, intenzionati a sfruttare i benefici che un’organizzazione criminale di tale portata poteva arrecare, imprigionati nei loro affari prima ancora di rendersene conto…tutto questo, e poi Shuichi.
Akai, infiltrato nell’Organizzazione con il nome in codice di Rye e l’identità fasulla di Moroboshi Dai, provava in quei giorni un dolore estremo, ma schivo e solitario quanto, e forse più, del Detective dell’Est, esternava raramente i segnali della sua misera condizione.
Shinichi sapeva che stava resistendo a denti stretti, appeso con le unghie a una superficie in grave pendenza, deciso a fare tutto quanto era in suo potere per arrestarli dal primo all’ultimo – o almeno, Gin e Vodka, per incominciare: quei due luridi esseri colpevoli di azioni terribili.
Shinichi sapeva.
La condizione di Akai era pericolosa, e la decisione più sensata da prendere, in seguito agli ultimi avvenimenti, sarebbe stata quella di abbandonare immediatamente la sua copertura e tornare a gestire l’indagine extra limen, dall’esterno, coordinando le azioni dei suoi colleghi dell’FBI. Non ne avevano parlato esplicitamente, ma entrambi l’avevano capito ancor prima di quell’aggressione nel vecchio magazzino, un evento che naturalmente aveva sottratto loro ogni possibile dubbio: Gin sospettava, per quanto ancora Rye avrebbe mantenuto la sua immagine di criminale?; eppure, Shuichi non avrebbe abbandonato quel ruolo dopo tanta fatica, proprio allora che qualcosa sembrava si stesse muovendo: sì, l’operazione di smantellamento coordinata da James Black dopo la soffiata di Akai era rovinosamente fallita a causa dell’errore di un agente appena trasferito * –Andre Camel, un uomo tanto inquietante tanto sensibile alla propria colpevolezza-, ma non importava; l’operazione successiva sarebbe andata meglio, doveva andare meglio. Shuichi insisteva tenacemente a costo della sua vita e Shinichi sapeva che non si sarebbe tirato indietro almeno fin quando almeno quella ragazza non fosse stata tratta in salvo: Akai non gliene aveva fatto cenno neanche una volta, non ce n’era bisogno. Lei era il pegno con cui riscattare il suo fallimento più grande.
Entrambi sapevano, e il detective percepiva profondamente il dolore e la frustrazione di quello che aveva avvicinato come collega e presto era divenuto un amico.
Rinunciò a dormire e s’alzò, scoccando uno sguardo oltre la persiana aperta: quel salice che nel sogno era preludio all’apparizione dei corvi ondeggiava flessuosamente, di fronte ai suoi occhi svegli, per effetto del vento –l’albero che suo padre aveva voluto piantare nel giardino della Villa quando Shinichi frequentava le scuole medie. Quel piccolo elemento di realtà nel sogno era forse ciò che più lo inquietava quella notte.
Sceso al piano inferiore, si diresse in cucina per cercare nel frigorifero qualcosa che potesse conciliare il sonno: del latte, forse, o almeno un po’ di caffè avanzato? La scarsa premura che il ragazzo aveva per le questioni domestiche si traducevano in credenze completamente vuote, dal momento che i pasti erano quasi sempre consumati all’esterno –lui, il grande detective del nuovo secolo, che neppure sapeva cucinare qualche chicco di riso. Soltanto piatti d’asporto o cibi preconfezionati.
Lanciò uno sguardo all’orologio mentre beveva dell’acqua minerale: le due e quaranta del mattino.
L’attenzione fu attirata dal cellulare poggiato sul tavolino. Lo prese, indeciso.
Shinichi Kudo era sempre stato un ragazzo solitario. Nel corso del tempo, ed anzi anche negli anni della scuola, la gran parte dei suoi conoscenti aveva pensato di poterlo inquadrare nel tipo del giovane sicuro di sé e snob, perciò naturalmente portato all’esclusione degli altri per interesse di se stesso. Una opinione corroborata e rafforzata dal suo atteggiamento spavaldo e vanaglorioso, specie nei tempi d’esordio della sua attività di investigatore: lettere di ammiratrici che il suo armadietto scolastico a malapena riusciva a contenere, fan che lo rincorrevano per la strada nel tentativo di strappargli un autografo o, almeno, una parola, giornalisti che gli si accalcavano intorno per assicurarsi la prima intervista sull’ultimo caso chiuso, la cascata di fotografie e articoli di giornali che lo ritraevano negli atti più ostentati della propria abilità.
Shinichi Kudo era famoso, ed era ritenuto dai più un giovane altezzoso, a tratti arrogante, e nondimeno lui non aveva mai smontato questa descrizione ufficiale.
Una delle sue anime, quella che effettivamente si abbeverava a un certo snobismo intellettuale, lo convinceva dell’inutilità di qualunque tentativo teso a smontare quell’immagine di lui tanto parziale; pertanto, Kudo Shinichi era persuaso nell’idea che, se qualcuno lo ritenesse saccente e pieno di sé, ebbene lo credesse pure: non avrebbe fatto nulla, per dimostrare il contrario. E per cosa, poi?
Osserva ciò che è in superficie e gettalo senza curartene: ciò che si mostra con grande facilità non abbia il tuo interesse. Nulla è più prezioso di ciò che dev’essere svelato. *
La sua vera identità rispondeva all’imperativo morale di auto-conservazione: conoscere se stessi, tendere alla perfezione, cercare sempre l’azione migliore – i tre cardini della sua etica.
Il detective Kudo era un ragazzo dall’arroganza spiccata; ma Shinichi era un giovane che si crogiolava allegramente nella saccenza che ostentava con malizia irriverente e, all’occorrenza, persino auto-ironica, sebbene naturalmente non gli fosse estraneo un certo mordace sarcasmo pronto a venir fuori quando qualcosa lo spazientiva.
Questo si traduceva in una sostanziale selezione del suo tempo libero: pochi amici, pochi svaghi. Il suo ego, che pure veniva profondamente stuzzicato e compiaciuto dall’apprezzamento di un numero davvero considerevole di donne, s’arrestava di fronte alla concretizzazione di quell’ammirazione che altri avrebbero colto al volo. Nessuna storia passionale con attrici famose, nessuna avventura con femme fatales o donne dal fascino magnetico: Shinichi Kudo era sostanzialmente noncurante del potenziale sensuale della sua fama, ed anzi probabilmente in alcuni frangenti si sarebbe potuto definire persino lento a cogliere i segnali dei flirt cui le ragazze lo invitavano.
L’anelito ai valori assoluti indotto dalla sua morale lo portava a rifiutare automaticamente la possibilità di una relazione di comodo: non avrebbe pagato lo scotto del compromesso per evitare la solitudine, poiché non la temeva.
E però, tutto ciò non era bastato a renderlo totalmente immune alla repentina irruzione di particolari sensazioni: una ragazzina stava attirando la sua attenzione in una maniera tanto rapida quanto irrazionale –un’irrazionalità che lui non riusciva ad accettare e che pure lo sopraffaceva quando lei compariva in scena. Abituato a non porsi affatto tale problema, si stupiva di quanto Ran abitasse il suo immaginario, e si stizziva nel sorprendersi tanto spoglio di fronte a delle emozioni che in passato non aveva provato. Scoprire il batticuore che l’assaliva se la ragazza gli compariva davanti senza preavviso, sorprendere le mani tremargli quando i loro sguardi si fossero incrociati e soprattutto distrarsi da un ragionamento deduttivo perché l’immagine del corpo di lei s’impossessava della sua mente analitica…tutto questo lo meravigliava poiché gli rivelava l’esistenza di uno Shinichi pericolosamente sentimentale, interessato più al sapore di quelle labbra delicate che alla conversazione con un poliziotto. Uno Shinichi prevedibile e incauto.
Ogni volta si dava mentalmente dello stupido e si ammoniva da solo affinché si scrollasse di dosso quella frivolezza atipica; ma sempre, prima o poi, si ripresentava l’occasione e lui si meravigliava d’essere incapace di gestirla. Si meravigliava che la prima reazione a quelle sensazioni fosse entusiasta, e che il primo desiderio ad affiorare nel suo inconscio riguardasse il corpo della ragazza.
 
