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Autore: Adeia Di Elferas    07/09/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Per evitare incidenti diplomatici inutili, Caterina aveva deciso di estendere l'invito alla rocca, per Natale, non solo ai rappresentanti delle nuove famiglie importanti di Forlì, ma anche agli ambasciatori stranieri presenti in città, oratore milanese compreso.

Per far ciò, però, aveva avuto bisogno, a un paio di giorni dal banchetto, di istruire alcuni dei propri figli su cosa fosse meglio dire o non dire in presenza di quei personaggi.

Come sempre, trovava abbastanza difficile relazionarsi con loro a quattr'occhi, ma si era resa conto della necessità di parlare almeno con i tre più grandi, dato che, verosimilmente, sarebbero stati quelli più bersagliati da eventuali domande scomode.

Così, decidendo di partire nel modo più indolore, quella mattina aveva preso da parte sua figlia Bianca e le aveva detto che se qualcuno avesse osato farle domande spinose a riguardo di Faenza, o Astorre Manfredi o Niccolò Castagnino, lei avrebbe semplicemente dovuto rispondere che tutto procedeva come sempre e che se lei ancora viveva sotto il tetto di sua madre, era solo perché suo marito era ancora troppo giovane.

Se poi qualcuno avesse alzato il tiro, provando a domandarle quale fosse la posizione dei Manfredi o dei Riario riguardo Venezia e Firenze, allora Bianca avrebbe dovuto semplicemente dire che, essendo una donna, di certe cose non si intendeva e quindi preferiva non pronunciarsi.

La ragazzina aveva compreso che quel commento si sarebbe rivelato necessario e molto utile, tuttavia accettò quelle condizioni con una punta di malcelata insofferenza.

Dopodiché la Contessa aveva dato ordine alle balie e anche al castellano di tenere sott'occhio Bernardino, nel corso della cena.

Aveva deciso di farlo partecipare assieme a tutti i suoi fratelli, mostrandolo apertamente come uno dei suoi figli, però non si sentiva troppo tranquilla.

Anche se gli invitati sarebbero stati tutti uomini e donne che in un certo senso l'avevano aiutata a punire i colpevoli della morte di Giacomo, poteva sempre nascondersi tra loro qualche traditore.

Dopo qualche esitazione, cercò anche Cesare, trovandolo per caso proprio mentre stava per uscire per andare in Duomo a pregare.

Gli chiese di cercare di essere amichevole con gli ospiti e di evitare certi commenti sprezzanti.

“Il Santo Natale dovrebbe essere un momento di raccoglimento e preghiera, non un pretesto per tessere i vostri intrighi politici.” la redarguì il ragazzo, serio e pallido in volto.

Tanto quanto Ottaviano stava pian piano prendendo peso, così Cesare sembrava perderne a vista d'occhio. Caterina aveva saputo per vie traverse che il suo secondo figlio spesso digiunava e rifiutava il cibo, per espiare le sue colpe.

Se i suoi peccati fossero stati altri, la donna l'avrebbe spronato a evitare una simile punizione, ma dato che sulla sua coscienza c'era la morte di Giacomo, la Tigre aveva ben pensato di fingere di non vedere gli zigomi sporgenti e le braccia secche di suo figlio e aveva fatto orecchie da mercante alle parole accorate dei precettori di Cesare.

Saltare qualche cena e qualche pranzo non era poi molto, rispetto alla vita di un uomo.

“Di certo hai ragione – ribatté la Contessa – ma siccome i figli devono, per legge divina, ubbidire ai genitori, tu farai comunque quello che ti dico io.”

Cesare allora chinò il capo, mettendo in mostra la tonsura, tenuta sempre più larga e decentrata, e se ne andò, scalciando l'aria.

Caterina soffiò, come sempre abbastanza provata dall'incontro tanto ravvicinato con il suo secondogenito, e si adoperò a trovare Ottaviano.

Con lui doveva fare due discorsi, nessuno dei quali piacevole. Il primo riguardava il banchetto di Natale, mentre il secondo aveva a che fare con la condotta deprecabile del giovane.

