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Autore: NicolaAlberti    04/09/2017    0 recensioni
Prima parte cap. 1-10 "PURGATORIO" - Seconda parte cap. 12 - 21 "INFERNO"
Una storia d’amore impossibile immersa in un’ambientazione surreale dai tratti cyberpunk e dai richiami danteschi. Una minaccia robotica che spinge il protagonista alla paranoia e alla fuga tra i meandri di una labirintica e utopica costruzione babelica che ha sostituito l’antica città di Parigi. La ricerca della verità tra le intricate illusioni di una nuova era tecnologica che ha stravolto il mondo, mentre qualcosa di oscuro e insondabile, un dubbio perenne nella mente del protagonista, continuerà a modificare la sua percezione del reale, costringendolo ad esplorare il dedalo della propria coscienza.
Genere: Introspettivo, Science-fiction, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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...

«Amal».

...

Il suo nome risuonò come una voce nel buio della coscienza, lontana e subito zittita dalle tenebre circostanti. La voce era la mia e il buio era la mia mente che riprendeva forma. Il nero divenne grigio scuro e, lentamente schiarendosi, cominciò a prendere i contorni del suo viso. L'immagine sbiadì subito al comparire di una luce accecante che improvvisa cancellò le tenebre precedenti. In questo spazio astratto non vi era orientamento e direzione, eppure, da qualche parte, da un punto che istintivamente collocherei dietro le mie percezioni, sentii ridacchiare... «Eccooo!». Era il suo accento inconfondibile che esprimeva, nel suo solito modo, un misto di ilarità e di blando rimprovero. Un acuto fischio mi circondò aumentando di volume fino a divenire assordante. La luce incrementò la sua intensità fino a diventare insostenibile, quasi accompagnando la sgradevole emissione di quel suono. Un ultima e distante eco tentò di farsi largo: «... Prof... ».

Ci fu soffio poderoso. Ripresi forma e coscienza. Ero circondato da una fitta nebbia di gas sterilizzatore. Intravidi i contorni di una cabina cilindrica a misura d'uomo, spoglia e metallica. Di fronte a me vi era un vetro opaco che fungeva da uscita. Una voce femminile, suadente e pacata, risuonò dagli altoparlanti sopra la mia testa: «verifica genetica completata. Identità confermata. Materializzazione avvenuta con successo. Si prega di indossare la tuta di accoglienza. Potete recuperare le valigie e i vostri effetti personali in uscita, presso lo sportello di materializzazione inanimati A 050».

Mi vestii con triste lentezza, forse emisi involontariamente un gemito, non ero completamente padrone del mio stato emotivo in quel momento. Era come se stessi vivendo un trauma del quale non ricordavo l'origine, ma ne sentivo il peso. Attraversai il vetro che al mio passaggio divenne liquido. Sulla sua superficie si disegnò la mia sagoma e questa si riverberò con piccole onde scomposte verso i margini del portale. Emersi presso l'estremità di una spaziosa lastra circolare color onice. Sulla semicirconferenza del lato dove mi trovavo erano distribuite, fianco a fianco, qualche centinaio di cabine identiche alla mia. Mi trovavo presso lo snodo internazionale del Louvre, dove ora era costruita questa immensa struttura chiamata Materializzatore. Il posto poteva essere paragonato, per conformazione e funzione, ad un aeroporto di una civiltà pre-aggregata. Su questo stesso suolo, un tempo, vi era situato uno dei più grandi e importanti musei del mondo. In alto si intravedeva il riflesso di una cupola trasparente e al di là di essa il cielo perennemente plumbeo di Parigi. Osservai con neutralità ciò che mi si offriva davanti agli occhi. Il luogo era stravolto dalla folla e dalla pressante ispezione degli osservatori. C'era un brulichio spasmodico di persone, artificiali, droni e sintetici che andavano e venivano, tutti affaccendati in un indistinta confusione di attività e di suoni. In distanza si intravedevano gli sportelli e l'uscita dello snodoMi avviai con sicurezza verso lo sportello A050 a recuperare la mia roba e dieci minuti dopo ero già in piedi sul corridoio magnetostatico a velocità multiple che conduceva al Dedalus.