“Posso…chiederti, se vuoi aspettare?”
 
Era stato ridicolo!
 
“Puoi mandarmi un messaggio, qualche volta?”
 
Ed era stato un imbecille che le aveva scritto il mattino dopo, ed aveva chattato con lei come uno studentello alle prime armi.
Con quel cellulare tra le mani, quasi non si rese conto di ciò che aveva appena digitato:
 
«Non prenderla sul personale, ma spero che tu non riesca a dormire, sai?»
 
Di nuovo preda dell’irrazionalità, aveva agito contro ogni logica –e stava rischiando addirittura di comportarsi in maniera non professionale: un rimprovero che, ne andava molto fiero, mai nessuno aveva potuto rivolgergli. Ma cosa diavolo gli prendeva? Quel suo gemito a malapena strozzato quando l’aveva toccata, ancora nelle orecchie…
Sbuffò, gettando il telefono con un gesto di stizza contro se stesso e la sua riscoperta impulsività.
 
“Tu devi essere il motivo per il quale Shinichi-san mi risponde sempre in ritardo…”
“Ti ho già detto che avevo un contrattempo.”
“Sto appunto alludendo al fatto che sia lei, il contrattempo.”
 
Aveva sghignazzato Shuichi, facendolo avvampare immediatamente, poiché in pochi secondi aveva capito perfettamente la situazione: Shinichi era distratto da Ran.
Lo squillo del telefono lo fece sobbalzare:
 
«Sei preda dell’insonnia, grande detective?»
 
Per la seconda volta scagliò il telefono lontano da sé, affrettandosi a spengere la luce e tornare al piano di sopra nel suo letto.
Pochi istanti dopo, tuttavia, la cucina fu nuovamente illuminata a giorno e, con uno sbuffo seccato, il detective recuperò il cellulare per portarlo con sé nella stanza:
 
«Cosa fa una ragazza per bene sveglia a quest’ora?»
«Sherlock Holmes si è ritrovato improvvisamente da solo e si annoiava?»
«Stai aggirando la domanda, dovrò forse preoccuparmi?»
«Un grande detective ha di certo preoccupazioni più importanti…»
 
Il ritmo serrato delle loro conversazioni, il modo in cui lei riusciva a sostenere i suoi affondi ed anzi a rilanciarli, ciò che non veniva detto eppure s’imponeva nell’aria come un audace convitato di pietra – Shinichi era assediato e s’affannava inutilmente attorno alla resa.
 
«Mi offro per salvare il dongiovanni di turno dalle violente mani di tuo padre.»
«Dovresti offrirti per salvarlo dalle mie…»
«Se sei sempre così violenta non troverai marito!»
«E quale moglie vorrà un fastidioso so-tutto-io?»
 
Il giovane detective sorrise e, indulgente con se stesso, cedette per la seconda volta a quel bisogno che, nei momenti di crisi, sentiva così urgente da offuscarlo:
 
«Voglio vederti.»
 
§§§
 
Intrattabile.
Questo l’aggettivo con cui si era sentita apostrofare almeno quattro volte nell’arco della giornata – sua madre per telefono, Sonoko in classe, e Kogoro dapprima al telefono, quando le aveva chiesto di comprare del riso per la cena prima di tornare a casa, e poi anche di persona nel tentativo di arginare le critiche contro il suo terzo bicchiere di saché durante la cena: insomma, un record!
Era forse colpa sua? Era colpa sua se quell’arrogante sbruffone so-tutto-io era un superficiale e vanaglorioso imbecille?
A metà cena, con il pretesto di essere totalmente sazia della vista di suo padre preda della solita bottiglia, s’era alzata per rifugiarsi in cucina, a lavare i piatti: la solitudine della stanza e il rumore dell’acqua la celavano da Kogoro, dagli altri, dal mondo; non voleva vedere né parlare con nessuno, voleva stare da sola e basta. Non le interessava niente, non voleva argomentare né spiegare il benché minimo infinitesimale nulla in merito al suo cattivo umore.
Sì, era colpa sua. Colpa sua che era una ragazzina e s’era lasciata prendere in giro da un investigatore.
Il detective Mouri fece capolino dal salotto per monitorare la condizione della figlia: la vide talmente intenta nel riasciugare le stoviglie, che con uno sbuffo sonoro –che avrebbe dovuto tradurre un “Solo tu sai cosa t’è preso, Ran” - se ne tornò in camera, pronto alla maratona film con attrice protagonista la sua amata Yoko Okino.
Risciacquando gli ultimi piatti, la ragazza si ritrovò a pensare che il beneficio dell’acqua avrebbe piuttosto dovuto cancellarle i ricordi dalla mente, come le acque prodigiose del Lete, fiume dove immergersi per ritrovare la purezza originaria; mentre la sua, di purezza originaria, si annidava nei tempi che avevano preceduto l’incontro con Shinichi Kudo: ma non di certo l’incontro fisico, reale, bensì la prima volta in cui i suoi occhi si erano posati sul suo volto sorridente intento a rispondere al giornalista di turno. Sarebbe stato meglio non aver mai provato interesse per quello snob, mai aver covato un debole per lui! Mai!
“Cosa vuoi che ti dica? Oggi è intrattabile… lasciami in pace, parla con lei se ci tieni a farti trattar male. Sono molto indaffarato adesso!” sentì Kogoro decretare, probabilmente al telefono con Eri Kisaki – ecco, per la quinta volta! Record imbattuto di malumore per Ran Mouri.
Era colpa sua e basta, Shinichi non aveva responsabilità. Stava a Ran capire, e ridimensionare i suoi desideri: aveva sperato troppo, si era illusa dell’unicità di un sentimento che probabilmente non si era neanche affacciato nell’animo del ragazzo; non per demerito, ma poiché Shinichi Kudo non avrebbe mai potuto prendersi una cotta per Ran Mouri. Come le era potuto venire in mente?
Quella mattina, mentre andava a scuola, aveva visto troneggiare la foto del detective privato da un giornale appeso all’edicola all’angolo con il quartiere di Beika, vicino la stazione di polizia. Con il sorrisetto sulle labbra più incurvato delle altre volte (“Shinichi non è più la persona di cui sento parlare, è la persona con cui parlo…” aveva cinguettato tra sé e sé, acquistando la rivista), s’era affrettata a leggere l’articolo che lo riguardava: delle novità sull’indagine, forse? O il suo consapevole commento a qualche fatto d’attualità? Avrebbe persino potuto usare quella nuova intervista come scusa per contattarlo…
Invece, il breve trafiletto rivelava che Shinichi aveva un’amica segreta, probabilmente famosa: il giovane detective era immortalato di profilo, con la schiena appoggiata al tronco di un albero e le mani in tasca, in compagnia di una ragazza fotografata di spalle, i capelli ricci raccolti in una coda di cavallo e l’abbigliamento molto elegante – completo di gonna e giacca chiari, scarpe rigorosamente alte, sciarpona maculata e occhiali da sole.
Il gossip s’era scatenato: non c’era stato opinionista tv, cronachista, conduttore o radiocronista che non avesse ipotizzato un nome, e naturalmente ogni nominativo proveniva dalla lizza delle Veneri dello spettacolo. Tra coloro che parlavano di attrici e chi ipotizzava cantanti, la parte più consistente percentualmente era quella che puntava su qualche modella – una bellezza adatta al carisma del detective più affascinante della metropoli, recitava il giornale.
Dapprima, Ran aveva sperimentato la fase della negazione: i giornalisti hanno sovrinterpretato un nonnulla - non è nessuno, è una conoscente, è una cliente, è una sua amica – ,il ventaglio delle possibilità era molto ampio ma molto vago, perché preoccuparsi di una donna con cui Shinichi stava parlando in un parco? Poteva essere persino una sua fan che, avendolo riconosciuto, l’aveva importunato per un autografo e lui, gentile, aveva accettato…
Nondimeno, in un secondo momento, un dettaglio sconcertante le aveva procurato il rallentamento del battito cardiaco: Ran aveva riconosciuto nella ragazza della foto l’attrice vista a casa di Shinichi giorni addietro, la Hidemi che lasciava casa sua di notte *, e aveva sentito tutto il corpo congelarsi.
 