La sera prima, durante una visita da Bernardi, la Leonessa era stata informata proprio dal barbiere del fatto che Ottaviano era stato visto da alcuni passanti mentre alcuni uomini lo buttavano fuori da un lupanare, gridandogli che, anche se era un Conte, doveva pagare come tutti e smetterla di alzare la mani sulle ragazze.

Il Novacula si era permesso di fare anche una considerazione personale che aveva colpito molto la donna: “Se si sono permessi di fare così a vostro figlio – aveva detto, sottolineando quel 'vostro' con molta enfasi – significa proprio che aveva passato il limite.”

Siccome il cancelliere Cardella aveva da poco espresso delle perplessità alla sua signora proprio in merito all'uso che Ottaviano faceva dei soldi che chiedeva di continuo pur non potendo, visti le indicazioni precise date dalla Contessa, Caterina gli aveva ordinato di passare cifre inferiori al giovane, se proprio non riusciva a evitare di dargli del denaro. Evidentemente quella stretta aveva indotto suo figlio a provare a fare il furbo e non pagare quello che prendeva comunque.

Mezzogiorno si stava avvicinando e la Contessa non sapeva dove andare a cercare suo figlio. Pensò che forse Bianca sarebbe stata più brava di lei e avrebbe saputo dirle dove trovarlo, o, ancora meglio, si sarebbe offerta di andare a stanarlo al suo posto.

Così fece.

“Quando lo trovi, fallo venire nello studiolo del castellano.” disse Caterina, poi ci ripensò, ricordandosi come era stato proprio in quella stanza che si erano fronteggiati dopo la morte di Giacomo: “Anzi, meglio la sala delle letture. Lo aspetto là.”

La Tigre dovette attendere un po', prima di vedere arrivare suo figlio sulla porta.

In quella lunga attesa, la sua mente vagò parecchio, rifiutandosi di formulare le frasi con cui si sarebbe rivolta a Ottaviano.

Quella notte, tra i soliti incubi che ormai la visitavano sempre, la Contessa ne aveva fatto un altro, molto vivido e altrettanto orribile. Non le era ancora capitato fino a quel momento, non con quella precisione, almeno, ma alla fine aveva rivissuto in sogno la morte di Livio.

Forse l'avvicinarsi della fine dell'anno, o forse aver visto, per caso, Sforzino e Bernardino giocare spensierati con un cavallino di legno che era stato di Livio, insomma, qualcosa aveva fatto sì che nella testa di Caterina si affastellassero ricordi e immagini e così, nel sonno, aveva sentito di nuovo la stretta disperata di suo figlio, che l'abbracciava, il fiato spezzato, cercando di restare aggrappato alla vita, senza riuscirci.

“Mi avete cercato?” la voce di Ottaviano riscosse Caterina, che era in poltrona, gli occhi chiusi e una mano sulla fronte, immersa nei ricordi penosi di quella notte.

Il figlio la guardò un momento di sottecchi. Non era abituato a vedere sua madre in una posa di debolezza come quella. Tuttavia, quando la donna aprì gli occhi verdi e li puntò su di lui, tutta la parvenza di umanità che Ottaviano aveva scorto all'inizio, gli parve scomparsa.

“Al banchetto di Natale ci saranno molte persone importanti di cui non conosciamo a fondo né le amicizie né i corrispondenti epistolari.” iniziò la Contessa, alzandosi e ponendosi davanti al suo primogenito: “Da Roma mi stanno facendo pressioni per lasciarti il mio Stato, ma tu sai benissimo che non lo farò mai.”

Il pomo d'Adamo di Ottaviano corse nella lunga gola e i suoi occhi si puntarono al suolo. In quel momento era tale e quale a suo padre. Perfino la foggia dei suoi abiti – cuciti di fresco con il raso regalato dal Medici – era simile a quella dei vestiti di Girolamo.

Trattenendo a stento la propria irritazione, Caterina guardò altrove e proseguì: “Se te lo chiederanno apertamente, farai finta di essere già in procinto di diventare ufficialmente il signore di queste terre. Dirai, però, che prima devi ultimare la tua preparazione, ancora troppo carente, e che per il momento sei ben felice che ci sia io a sollevarti questo fardello dalle spalle.”