Il cosiddetto "corridoio" era in realtà un ingegnoso sistema di spostamento a cielo aperto per i pedoni. Questo permetteva, attraverso una serie di condotti evidenziati da scie luminose, di scorrere a fil di terra, aumentando la propria velocità man mano che ci si approssimava verso il centro della strada. La scia centrale arrivava alla velocità di circa trenta chilometri orari. Nel momento in cui si desiderava rallentare o fermarsi era sufficiente spostarsi gradualmente verso l'esterno, tramite un leggero sbilanciamento del corpo. Lo trovai un sistema intuitivo e sicuro. I condotti erano segnalati con luci di colori diversi che si intensificavano verso il centro. La variazione di velocità era progressiva e senza sbalzi. Nonostante la sicurezza del mezzo devo ammettere di aver avuto sul momento un po' di impaccio. Mi spostavo adagio da un condotto all'altro, all'inizio leggermente sbilanciandomi all'indietro, o portando una gamba oltre l'altra in maniera innaturale. Avevo come la vaga e assurda impressione che la gamba posteriore si allungasse in maniera elastica, come se il mio corpo fosse fatto di gomma. Sicuramente dovetti apparire un po' goffo alle persone più esperte, suscitando una normale ilarità e qualche risatina, o almeno questo era ciò che pensavo. Ma d'altronde, in quella situazione e in quel momento, ero come un bambino ai suoi i primi passi, seppur in un ambiente controllato e sicuro. Sparsi lungo il percorso c'erano numerosi droidi di servizio e di sicurezza il cui compito era, oltre quello di sorvegliare, anche quello di aiutare nel recupero da eventuali cadute i passeggeri diretti al Dedalus. In realtà, nessuno sembrava interessarsi di nessuno, men che meno dei miei maldestri movimenti lungo il corridoio. Sguardi assenti e anonimi. Non avevo la facoltà o la possibilità di rendermene conto in quel momento, ma, dal momento in cui venni materializzato allo snodo, anche il mio sguardo aveva assunto quelle stesse caratteristiche, il che rendeva ancora più ambiguo, e quasi grottesco, il mio progressivo familiarizzarmi con questo sistema di spostamento. Mentre raggiungevo con sempre maggior sicurezza il nastro centrale, i pedoni più esperti e frettolosi si destreggiavano superandomi da sinistra e da destra con uno scarto laterale.    

Nel periodo in cui giunsi al Dedalus praticamente l'intera società parigina si era già trasferita nella costruzione. I dintorni non erano nient'altro che un ammassamento di basse e grigie costruzioni fatiscenti, in gran parte disabitate o occupate abusivamente da droidi di servizio o da sintetici. Un altissimo muro di carbonite separava le decadenti costruzioni dal canale principale: un'estensione dei Champs Elysees in cui erano stati trasferiti la maggior parte degli edifici storici nell'Ancient Paris. Il canale era stato allargato a dismisura ed esteso al di là dell'Arc de Triomphe con una brusca svolta a gomito, che conduceva direttamente presso il luogo in cui si ergeva "timidamente" la Tour Eiffel; avverbio più che giustificato, dato che ora, quello che un tempo si poteva considerare un gigantesco monumento, era completamente inglobato, quasi come fosse una miniatura o un portachiavi, all'interno del mastodontico progetto del Dedalus.

Passai l'ampio cortile del Louvre in un baleno e subito fui proiettato nella nuova compagine degli stipati monumenti e palazzi che formavano i nuovi Champs Elysees. Il trasferimento aveva stravolto completamente la conformazione originale, trasformando il luogo in un grottesco assembramento statuario e architettonico: un ricordo sbagliato dell'Ancient Paris, che nulla conservava di ciò che un tempo possedeva di squisitamente artistico. Lungo il canale non vi era più l'affollamento di negozi di alta moda, centri commerciali e ristoranti della più alta cuisine francese; era come il rapido scorrere della memoria sui resti di una società vetusta, vissuto con lo stesso rispetto ed emozione che si hanno di fronte a delle rovine di città greco-romane, viste di sfuggita dal finestrino di un aero-bus. Dopo uno stupore obbligatorio, qualche bocca aperta, un sospiro e qualche foto, il dovere intellettuale di ogni buon turista è risolto, quindi ci si può dimenticare istantaneamente di quelli che non sono nient'altro che sedimenti umani storicamente attardati in qualche mucchio di mattoni. Lo squallore di quell'ammassamento era rafforzato da quell'insieme di luci trasversali, che dal basso allungavano le ombre di questo mucchio sconnesso di monumenti sulle retrostanti altissime mura di carbonite e non facevano altro che enfatizzare quella forzatura. Di tanto in tanto, tra le ombre dei monumenti, si intravedeva una inquietante sagoma sferica galleggiante di colore nero che emetteva una luce viola intermittente: un osservatore.

Mentre viaggiavo ormai ad un andatura stabile, ritto al centro della strada, sulla sinistra, per tutto il percorso, ben al di sopra delle mura di carbonite, si innalzava luminoso, imponente e senza fine il mio obiettivo. Appena passata quella curva a gomito, che un tempo segnava il passaggio sotto l'Arc de Triomphe, il Dedalus, la più grande struttura architettonica che mai fu creata dall'uomo, mi era completamente di fronte e si approssimava lentamente, inesorabile e titanico, quasi a sfidare il giudizio di Dio.

 

   
 
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