“A presto, Hidemi.”
La voce di Shinichi.
Si affacciò oltre il cancello e vide il detective sulla soglia della porta, in camicia bianca e pantaloni eleganti. I piedi però erano nudi. Di fronte a lui una donna molto alta, e bella, avvolta in un tailleur elegante e molto raffinato, che le evidenziava le curve.
Gli stava dicendo qualcosa, ma parlava a voce talmente bassa che non riuscì a cogliere le parole; le dava le spalle, perciò non fu capace di leggerle le labbra. Mentre si sporgeva di più, lo stomaco le si contorceva.
-Chi è questa donna?!-
Non pensò di avere a che fare con un detective…con Il Detective. Dopo cinque secondi che tentava di spiarli, lui si sentì osservato e mentre ancora la giovane gli parlava, lui volse gli occhi oltre le spalle di lei, e vide la liceale.
Contemporaneamente lui sgranò gli occhi e lei avvampò:
“Ran!” la chiamò, interrompendo la mora di fronte a lui che, allarmata, si voltò. La giovane la vide in faccia: era altrettanto bella. Un volto chiaro, gli occhi azzurri e meravigliosamente truccati. Le parve di conoscerla.
-Ma certo! È un’attrice…- realizzò, cercando nella sua mente il nome che la gelosia le impediva di ricordare.
Shinichi poggiò una mano sulla spalla della donna, e la rassicurò:
“È la figlia di un collega.”
Quella presentazione le diede sui nervi. Dal canto suo, Hidemi parve rasserenata.
“Buonasera, signorina…Ran, giusto?”
“Esatto.” Mugugnò a mezza bocca, i pugni distesi lungo i fianchi.
“Si è fatto tardi, io devo andare.” Tornò a rivolgersi al ragazzo, che le sorrise:
“Certo. Buona serata…e buon lavoro.” Aggiunse repentino, con un mezzo sorriso “Ti accompagno.”
E non curandosi d’essere scalzo, la scortò lungo il vialetto sino al cancello; le aprì galantemente la porta e la fece uscire.
“Arrivederci, signorina Ran.”
“Salve.” Le rispose seria, infischiandosene del sorriso gentile che l’attrice le aveva rivolto. Rimase immobile a guardarla andare via, salendo in una macchina blu metallizzata di gran classe.
“Alle coincidenze, io non credo.” La richiamò Shinichi, appoggiando la testa alla mano che ancora reggeva il cancello.
“Perché sei qui?”
“Chi è quella donna?”
“Perché sei qui?”
“Mhm…” Ran non rispose, tornando a guardare l’automobile guidata da lei che, proprio in quel momento, passava davanti alla villa. I due si salutarono di nuovo con un sorriso.
“È la tua amante segreta? Si è spaventata perché pensava che fossi una giornalista in caccia di scoop?” cercò di scoprire, nelle sue intenzioni quella di fingersi pettegola e sfacciata quando a muoverla era solo l’acuta e profonda gelosia.
Shinichi le regalò un sorriso impertinente.
“Vuoi entrare, Ran?” E, terza persona a non attendere una sua risposta, le diede le spalle facendole strada verso la porta.
Lo seguì, allo stesso tempo imbarazzata ed elettrizzata. Ma non riusciva a non pensare che Shinichi indossava una camicia bianca, sciattata e sbottonata di parecchio; ed era scalzo. E aveva appena salutato una bella donna, probabilmente prima entrata in casa sua.
La testa volò a quel che dentro quella casa poteva essere successo, a quel che poteva essersi consumato in quelle mura. E lo stomaco le mandò segnali di dolore.
“Scusami, non sarei dovuta piombarti qui all’improvviso.” Si decise a dirgli, mentre varcava la soglia dell’abitazione. “Avrei fatto meglio a telefonarti.”
“Non ti preoccupare.”
Chiuse la porta alle sue spalle con un colpo secco, e la guardò negli occhi:
“Hidemi non è la mia amante.” Le rivelò.
Ran arrossì; desiderò ardentemente che quell’affermazione accompagnata dall’azione decisa volesse nascondere qualcosa come: “Lei non è la mia amante, io non sono fidanzato e non ho nessuna donna a cui dovere fedeltà. Ed ora sei tu la donna che è qui, in casa mia, chiusa in casa mia.”
Ma scosse violentemente il capo, cercando di tornare coi piedi per terra.
“E chi è?”
“Un’amica.”
“È un’attrice.”
“Una cosa non esclude l’altra.”
“Le attrici sono sempre coinvolte in torbide relazioni con uomini famosi.”
“Mia madre era un’attrice.”
“Lo so.”
Le lanciò un’occhiata divertita, e lei si corresse: “Cioè…devo averlo sentito da qualche parte.”
 
 A quell’epifania era conseguita una indomabile sensazione di nausea, cui poi s’era sostituita la stizza. Da allora in poi le fasi del suo umore si erano rincorse velocemente in un saliscendi di emozioni: dolore, speranza, sospetto, certezza, amore, astio; ogni emozione era ugualmente accompagnata, tuttavia, dal gelo che percepiva fisicamente all’interno del corpo e al tremore delle dita e della fronte.
Sbuffando, chiuse il rubinetto. Aveva cercato di distrarsi, ma non era servito a nulla: qualunque attività che in altri momenti le avrebbero giovato, in quel frangente non riuscivano ad impegnarla per più di qualche minuto.
Shinichi aveva un’amante, e neppure glielo aveva detto. Anzi, le aveva spudoratamente mentito.
Nel preciso istante in cui Ran era approdata a quella consapevolezza, lo aveva odiato. Un sentimento che mai avrebbe pensato di poter provare nei confronti di quell’investigatore, aveva imputridito per sempre l’immagine e la stima che da tanto tempo la giovane nutriva per lui. D’accordo un’amante, di certo non poteva sperare non avesse mai intrattenuto dei rapporti con una donna: ma perché non dirle la verità? Perché nasconderla?
La denigrazione degli esseri che amiamo ci distacca sempre un po’ da loro. Non bisogna toccare gli idoli, altrimenti la doratura ci rimane sulla dita. * 
Si gettò sul letto con ancora la divisa scolastica, abbandonandosi sul materasso con un tonfo sordo. Era senza forze.
“Vai già a dormire, Ran? Sono appena le nove e un quarto…”
“Buonanotte, papà.”
Un ennesimo sbuffo chiuse la conversazione tra Kogoro e la figlia, totalmente apatica.
Si girò su un fianco, nascondendo il volto nell’incavo del gomito.
-Che scema sono stata…mi ero ripromessa di non sperarci troppo, di non illudermi…-
Voleva disperatamente dormire, perdere conoscenza, smettere di pensare a quell’immagine di lui e lei insieme che pure le si ripresentava con regolarità. Come poteva una sola foto ridurla in quello stato? Mentre le guance si bagnavano delle prime lacrime, la giovane chiudeva gli occhi e s’abbandonava a qualcosa di ancor peggiore della sofferenza, la volontà di soffrire. Per un motivo che non sapeva spiegarsi, Ran non voleva pensare ad altro, non voleva cancellarsi dalla mente i loro volti a poca distanza, non voleva eliminare il detective dai suoi pensieri: di conseguenza, ecco subito manifestarsi i in lei il desiderio di richiamare alla mente quei momenti trascorsi con lui, quelle battutine maliziose e quel sorriso impertinente, quegli occhi che la scrutavano rivelandole un vivace bagliore oltre le pupille, quegli incontri quasi segreti tra loro che, in virtù proprio della discrezione con cui s’erano svolti, le avevano mandato il sangue alla testa nella convinzione che significassero qualcosa. Ricordare era tremendamente doloroso –a ogni ricordo si accompagnava l’emozione provata, che le scaldava il cuore: ma subito dopo quel calore si congelava nella consapevolezza che momenti come quelli non ce ne sarebbero stati mai più, e che invece un’altra ne avrebbe goduto-, eppure non riusciva a farne a meno ed anzi, le pareva indispensabile.
In quella stessa posizione, trascorse la serata versando in una condizione affranta. Quando l’orologio sul comodino segnò le due del mattino, si alzò, svestendosi e preparandosi alla notte –che, già sapeva, avrebbe trascorso vigile e triste. Dopo una rapida doccia che sperava l’avrebbe aiutata e invece non valse a nulla, con la pancia sul materasso e le braccia poggiate sul cuscino, recuperò il cellulare e ne sbloccò lo schermo. Cinque chiamate senza risposta e un sms: la sua migliore amica le aveva telefonato tre volte nel corso della serata –doveva essere in pena per lei, il giorno dopo l’avrebbe chiamata-, sua madre una volta e l’ultima telefonata apparteneva a Kazumi-sempai. Solo allora ricordò gli allenamenti del giorno dopo, le gare nazionali si avvicinavano a grandi falcate. Improvvisamente, desiderò che fosse già giorno: il karate era una delle poche attività capace di rasserenarla, le braccia e le gambe si muovevano quasi automaticamente, trascinate dal ritmo degli esercizi a corpo libero o del combattimento.
Eppure, anche quell’attività era compromessa: anche il karate, oramai, le ricordava Shinichi…*
Sbuffò, come suo padre aveva fatto più volte quella sera. Aprì il messaggio pronta a rispondere ai rimproveri di Kazumi, ma le mani le tremarono e il telefono quasi le sfuggì.
Sussultò su letto, inarcando la schiena:
 