Il ragazzo, più alto della madre e molto irrobustitosi da quando non era più in isolamento, fece per aprir la bocca e dire qualcosa.

La donna, però, non gli diede il tempo di parlare: “Se non farai quello che ti ho detto, se oserai anche solo insinuare dei dubbi nei nostri ospiti o se proverai a cercare qualcuno che ti aiuti a sollevare il popolo contro di me per prendere il mio posto, sappi che allora ti ucciderei con queste mani, questa volta per davvero.”

Ottaviano chiuse subito le labbra e abbassò ancora di più la testa. I suoi capelli, lunghi fino alle spalle e inanellati come quelli del defunto Conte Riario, gli coprivano il viso, impedendo a Caterina di vedere le sue reazioni.

Dopo qualche momento, il ragazzo risollevò il mento e la fissò, come a chiedere se potesse andare.

“C'è un'altra cosa.” fece allora la Tigre, più in difficoltà.

Il figlio si mise le mani dietro la schiena, cercando di assumere un atteggiamento abbastanza disteso, benché sentisse il cuore battere contro lo sterno con tanta forza da fargli mancare il respiro.

“Mi è stato riferito che continui a chiedere soldi per andare nei postriboli e che, adesso che ho dato ordine di dartene meno, tu abbia provato ad andarci ugualmente, ma senza pagare.” disse la Leonessa, che mai avrebbe voluto parlare di certe cose con Ottaviano: “Vedi di moderarti. Se non hai abbastanza soldi per soddisfare i tuoi bisogni, fai in modo di ridimensionare le tue pretese. E soprattutto smettila di picchiare delle povere donne che non c'entrano nulla. È una cosa disgustosa.”

Il ragazzo non disse nulla, le guance e il collo color porpora e le mani che si tormentavano l'un l'altra dietro la schiena.

Prima di lasciarlo andare, Caterina sentì il bisogno di aggiungere un inciso: “Violento e sempre alla ricerca di qualche poveraccia a cui basta mezza moneta... Sei uguale a tuo padre.”

“Solo perché voi non dovete pagare per trovarvi qualcuno da portare nelle vostre stanze, non significa che siate molto diversa da me.” sputò Ottaviano, mordendosi la lingua quando ormai le parole gli erano scivolate via come una freccia.

La Tigre ci mise qualche secondo per metabolizzare quello che suo figlio aveva avuto la faccia tosta di dire.

Vedendo la madre avvicinarsi minacciosamente con gli occhi sgranati e una mano alzata, probabilmente decisa a colpirlo, Ottaviano chiuse con forza gli occhi e andò avanti a parlare, a ruota libera: “Sapete che cosa ho sognato stanotte? Io faccio di continuo gli stessi due incubi.”

Il fatto che il ragazzo avesse continuato a dar fiato alla bocca, in qualche modo, rallentò Caterina, che lentamente abbassò la mano e restò in ascolto, incapace di assecondare l'ira del momento come invece avrebbe creduto di voler fare.

“Il primo è un sogno che faccio da quando mi avete rinchiuso e che ho continuato a fare anche dopo. Rivedo cadere in terra il vostro amante e il sangue che esce dal suo corpo, ma quando mi volto, invece di vedervi scappare come avete fatto quel giorno, vi vedo in piedi davanti a me, la spada in mano e vi sento dire cose orribile e poi...” Ottaviano deglutì rumorosamente e concluse: “E poi quando mi colpite e mi uccidete, mi sveglio di colpo e non riesco più a dormire.”

Siccome non era arrivata alcuna percossa, il giovane si permise il lusso di schiudere appena le palpebre e si accorse che sua madre era ferma, a mezzo metro da lui, i lineamenti del viso come pietrificati e le braccia inerti lungo il corpo.

Colto da un coraggio che non credeva di avere, andò avanti: “Il secondo, invece, lo faccio da molto più tempo. Sogno la notte in cui hanno ucciso mio padre. Rivedo il suo cadavere gettato dalla finestra e fatto a pezzi dalla folla. E poi rivedo voi, sulle merlature di questa dannata rocca, e nel mio incubo, quando voi gridate contro gli Orsi, quelli mi premono una lama contro la gola e mi uccidono. E mi sveglio.”

La Contessa non diceva nulla. Era immobile e fissava Ottaviano con una strana luce negli occhi.

Il figlio sentì un nodo salirgli alla gola e trattenne a stento le lacrime: “Sapete, io ricordo ancora molto bene la sensazione della terra sotto le ginocchia, quando mi hanno costretto a mettermi giù, accanto a Cesare. Ricordo molto bene di quando voi vi siete sollevata la veste e avete gridato quelle cose agli Orsi. Ricordo molto bene con quanta forza avete urlato a tutti di ucciderci pure davanti ai vostri occhi, che tanto avevate il necessario per fare altri figli...”

“Io quel giorno ti ho salvato la vita. A te e ai tuoi fratelli...” sussurrò Caterina, incapace di sopportare oltre quell'accusa.

“Io avevo nove anni!” sbottò Ottaviano, colmando la distanza tra loro e mettendosi tanto vicino alla madre che per guardarla negli occhi dovette chinare un po' il capo: “Come potevo capirlo?! Per me voi eravate solo mia madre che stava dicendo agli assassini di mio padre di uccidere anche me!”

A quelle parole, Caterina non riuscì quasi più a ricordare il momento in cui aveva fronteggiato gli Orsi, guadagnandosi una volta per tutte i soprannomi di Tigre e di Leonessa. Tutto quello che riusciva a rievocare di quei giorni apocalittici era solo l'abbraccio che lei e suo figlio si erano scambiati, una volta che la città era stata libera.

Ricordava benissimo di come si fosse messa a correre, quando invece si era ripromessa di non farlo e di mantenere un certo contegno, e ricordò anche di come suo figlio le fosse saltato al collo, stringendola a sé con tutte le sue forze, e anche di come entrambi si fossero messi a piangere in silenzio, incapaci di trattenersi.

Non sapendo cosa dire, Caterina provò a lasciarsi libera di fare quello che l'istinto le suggeriva, esattamente come aveva fatto in quel lontano giorno di primavera del 1488, ma tutto quello che le riuscì fu solo sollevare una mano e appoggiarla alla guancia ruvida di barba di Ottaviano.

Gli occhi scuri del ragazzo la fissavano con insistenza, tradendo tutta la sorpresa di quel momento, tuttavia, dopo appena un momento, il giovane si ritrasse e le sue pupille parevano gridare un'unica frase: 'troppo poco, madre, e troppo tardi'.

Abbassando la mano, vedendosi rifiutata come lei aveva sempre rifiutato Ottaviano, Caterina fece un passo indietro e disse, abbastanza freddamente: “Dunque hai capito quello che dovrai fare al banchetto di Natale. Almeno questa volta, vedi di non deludermi.”

Il figlio strinse i denti e annuì secco, le mani che si chiudevano a pugno lungo i fianchi e le spalle che si incurvavano.

Quando la Contessa lasciò la sala delle letture, fu abbastanza sicura di vedere con la coda dell'occhio Ottaviano asciugarsi le guance con la manica del giubbone, ma non prese nemmeno in considerazione l'ipotesi di tornare indietro e tentare di consolarlo.

Sentendo dentro di sé un grande senso di vuoto e di rabbia, la Tigre prese la decisione repentina di andare nei boschi. I suoi cacciatori avevano già ucciso abbastanza selvaggina da fornire carne da Natale fino all'Epifania, ma se fosse comunque riuscita a prendere un paio di pernici, di certo le cucine sarebbero state in grado di farne qualche portata in più da offrire agli ospiti.

Così camminò a passo di marcia verso la sala delle armi, dimenticandosi perfino di andare a prendersi una cappa con cui difendersi dal vento freddo e insistente che prometteva di nuovo neve.