«Non prenderla sul personale, ma spero che tu non riesca a dormire, sai?»
 
Avrebbe dovuto arrabbiarsi e, con sdegno e superiorità, spegnere il telefono ed ignorarlo.
Ma le piaceva.
Tantissimo.
– Come vorrei poter essere orgogliosa quando si tratta di lui… -
Con il cuore che le batteva forte come se il ragazzo fosse lì davanti rispose immediatamente, pur non riuscendo a evitare una piccola allusione:
 
«Sei preda dell’insonnia, grande detective?»
 
Rotolò sul materasso, sgranchendosi le gambe: perché le aveva scritto?
 
«Cosa fa una ragazza per bene sveglia a quest’ora?»
«Sherlock Holmes si è ritrovato improvvisamente da solo e si annoiava?»
«Stai aggirando la domanda, dovrò forse preoccuparmi?»
«Un grande detective ha di certo preoccupazioni più importanti…»
 
La stava pensando? Le guance, ancora bagnate, s’infiammarono.
Le sarebbe bastata la certezza che avesse pensato a lei almeno una sola volta con la medesima intensità con cui era solita abbandonarsi a lui nella propria fantasia.
 
«Mi offro per salvare il dongiovanni di turno dalle violente mani di tuo padre.»
«Dovresti offrirti per salvarlo dalle mie…»
«Se sei sempre così violenta non troverai marito!»
«E quale moglie vorrà un fastidioso so-tutto-io?»
 
Quasi dimentica del risentimento provato per l’intero giorno, fu soddisfatta da quel semplice scambio di battute: come adorava parlare con lui, come si sentiva bene quando parlava con lui!
-Sono veramente stupida...-
Si addormentò con il telefono in mano e un sorriso sincero a incresparle le labbra.
 
 
§§§
 
“Rye deve morire.”
La frase tagliò l’aria, ma nessuno dei tre presenti parve particolarmente colpito dalla gravità dell’asserzione. Al contrario, la donna rise, melliflua:
“Non essere sciocco, Gin. I membri della nostra organizzazione non dipendono dal tuo favore.”
L’uomo strinse la presa sul volante della splendida Porsche su cui viaggiava a tarda ora della notte.
“Quel bastardo è una spia. Io lo so.”
“E perché? Perché si è difeso anziché lasciarsi ammazzare da voi due bestioni?” lei rise ancora, appannando il vetro posteriore con il fumo della sua sigaretta.
“Afferreresti al volo qualunque scusa per ucciderlo. Ma che tu non lo veda di buon occhio non è una motivazione valida per la sua rimozione agli occhi di quella persona.”
“E con la ragazzina come la mettiamo, capo?” s’intromise Vodka: captare l’agitazione del partner era uno dei pochi talenti che aveva a disposizione, pertanto cercò di sviare l’argomento da quell’impasse che tanto sembrava innervosire il biondo.
“Ha preso la sua scelta e ne pagherà le conseguenze.” Proferì lei, serafica. Ma Gin prese la parola con un ghigno:
“Aspettiamo la decisione di quella persona.  Se il mio odio per quel bastardo non è una motivazione valida a una rimozione, non lo è nemmeno il tuo. Ed inoltre, lei…”
“Rye ti è mortalmente antipatico. Ma lei no, non è vero, Gin? È la tua gattina…” disse senza celare il sarcasmo dell’affermazione.
“Poor little kitty…”
Lui non rispose, gettando il mozzicone di sigaretta dal finestrino.
“Ad ogni modo, credo che per intanto quella persona si stia muovendo attraverso uno dei nostri canali per risolvere il polverone che avete alzato voi.” Sospirò, poggiando la guancia sul palmo della mano smaltata mentre le luci notturne delle abitazioni si mescolavano davanti ai suoi occhi oltre il finestrino oscurato.
“Your methods are always so rough…”
 
§§§
 
Non le aveva più risposto.
A dodici ore di distanza da quel breve scambio di sms, il suo giudizio in merito non si era ancora ben delineato: era stato un codardo emotivo a non ammettere di volerla incontrare, cancellando in fretta e furia quella frase compromettente dalle bozze dell’archivio, oppure si era comportato professionalmente, evitando una rischiosa sovrapposizione di piani?
Nondimeno, era lì, tra gli spalti, sul gradone più alto della palestra, e in disparte dagli altri pochissimi astanti, scrutava con attenzione il combattimento al centro del tatami: Ran aveva sconfitto tutti gli avversari.
Shinichi la guardò: i capelli legati in una coda di cavallo e la divisa leggermente aperta in seguito ai movimenti effettuati, gli parve di poter intravedere la biancheria intima ben tirata di fronte lo sterno. Arrossì distogliendo lo sguardo e dandosi mentalmente dell’idiota, mentre ancora non aveva deciso se farsi notare oppure no.
 
“Non sei che un detective arrogante…”
Lui rispose con un sorriso spavaldo, facendo risalire le mani, passando per i glutei ed infilandole sotto la canottiera. Le passò le mani su tutta la schiena, lanciandole uno sguardo elusivo quando s’accorse che non indossava il reggiseno.
Lei si chinò su di lui, come per baciarlo, ma si arrestò a pochi centimetri dalle sue labbra, nel momento in cui anche lui aveva fermato le mani sulle spalle di lei. A malapena trattenne un gemito, che si riversò in parte sulla bocca del detective, quando lui ripercorse di nuovo la schiena della giovane, a piene mani, dal collo alla vita. *
 
Perché era lì?
Voleva vederla…
Sbuffò, scompigliandosi i capelli con una mano.
Tornò a rivolgere la sua attenzione al centro della palestra e comprese fosse necessario decidere in fretta: gli atleti, dopo il saluto rituale, si stavano dirigendo verso gli spogliatoi. Attese che anche Ran facesse altrettanto, persuaso che di fronte ad una sua azione la decisione si sarebbe fatta improvvisamente più facile: andar via o restare? Ma la giovane non seguì gli altri. Dopo aver scambiato qualche parola con quella che doveva essere la più alta cintura tra i presenti, riprese gli esercizi d’allenamento.
 
Non le aveva più risposto.
Appena sveglia, quella stessa mattina, aveva afferrato il telefono con l’entusiasmo infusole dalla risposta che dava per scontata: e invece, nulla. Si era pentita immediatamente del tono allusivo adottato negli sms: forse Shinichi si era offeso e l’aveva ignorata come si fa con una impicciona scocciatrice.
Esattamente come aveva deciso la sera precedente, dunque, si era barricata in palestra con il preciso obiettivo di liberare la mentre oltre il recinto dei suoi sentimenti. Pertanto, quand’anche tutti gli avversari furono finiti e Kazumi-sempai l’ebbe salutata, Ran proseguì con gli allenamenti, comunque indispensabili per arrivare sicura di sé al torneo.
Trascinò uno dei manichini dall’angolo del tatami al centro della pista, aggiustandone la posizione: doveva farlo cadere con il solo uso dei piedi. Strinse la cintura e inspirò; quindi, i colpi si susseguirono con rapidità, tutti simmetrici ed egualmente potenti nei punti che mirava. Il manichino cadeva e lei lo riportava in posizione eretta per riprendere la lotta.
“Anche io mi trattenevo in palestra dopo la fine degli allenamenti, quando giocavo a calcio, al liceo.”
Sussultò come aveva fatto la notte prima, il medesimo tremore a offuscarle i sensi.
“Mi volevo allenare più degli altri.”
Si voltò con gli occhi spalancati e il volto arrossato: Shinichi, di fronte a lei, si avvicinava alla pista con il solito sorriso impertinente e le mani nelle tasche dei jeans chiari. La camicia azzurra, sbottonata sul collo, metteva in risalto il fisico asciutto e scultoreo.
Il cuore le tamburellava troppo forte nel petto perché potesse rispondergli: si limitò a fissarlo mentre scendeva i gradoni e la raggiungeva sul tatami. Quando avrebbe ripensato a quel momento –annoverato tra quei ricordi che, nei momenti di crisi le piaceva e spiaceva ricordare-, l’immagine di lui si sarebbe mescolata ad una certa ironia nel pensiero che quell’entrata in scena appariva come il grande colpo di scena di un film d’azione – o d’amore.
La fissò negli occhi ostentando l’azzurro vivace dei suoi, poi interruppe il contatto visivo per esaminare dall’alto in basso il manichino:
“Però, quest’affare non oppone resistenza…”
Ran sospirò, e non si accorse che l’atteggiamento sostenuto che si era ripromessa d’adottare si frantumasse di fronte all’urgenza di fingere disinteresse mostrando disinvoltura. Fu talmente felice di vederlo, ed entusiasta che fosse stato lui a cercarla, che il piacere d’averlo lì davanti superò tutto il resto, preoccupazione, astio, imbarazzo; e replicò:
“Gli avversari veri li ho già battuti tutti.”
“E dovrei crederti?” la sfidò lui, impertinente.
Era una menzogna, naturalmente: l’aveva vista con i suoi occhi. Eppure, con lei, Shinichi si sentiva tornare bambino *, e si divertiva a punzecchiarla più di quanto si divertisse a smontare l’improbabile deduzione di qualche imbecille.
“Credevo avessi capito che sono brava.”
“Signorina Mouri, lei è così brava da battere tutti?”
“Lo sono a sufficienza per battere lei, detective Kudo.”
“Eppure potrei insegnarle qualcosa che non sa fare. Intendo, Mouri-san, che potrei adeguatamente istruirla.”
“Vengo adeguatamente istruita da quando ho sette anni, Kudo-san.”
Stentavano a rimanere seri, gli occhi brillavano a entrambi. Chi, dall’esterno, li avesse visti in quel momento non avrebbe esitato un secondo a decretare che stessero flirtando, lasciando ai movimenti del corpo o la vivacità degli occhi i significati che le parole non erano libere d’esprimere.
“Non mi riferisco a mosse che abbiano strettamente a che fare con il karate.”
“Quel genere di mosse, Kudo-san, le insegni pure alle sue amanti clandestine. A me non interessano.”
Gli occhi del ragazzo guizzarono, maliziosi, sul viso di lei e Ran seppe d’essersi tradita.
Finse comunque indifferenza mentre Shinichi taceva.
“Cosa va a pensare, signorina?” si decise poi a dire.
Lei non rispose, osservandolo fare il giro del manichino e poggiarvi le mani sopra.
“Quali generi di mosse il suo inconscio le suggerisce di farsi insegnare?”
Spinse il manichino un po’ più in là, aggiungendo: “Con chi pensa di dover rivaleggiare?”
“Non spostarlo, mi sto allenando.” Finse di recuperare serietà, poiché non sapeva come replicare. Ma il giovane non aveva intenzione di cedere il passo:
“Voltati.”
Ran rimase ferma, incuriosita ma imbarazzata di fronte alla sicurezza e alle velate insinuazioni di lui. Non si sorprendeva neanche più dei diversi stati d’animo che sperimentava allorché il ragazzo le si presentava davanti: la disinvoltura e la vergogna si alternavano sino a mescolarsi in un ibrido di pudica esaltazione.
“Avanti, voltati. Ti insegno ad arrestare.”
Mosse rapidamente dei passi verso di lei, finché non l’ebbe raggiunta e, senza aggiungere ulteriori spiegazioni, la fece voltare tenendola per le spalle.
“Prova a liberarti.” Le disse, dopo averle immobilizzato i polsi dietro la schiena con un rapido movimento delle mani.
Incredibilmente, Ran non ci riuscì.
“Forza, cosa aspetti?” la incalzò, la presa ben salda.
Fece per roteare il busto con l’intenzione di colpire la gamba con il piede e farlo cadere, ma le sue parole la distrassero:
“Non ci riesci? Forse dovresti allenarti di più, anziché perdere il tempo a leggere giornaletti…”
Colta alla sprovvista, affondò malamente il colpo, e Shinichi ne approfittò per farla rovinare a terra, assicurandole le mani ancora dietro la schiena e accompagnandone la caduta fino a inginocchiarsi al lato di lei.
“Sei morta.” Cantilenò, supponente.
“Non è un video game.” Lo rimbeccò.
“Ok, allora sei semplicemente a tappeto.”
“Non è neppure pugilato.”
“Il punto fondamentale che stai ignorando è che ho vinto.”
“Lasciami andare.”
“Non ti ho sentito dire che ho vinto…”
Non si aspettava che una prolungata resistenza: ma non capì che quella posizione e quel contatto stretto sui polsi la facevano sentire tremendamente inerme al suo cospetto, imbarazzandola moltissimo – e quelle parole che le si erano fissate nella testa moltiplicavano la sensazione. Senza esitare, ammise:
“Bene, hai vinto. Adesso lasciami andare.”
Fu una risposta brusca, e Shinichi, sorpreso, allentò immediatamente la presa, scrutandola rialzarsi in fretta e aggiustarsi la divisa.
Ancora flesso sulle ginocchia, tornò serio:
“Scusami, non volevo farti male.”
“Non mi hai fatto nulla.”
“Davvero, mi dispiace.” Si alzò, portandosi di fronte alla ragazza. “Stavo solo scherzando.”
“Ti ho detto che non mi hai fatto niente.” Insistette lei, ma il suo sguardo continuava ad indugiare verso il basso.
Con un gesto repentino, Shinichi le afferrò la mano; Ran, per tutta risposta, fece per allontanarsi da lui, ma arrestò i movimenti quando ebbe alzato lo sguardo: le guance lievemente imporporate, le parve si trovasse a disagio.
“Non volevo assolutamente farti male.” Ripeté, massaggiandole il polso. “Scherzavo.”
Non capì se si stesse riferendo a quella strana mossa oppure alla mordace battuta, e preferì non chiederglielo. Rimase ferma, mentre lui le massaggiava delicatamente il polso, facendo poi altrettanto con la mano sinistra.
“Non mi hai fatto niente.” Insistette ancora Ran, ma le uscì solo un flebile sussurro che Shinichi forse neppure udì – e se lo udì, lo ignorò, continuando quell’operazione di medicamento improvvisato.
“Per quanto ne hai ancora con gli allenamenti?”
“Perché?”
“Ti accompagno a casa.”
“Potrei rimanere forse ancora un paio d’ore. Perciò, non preoccuparti: io…”
“Ti aspetto.”
“Non ce n’è bisogno. Io…”
“Ti aspetto qui.”
“Stanno per arrivare i tornei. Debbo allenarmi, io…”
“Non posso stare qui sui gradoni?”
“E perché dovresti starci?”
“Perché voglio vederti.”
Ecco fatto. Ciò che si era rifiutato di ammettere mediante il filtro d’un apparecchio gliel’aveva detto in faccia, guardandola negli occhi.
Ran avvampò, deglutendo aria. Quelle stesse parole che lei stessa gli aveva rivolto qualche giorno prima…
 