Scendendo le scale per raggiungere il cortile, la donna si imbatté in Giovanni Medici, che stava parlottando con Cardella.

Il fiorentino si scusò in fretta con il cancelliere della Contessa e si avvicinò alla donna, salutandola.

“Fossi in voi – esclamò Caterina, senza nemmeno ascoltarlo, ancora troppo presa dalle proprie furie per dar orecchio alle parole di altri – non sarei così impaziente di avere figli. Portano solo guai.”

L'ambasciatore si schiarì la voce, seguendola a fatica attraverso il cortile d'addestramento: “Ne sapete di certo più di me.” convenne, sperando di non suonare offensivo o ironico.

La donna non lo guardò nemmeno ed entrò nella sala delle armi, dove cominciò a scegliere le frecce e l'arco da portare con sé.

“Dove state andando?” chiese il Medici, che pure aveva capito benissimo quale fosse l'intenzione della Tigre.

“A caccia.” rispose ella, infatti.

“Posso accompagnarvi?” chiese l'uomo, speranzoso.

“No.” rispose subito Caterina, afferrando anche una lancia da cinghiale e uscendo, diretta alle stalle: “Sto uscendo da sola.”

A quel punto Giovanni comprese che non era il caso d'insistere. Si congedò con un mezzo inchino, augurandole una buona battuta e sperando tra sé che non commettesse qualche leggerezza, alterata com'era.

Mentre la Contessa prendeva un cavallo e usciva dalla rocca, il Popolano tornò a cercare Cardella, per proseguire il discorso che stava facendo con lui a riguardo delle riserve di grano di Forlì.

Dopo essere tornato al primo piano, si guardò attorno e attraversò in fretta il corridoio. Passando davanti alla porta della sala delle letture della famiglia Riario, però, la sua marcia venne interrotta bruscamente.

Ottaviano era appena uscito a passo svelto, senza badare a chi stava in corridoio e così s'era scontrato con l'ambasciatore.

Per una frazione di secondo gli occhi arrossati e pesti del ragazzo si piantarono in quelli chiarissimi del fiorentino e Giovanni intuì come il giovane Riario potesse essere la molla che aveva fatto scattare ancora una volta la Tigre, inducendola a uscire a caccia per ritrovare la calma.

“Va tutto bene?” chiese il Medici, fermando Ottaviano appoggiandogli una mano sulla spalla.

Quello lo fissò un po', con lo stesso sguardo indagatore e imperscrutabile che spesso illuminava anche gli occhi di sua madre, e poi annuì in fretta: “Tutto come al solito.” concluse e si sottrasse con un movimento fluido alla mano del fiorentino, dedicandogli un breve cenno del capo e andandosene a passo svelto.

 

“Che cosa?” sibilò Alessandro VI, la tiara papale che scivolava di lato.

Stava per celebrare la messa dell'Antivigilia e aveva accettato di parlare prima con quel messaggero solo perché gli aveva anticipato che portava notizie di grande peso.

“Quello che vi ho detto.” fece l'uomo, guardando con timore la sagrestia in cui il papa lo aveva trascinato per parlare più tranquillamente.

Anche se era pieno giorno, il clima cupo non lasciava filtrare luce dalle finestre, e così la stanza era piena di candele accese, come se fosse già notte.

Rodrigo si levò la pesante corona – perché tale la considerava – e l'appoggiò a una delle sedute di legno che costeggiavano la parete. Dopo un momento di esitazione, vi si sedette accanto e si premette la punta delle dita sulle tempie, intento a pensare.

Dopo un po' guardò ancora il messaggero: “Mi state dicendo che mio figlio, Juan, con tutti gli uomini che ha al suo servizio, con tutta l'artiglieria che gli ho comprato, è scappato davanti a una manciata di soldati mal in arnese guidati da quell'analfabeta bifolco di Bartolomeo d'Alviano?!”

“Sì.” confermò il portavoce, raddrizzando le spalle e alzando la testa: “Ha abbandonato l'assedio senza pensarci un momento.”

Il papa mosse il mento a destra e a sinistra, impaziente: “E Montefeltro che ha fatto? Non l'ha fatto ragionare?”

“Ci ha provato – confermò l'altro – ma vostro figlio gli ha ricordato che voi siete Sua Santità.”

Alessandro VI picchiò il pugno contro il legno, furioso: “Al diavolo gli Orsini! Spergiuri e miscredenti! Che vadano tutti al diavolo!”

Il messaggero non condivideva la scelta del papa di far ricadere la colpa di quella figuraccia di Juan sugli Orsini, tuttavia sapeva che contraddire un Borja non era una mossa saggia, perciò sospirò e concordò: “Gli Orsini hanno davvero esagerato, avere ragione. E poi, dopo che quella donna ha anche ferito vostro figlio...”

Nel sentir rivangare il graffio che Bartolomea Orsini aveva inferto a Juan, inducendolo a scappare dal campo di battaglia come un codardo, Rodrigo perse definitivamente la pazienza.

“Adesso dove stanno andando?” chiese, rialzandosi e afferrando la tiara con astio.

“Non lo so... Stavano scappando, ma non ho fatto in tempo a sapere dove fossero diretti.” spiegò il messo: “Vostro figlio mi ha mandato qui da voi a chiedere soccorso prima che potessi scoprirlo.”

Sulla porta della sagrestia si era appena profilato Cesare, con i suoi pomposi abiti da cerimonia e il pesante crocifisso d'oro gemmato al collo.

Il papa, guardandolo in viso, ebbe il sospetto che li avesse ascoltati fin dall'inizio. Il volto lungo di Cesare, infatti, tradiva un velo di soddisfazione che non poteva significare altro.

Rodrigo sapeva da sempre che Juan era una fonte inesauribile di invidia per il fratello, ma fino a quel momento non aveva mai pensato che Cesare avesse ragione, nel dire che l'altro non aveva la stoffa per essere il braccio armato della famiglia.

“Vi stanno aspettando.” disse piano il giovane Borja, restando sulla porta.

“Sono il papa, posso permettermi di ritardare qualche minuto.” disse Alessandro VI, sbrigativo.

Poi allargò un braccio e bisbigliò qualcosa alla spia, che dopo se ne andò, con bacio all'anello piscatorio e un segno della croce molto veloce.

“Gli Orsini hanno passato il segno.” disse il Santo Padre, infilandosi di nuovo la tiara papale, il collo che si piegava appena sotto quel peso atroce: “Dobbiamo occuparcene.”

Cesare, molto agitato per quell'insperata opportunità, cercò di modulare il ritmo del respiro, nel proporre: “Se volete, posso occuparmene io.”

“Dobbiamo farla pentire della figura da guitto che ha fatto fare a tuo fratello.” continuò il papa, sistemandosi il vestone.

Cesare non aveva capito subito chi fosse l'oggetto della frase, tuttavia annuì, sperando che il padre gli desse maggiori delucidazioni.

“L'unico modo per far soffrire davvero quella maledetta donna con le brache è colpire senza pietà suo fratello.” fece Alessandro VI, annuendo con forza: “Sarebbe ancor meglio fare a pezzi suo marito, ma Bartolomeo d'Alviano è fuori dalla portata di Juan, ormai l'abbiamo capito, e temo che sia anche fuori da quella di Montefeltro.”

“Dunque dobbiamo colpire Virginio Orsini?” chiese Cesare, finalmente orientandosi.

Rodrigo annuì, poi guardò dubbioso il figlio e precisò: “Nessuno deve capire che siamo stati noi, però. Solo lei deve avere il dubbio di essere la causa della morte di suo fratello. È l'incertezza, Cesare, il tormento più grande che si possa infliggere a un essere umano.”

Il figlio del papa ne sapeva qualcosa. Da quando era nato viveva nell'incertezza. In primis, nell'incertezza di essere amato dal padre.

“Farò come dite.” assicurò il giovane e poi, dopo un sospiro del papa, andò a chiamare i Cardinali affinché arrivassero sulla porta per scortare il Santo Padre fino all'altare.

 
   
 
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