Le loro mani s’intrecciarono sotto il flusso del rubinetto, per strizzare l’asciugamano raccolto dal fondo del lavabo.
“Perché sei qui?”
“Perché volevo vederti.”
Ancora una volta, le parve arrossisse mentre abbassava lo sguardo ai suoi piedi. *
 
 
“Hai…hai di meglio da fare, presumo. Ed io… io ho bisogno di stare in pace mentre mi alleno.” Finse di ignorare ciò che aveva appena sentito, ma non riuscì a reggere troppo a lungo i colpi dell’investigatore:
“Avevo voglia di vederti.” Le ripeté.
“Ho bisogno di stare in pace.”
“Non ti darò fastidio. Mi siedo qui e ti guardo soltanto.”
Se vi interessa di me quanto dite, allora ridatemi la pace.
Non ho pace da dare. Solo miseria, o la felicità più grande.*
Sorrise tra sé e sé, ricordando d’aver trascorso notti insonni sognando un’avventura così. Sognando Shinichi ancora prima di incontrarlo.
“Sei anche un voyeur, dunque. Questo i giornaletti non lo sanno…”
Il detective, che frattanto aveva preso posto su uno dei gradoni inferiori, vicini ai tatami, stette al gioco:
“E tu lo rivelerai?”
“Dipende.”
“Da cosa?”
“Da come ti comporterai.”
“Farò il bravo.”
 
Effettivamente, aveva atteso. Fu una piccola prova cui Ran lo sottopose, l’allegria che cresceva proporzionalmente al tempo che lui trascorreva seduto sul bordo dello spalto più vicino al tatami, controllando di tanto in tanto il cellulare e muovendo il pollice come se stesse leggendo qualcosa sul display. Proprio quando lo aveva visto più distratto, si era avvicinata a lui di soppiatto, nel tentativo di sorprenderlo; l’investigatore, allora, aveva automaticamente portato il telefono dietro la schiena, simulando poi un sorriso cordiale – gesto che l’aveva un po’ contrariata: stava forse messaggiando? E con chi? Con Hidemi?
“Ti sei allenata abbastanza per oggi, basta così.” Le aveva detto, sbarazzino, spingendola a cambiarsi ed aspettandola ancora, fuori dall’edificio, quando il sole stava cominciando a tramontare.
Uscì dallo spogliatoio e lo vide, appoggiato con la schiena a un muretto basso di mattoni. I loro sguardi s’intrecciarono, e gli sorrise.
– Bellissimo… -
I raggi del sole, filtrati dalle nubi, gli colpivano per metà il corpo, immortalandogli il fisico come fosse in posa per una litografia. Gli occhi gli brillavano, perennemente illuminati di una brillante perspicacia.
 “Allora, come va l’indagine?” Gli domandò, raggiungendolo.
Entrambi oltrepassarono il cancello in muratura, il crepuscolo che irradiava una luce rosata lungo il sentiero che percorrevano l’uno a fianco dell’altra.
“Vuoi davvero parlarne?” l’apostrofò, schernendola un po’. Lei mise un broncio dispettoso, dandogli un leggero colpetto su una spalla.
“E vuoi parlarne così, per strada?”
Era riuscito a nasconderle la ricerca che aveva effettuato con il suo cellulare in palestra, trovando un piccolo pub fuori zona dove era già stato una volta e che sperava fosse aperto anche a quell’ora.
“Vuoi venire a parlare con mio padre? A quest’ora dovrebbe essere a casa…”
Camminando, la ragazza distolse lo sguardo dal suo volto per aggiustare una bretella del borsone che, troppo lunga, le impediva i movimenti. Perciò non poté scorgere l’espressione dell’investigatore mentre pronunciava una frase che la fece palpitare – non una domanda, né un invito, semplicemente un’asserzione pronunciata con tanta naturalezza quanta convinzione, che non dava luogo a nessun rifiuto. Il sangue le pulsò velocemente dai polsi alle guance e non riuscì a farfugliare nulla di senso compiuto per tutto il rimanente percorso che fecero insieme, ma uno sciocco sorriso comparve a incresparle le labbra.
“Piuttosto, andiamo a mangiare qualcosa, c’è un locale carino nel quartiere di Haido. Mettiti il cappotto, ci impiegheremo una ventina di minuti.”
 
§§§
 
“Scusa per l’ora tarda, Kogoro. Ma domani mattina l’ufficio stampa farà rimbalzare la notizia in ogni notiziario cittadino, e giocare d’anticipo è vitale.”
Prima ancora che sua figlia tornasse dagli allenamenti di karate –l’uomo aveva notato con disappunto l’enorme ritardo che la ragazza aveva accumulato rispetto all’orario ordinario dei suoi spostamenti-, il citofono aveva suonato e lui aveva risposto già predisposto al rimprovero. L’attitudine un po’ distratta che non lo aiutava nella professione di investigatore privato non gli aveva permesso di notare che a squillare fosse stato l’apparecchio dell’agenzia, non dell’appartamento, e dunque Kogoro si era sorpreso di fronte alla voce costernata dell’ispettore Megure: “Sei solo? Allora, per favore, fammi salire.”
“Non si preoccupi, ispettore. Che cosa succede, c’è qualche problema?” aprendo la porta ed invitandolo ad entrare, s’accorse che l’agente di polizia era a sua volta da solo, privo del solito corteggio degli agenti di servizio che, nell’orario di lavoro, lo scortavano dappertutto.
“Direi di sì. La questione è più grave di quel che sospettavo, e credo anche più pericolosa del previsto. Se i miei dubbi si rivelano fondati, ci sarà bisogno di un impegno non indifferente. Posso contare su di te, Kogoro?”
Il detective immediatamente annuì, affrettandosi a prendere posto sul divano al centro della stanza e aspettando che l’ex collega facesse altrettanto. Non era dotato di un intuito particolarmente ricettivo e di particolari conoscenze tecnologiche, ma Kogoro Mouri aveva qualcosa che lo differenziava da qualunque altro: un’onestà tanto spiccata da portarlo anche a mettere in gioco se stesso perché vincesse la giustizia. Tutta la polizia ricordava con rispetto l’arresto che aveva fatto qualche tempo prima: un suo vecchio compagno della scuola di judo aveva ucciso una loro amica comune e lui non aveva esitato un attimo a rendere pubblica la sua colpevolezza, prendendosi anche la libertà di esprimere un giudizio personale sulla sua condotta efferata, atterrandolo con un colpo di judo quando questi, preso dal furore dell’ira, s’era scagliato contro di lui. *
“Ebbene, ascolta, Kogoro. L’indagine sulla morte di quella ragazza verrà chiusa stasera.”
L’uomo trasalì: “Avete trovato il colpevole? È quel tizio che abbiamo convocato due volte, quello che lei aveva chiamato con tanta frequenza con il secondo cellulare?… come si chiama, aspetti… Akai?”
“Non abbiamo trovato il colpevole, Kogoro.”
“E allora perché chiudete il caso?”
“Per insufficienza di prove, e per non disperdere le energie della polizia in una strada senza uscita. Questi sono gli ordini del vicequestore Ikari.”
“Sta scherzando? È passato troppo poco tempo, l’identità della ragazza è ancora sconosciuta e…”
“Io continuerò ad indagare, Kogoro. Quella ragazza poteva essere la fidanzata, la figlia o la sorella di qualcuno che merita la verità…il suo assassinio non può restare impunito, sebbene la sua morte forse sia legata a quella rapina.”
“Sono con lei, ispettore.”
L’uomo sorrise. Immaginava la risposta di Kogoro ancor prima di mettere piede nella sua agenzia investigativa.
“Credi che dovremmo ricorrere anche all’aiuto di Kudo? È dotato di un intuito molto fine, potrebbe notare qualcosa che a noi è sfuggito…”
“Per il momento non mi sembra che abbia notato un granché…” alluse, polemico. Quel ragazzino non gli stava affatto simpatico: tutta quella spocchia da grande detective di cui s’ammantava, a che pro? Non gli pareva proprio avesse capacità particolari, o quanto meno sino a quel momento non aveva dimostrato loro un bel nulla – e come se non bastasse, guardava la sua bambina con degli occhi che non gli piacevano affatto. Forse era abituato a sedurre le più belle attrici sulla scena, o le modelle più famose del momento, ma cosa s’illudeva di ottenere con la sua ingenua Ran?
E inoltre, c’era stato quell’episodio alla villa…
 
In quel momento, Ran percepì qualcosa. Non propriamente un rumore, fu piuttosto una sensazione. Non seppe il motivo, non lo comprese neppure quando ci ripensò a posteriori; eppure, per qualche ragione, si voltò verso sinistra, e le sue pupille si dilatarono: ecco Shinichi comparire dall’angolo opposto, proprio dirimpetto ai due uomini, a destra degli agenti di polizia, i quali, si accorsero della sua presenza soltanto quando udirono un rombo, forte e rapido, come fosse un tuono che squarcia velocemente il cielo, ma sancisce la fine del temporale.
Il detective sparò quel colpo con estrema precisione, le ginocchia leggermente flesse e un gomito ad angolo retto per reggere il rinculo dello sparo, mentre l’altro braccio, teso, aveva assicurato al proiettile di colpire in pieno il bersaglio.
Il colpo sfiorò l’uomo biondo, facendogli volare dalle mani la pennetta USB che gli agenti avevano puntato.  Non fece in tempo a voltarsi che un secondo sparo colpì il compagno col cappello, causandogli un graffio sulla guancia sinistra, per poi infrangersi sul metallo del capannone.
“Ma che diavolo sta facendo?!” Megure lo scrutò per lungo tempo, basito.
“Ama le entrate in scena, il tuo amico!” Kogoro la rimbrottò, lanciandole uno sguardo velenoso, quasi avesse sparato lei stessa. Il tono di voce era duro, intransigente:
“Possibile non capisca che così facendo capiranno di essere braccati e distruggeranno le prove?!”
Uno degli uomini vestiti di scuro ordinò qualcosa ad un altro del gruppo, che prontamente si diresse verso lo scatolone a terra estraendone un cellulare che, con decisione, calpestò sino a ridurlo in un grumo di circuiti e sensori. *

 
“In realtà è stata la sua indicazione a permetterci di collegare l’assassinio alla rapina, benché non fosse del tutto corretta.*  Tuttavia, alla villa ha avuto un atteggiamento che non mi ha convinto.” Megure parve leggergli nel pensiero, sorprendendolo. “Per non parlare poi, di quella sparatoria in cui siete rimasti coinvolti entrambi…” *
 
§§§
 
“Akai-san, accomodati.”
Shinichi si fece da parte per permettere all’agente dell’FBI di varcare la soglia della sua villa.
Shuichi entrò nel corridoio, scivolando fuori dalle scarpe; mentre l’investigatore richiudeva la porta, lui apriva l’armadietto a pochi passi da loro, per recuperare le pattine. Sorrise capacitandosi della familiarità con la quale si comportava all’interno di quella casa, quanto e forse più della domestichezza che aveva nel suo appartamento: tante volte era stato in quell’enorme villa, da quando aveva legato con Shinichi, da considerarla quasi casa sua. Eppure, Akai assumeva sempre un certo riserbo al momento di entrare nel grande salotto, le cui pareti erano interamente coperte dai libri conservati con amore dal padre dell’amico.
Neppure quella sera fece eccezione: dopo aver bonariamente rimproverato il ragazzo per il luogo del loro incontro, mentre ne ascoltava la risposta non poté fare a meno di alzare lo sguardo verso gli scaffali di quella biblioteca dalle proporzioni gigantesche.
“Non preoccuparti, Akai-san. Vedersi a casa mia è molto più sicuro che incontrarsi fuori, dopo quello che è successo con Hidemi la stampa non si accontenterà finché non avrà dato un volto alla mia amica. È una fortuna che non l’abbiano ripresa in faccia e che la sua copertura non sia saltata. Qui dentro, almeno, siamo riparati. E poi, se qualcuno ti avesse seguito, te ne saresti accorto senza dubbio.”
“La vita sentimentale del miglior detective del Giappone attira parecchie attenzioni, eh?”
Shinichi sorrise, arrossendo lievemente ma cercando di dissimularlo; provava una profonda stima per Shuichi Akai, uno degli agenti più intelligenti che avesse mai incontrato. Non avevano mai chiaramente parlato dell’opinione che l’uno nutriva dell’altro, dal momento che l’aver deciso di comune d’accordo di lavorare insieme ad un progetto tanto arduo costituiva di per sé un’eloquente risposta a quella domanda mai posta ad alta voce. Pertanto, Shinichi naturalmente intuiva quanto la considerazione che aveva di lui gli fosse nota –era, dopotutto, uno dei pochissimi uomini cui l’investigatore rivolgeva il suffisso san anche dopo aver superato l’iniziale rapporto di stretta formalità *-, e immaginava anche che, specularmente, l’agente avesse elaborato un giudizio positivo su di lui; nondimeno, nelle occasioni in cui sentiva dichiararlo esplicitamente (il miglior detective del Giappone pronunciato con un tono che alla bonaria ironia aveva mescolato l’affetto), se ne compiaceva come un bambino di fronte l’orgoglio del padre.
“Sono persuaso, tuttavia, che i giornalisti non conoscano la tua nuova amica…” alluse, prendendo posto nella poltrona al centro della stanza. L’investigatore alzò gli occhi sul suo volto, scorgendo il lieve sorriso in cui gli s’era increspato: Shuichi si esprimeva sempre, anche nelle conversazioni più private, con calcolata raffinatezza e naturale eleganza. I suoi modi erano sempre gentili e riservati, nonostante le affermazioni tendenzialmente fossero estremamente puntuali.
Un uomo di gran classe, lo apostrofava sempre sua madre Yukiko, dal quale Shin-chan avrebbe dovuto apprendere quella cavalleria che la sua boria gli impediva di possedere fino in fondo.
Il ragazzo sorrise sardonico, conscio che sua madre ignorasse quanto Shuichi Akai sapesse essere spavaldo e sicuro di sé - forse persino più di lui!-, in particolari circostanze, e come loro due fossero, in ultima analisi, profondamente simili.
“Sono stato discreto.” Rispose all’allusione, dirigendosi verso la scrivania di Yusaku alle loro spalle. Afferrò la bottiglia posta al fianco dello schermo del pc, e sviò: “Vuoi un bicchiere di Bourbon?”
“Molto gentile. Sei stato a cena con lei?”
Offrendogli il bicchiere, Shinichi si sentì oggetto di un processo deduttivo cui di solito partecipava come soggetto pienamente attivo: la repentina telefonata del collega lo aveva colto alla sprovvista e quell’incontro si era deciso con tanta rapidità che non aveva fatto in tempo a cambiarsi, così jeans chiari con la camicia azzurra tradivano un look diverso dal solito completo blu con cui era per lo più solito mostrarsi al pubblico.
Shuichi non attese una risposta di cui non aveva bisogno. Aggiunse, sorseggiando il suo alcolico: “Un outfit casual che ti dona molto.”
L’espressione del volto era distesa in una manifestazione di ironia complice capace di contagiare anche il ragazzo, il quale, con la medesima complicità divertita, commentò:
“Avevo il frigorifero vuoto e sentivo la mancanza della tua ottima cucina.”
Visto ciò che l’agente aveva dovuto vivere e ancora stava cercando di contrastare, Shinichi non volle indulgere in ulteriori confidenze –e cosa dirgli, poi? Che si sentiva stupido quando la karateka lo fissava negli occhi col sorriso gentile sulle labbra?-, e  prese posto davanti a lui.
“Che cosa succede?”
“C’è un problema.”
Nessuno dei due s’accorse dell’inverosimiglianza della situazione: erano abituati, dopotutto, a trattare con sarcasmo le questioni più delicate, e passare dai discorsi leggeri a quelli più complicati era una routine propria del loro mestiere.
“Quindi sei venuto a darmi una buona notizia: abbiamo un solo problema.”
Si scambiarono un sorriso, quindi Akai continuò:
“Ti ho chiesto di fare molte cose che non avevamo previsto, originariamente. Mi dispiace per questo. Mi rendo conto che…”
“Akai-san. Non c’è bisogno che tu mi dica niente. Sapevo a cosa andavo incontro quando ho cominciato, e sapere di lavorare al tuo fianco è ciò che mi permette di conservare sicurezza.”
“Questa è una bugia, ma ti ringrazio per averla detta.” L’agente dell’Fbi gli sorrise ancora una volta, assumendo quell’aspetto spavaldo che Shinichi aveva da poco rievocato:
“Detective Kudo, che ne dici di andare al Tropical Land?”
 
§§§
 
Nota dell’autrice: Salve a tutti! Come avete trascorso l’estate? =D
Come avevo annunciato nella risposta ad alcune recensioni, sto nutrendo il malsano desiderio di esaminare meglio l’introspezione di Shinichi. Per me è davvero molto difficile, perché lui si mostra sempre come eroico, coraggioso, infaticabile; e tuttavia ci sono stati in passato dei momenti in cui chiaramente Shinichi è stato travolto dalle responsabilità di cui si prende carico –il suicidio della pianista, la morte di Akemi, le lacrime di Ran e così via dicendo. La discrasia tra l’animo, per quanto vogliamo maturo e ponderato, di un ragazzo giovanissimo e l’indole dell’investigatore è uno dei tratti secondo me potenzialmente più interessanti del suo carattere: come può un ragazzino affrontare e gestire vicende e situazioni che alcuni uomini grandi e maturi non saprebbero neppure occhieggiare? E come coniugare tutto questo con la vita più privata ed intima, e quella natura sensibile che ogni tanto lascia venire a galla? Insomma, senza tirarla troppo per le lunghe, ho provato a fare questo, ma ho davvero la grande remora di averlo reso uno Shinichi OOC. Spero vogliate farmi sapere cosa ne pensate: siate indulgenti :D
 
Come dedotto da Laix (ora posso risponderti! =P) la Hidemi del capitolo cinque è giustappunto Hidemi Hondou, aka Kir – e anche in questa storia è un agente sotto copertura nell’Organizzazione. Per il momento, gli altri misteri non posso ancora rivelarli, ma nel prossimo capitolo si esplicherà bene un fatto che, credo, metterà definitivamente a nudo quella struttura cui facevo riferimento nel precedente capitolo, e che continuo a sperare non sia un azzardo nell’impalcatura di questa fic.
 
L’indagine che costituisce il filo conduttore di tutta la storia mi sta dando qualche piccolo problema –non so bene dove posizionare alcuni indizi, ahimè, sono sempre stata una frana in queste cose…- ma sto cercando di recuperarne gradualmente i fili e organizzarne le parti in maniera tale che la contraddizione che in apparenza sembra rivestire tutto quanto possa chiarirsi al momento opportuno (augurandomi di riuscire anche a sorprendervi un pochino!)
 
Mi sembra d’aver detto tutto. Grazie di cuore, naturalmente, a tutti coloro che hanno letto i precedenti capitoli, e ancora di più ai miei carissimi recensori che mi allietano sempre moltissimo: shinichi e ran amore, Shin17, _Rob_, SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate, Laix e Sana_jasm97.
Un abbraccio fortissimo dalla vostra Cavy <3
 
 
 
 
 
 
 
[1] Nel manga i Mib erano spesso associati ai corvi. Nelle loro ultime apparizioni questa simbologia sta venendo meno, ma mi ha sempre colpito perché la trovo vagamente espressionista, quindi ho deciso di riportarla qui. Spero che l’effetto non risulti eccessivamente banalizzato.
[2] Episodio realmente accaduto nel manga, anche se rievocato soltanto nel flashback di Camel stesso e Jodie negli episodi del Red Clash. L’ho accennato indirettamente anche nel capitolo otto:
 
Finalmente il biondo si voltò, e lo fissò negli occhi.
“L’operazione è fallita. Ma questo già lo sai, non è vero?”
“Ti avevo detto di agire con cautela. La tua impulsività ci ha rovinati. Come avevo previsto, ci hai scavato la fossa tu stesso.”
“Un tizio dalla faccia da scemo ha avvisato Whisky[2], che era, camuffato da vecchio, a guardia del posto. Gli si è avvicinato e gli ha detto d’andarsene, che stava per succedere qualcosa. Che era in pericolo.” Calcò la voce sull’ultima frase, accendendosi una sigaretta.
“E chi era?” domandò lui, altrettanto imperturbabile.
“Perché non me lo dici tu, Rye?”
“Come credi che possa saperlo?”
 
[3] È una frase di Kierkegaard. Purtroppo non è una citazione precisa, perché non riesco proprio a ritrovarla: l’ho riportata mediante il filtrato della mia memoria, perciò temo che sia piuttosto pressappoco.
[4] Dal capitolo quarto.
 
 
[5] Dal romanzo di Flaubert, Madame Bovary. Ringrazio IamShe per avermela segnalata.
[6] Dal capitolo uno.
[7] Dal capitolo sette.
[8] Umorismo macabro, vi chiedo perdono :D
[9] Dal capitolo sette.
[10] Uno tra i dialoghi più famosi tra Alexiej Vronskij e Anna Karenina, dall’omonimo libro di Tolstoj.
[11]Dagli episodi, Omicidio alle terme.
[12] Dal capitolo cinque
[13] Nel capitolo uno.
[14] Dal capitolo sei.
[15] È un dettaglio che ho notato nel manga, e che mi ha sempre solleticata un po’. Conan si rivolge continuamente ad Akai come Akai-san, anche quando sono da soli. Non mi sembra, e spero di non sbagliare, che questo trattamento speciale sia riservato da Conan anche a qualcun altro.
   
 
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