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Autore: PawsOfFire    08/09/2017    4 recensioni
Russia, Gennaio 1943
Non è facile essere i migliori.
il Capitano Bastian Faust lo sa bene: diventare un asso del Tiger richiede un enorme sforzo fisico (e morale) soprattutto a centinaia di chilometri da casa, in inverno e circondato da nemici che vogliono la sua testa.
Una sciocchezza, per un capocarro immaginifico (e narcisista) come lui! ad aggravare la situazione già difficoltosa, però, saranno i suoi quattro sottoposti folli e lamentosi che metteranno sempre in discussione gli ordini, rendendo ogni sua fantastica tattica fallimentare...
Riuscirà il nostro eroe ad entrare nella storia?
[ In revisione ]
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Furia nera, stella rossa, orso bianco'
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Seguirono giorni di insospettabile silenzio, ore interminabili durante le quali il capitano si chiuse in una specie di meditazione profonda e preoccupante.
Tom si prese la briga di spiegarmi l’accaduto in modo molto vago ed io, Daniel Kemple, rimasi con la perplessità a bagnarmi le labbra...nonostante fossi stato testimone dei deliri del nostro superiore.
“Cerca solo di comportarti bene e di non fare danni” mi ammonì il pilota, passandosi tra le dita una sigaretta spenta. Mi allontanai con un certo schifo dal vizio tossico.
“Anzi, facciamo un gioco. Fai finta di avere quattro occhi in più, va bene?”
Sul mio volto si dipinse una nuova smorfia. Mi trattavano tutti come un ragazzino nonostante i vent’anni ampiamente compiuti a Marzo.
E comunque Tom è più basso di me, quindi posso torreggiare con quel…
“Misero palmo di differenza, Daniel. Abbassa la cresta. E comunque ti vedo, sei in punta di piedi.”
Appoggiò una mano sulla mia spalla ed io dovetti tornare brutalmente alla mia tapina natura.
“Cresci di testa, ragazzo mio. Non di altezza!” disse infine il Sergente, abbassandomi il cappello per abbandonandomi infine al mio destino, accingendosi a fumare la sigaretta con la quale fino a poco tempo prima stava giocando.
Ci eravamo riuniti in un vecchio capanno arrugginito, una sorta di bunker coperto dentro il quale avevamo ritrovato una decina di barili stracolmi di aringhe affumicate dimenticate da chissà quanto tempo. La puzza di pesce riusciva a coprire qualsiasi altro odore, così molti soldati passavano il tempo a fumare indisturbati.
Dal canto mio, non trovando nulla di divertente da fare, mi scelsi un piccolo angolo ammuffito e tranquillo per concedermi di dare un’occhiata ad un vecchio articolo su Signal sui piloti della Luftwaffe.
Non mi interessava molto il fatto che si fosse ristabilito il nostro reggimento corazzato, né di fare amicizia con i tipi loschi che vi popolavano. Nella gioventù hitleriana c’era un’aria migliore, ecco. Erano tutti fanciulli di sani principi che aberravano i vizi ed amavano la nazione. Adesso sono tutti vecchi che amano i vizi ed aberrano la nazione. Avevo fatto richiesta per entrare in un reparto d’elité ma temo sia andata perduta la mia lettera così, a conti fatti, mi ritrovo a servire lo Heer dove speravo di trovare un po’ più di buonsenso.
Esempio pratico. Stavo leggendo la mia adorata rivista quando mi si avvicinò un ometto alto e secco con due incisivi mancanti dal quale spuntavano due sigarette.
“Oh, questa la leggevo tanto tempo fa! Me la presteresti, quando avrai finito? In cambio ti faccio un dipinto”
Arricciai le narici, infastidito sia dal fumo che dalla presenza poco gradita.
Aveva qualcosa di inquietante, quel soldato. A parte il leggero strabismo che si rifiutava di guardarmi negli occhi, l’uomo aveva deliberatamente abbattuto il mio spazio personale, infilando con prepotenza la testa tra le mie braccia per leggere l’articolo, pericolosamente minacciato dalle due sigarette accese.
“Mi lasci in pace!” chiusi di scatto la rivista e me ne andai via, scazzato.
“Ehi, non ti arrabbiare!”
Provò ad inseguirmi per un po’ ma io, con scatto fulmineo, riuscii a seminarlo nascondendomi in lontanissimo anfratto di capanno.
Era differente dal resto del nostro rifugio: anziché essere una distesa di casse e scarti, era come se qualcuno avesse stabilito una specie di quartier generale. Quattro casse di legno erano state adibite a scrivania sulla quale una lampada ad olio ed una mappa sgualcita sostavano tristemente. C’era persino una sedia vecchia, di paglia muffita e senza valore.
Silenziosamente scivolai in un angolo buio, avendo l’accortezza di portare con me un fusto vuoto ed arrugginito per nascondermi meglio.
Fu il paradiso. Per un’ora o poco più rimasi tranquillo a leggere indisturbato, respirando piano, illuminato scarsamente dalla lampada ad olio e dall’accendino che lentamente mi stava portando via tutto l’ossigeno.
Nel bel mezzo dell’articolo sui nostri coraggiosi piloti venni distratto da un rumore pesante di passi, scarponi chiodati che si avvicinavano a me, accomodandosi con uno scricchiolio in quella che immaginavo fosse la sedia.
Altri passi rumorosi lo seguirono. Con la coda dell’occhio provai a sbirciare tra i bidoni, trattenendo il respiro per non farmi sentire. Dovevo rimanere immobile, invisibile come un fantasma…
“Piani di guerra, tattiche...” Una voce bassa e rauca impregnò l’aria. Fece scricchiolare la mappa secca ed usurata prima di tornare a parlare.
“Non vi mentirò. I russi sono...qua. Ed anche qui, qui e qui. In pratica, siamo circondati.”
“Sarebbe conveniente ritirarci.” Disse una voce piena e calda, rassicurante.
Fu silenzio. L’aria tornò a saturarsi dello scricchiolio della carta.
“Negativo. Dobbiamo rimanere qua e difendere le linee lungo il Dnepr e coprire le ritirate della fanteria che sta ripiegando verso sud"
Qualcuno sospirò forte. Rumori di passi veloci e nervosi perimetravano la stanza.
“Si stimano più di centomila uomini in discesa da Mosca per riprendersi i territori persi”
“La Luftwaffe potrebbe...”
“Al diavolo, la Luftwaffe! Non hanno nemmeno più gli occhi per piangere. Reputiamoci felici se vedremo un nostro aereo in cielo.”

Ebbi un sussulto. Timidamente provai a spostarmi per cercare di vedere meglio ma, per errore, urtai un bidone, facendomi sfuggire un mugolio.
Nessuno per fortuna ci badò.
“Entro dieci giorni ci saranno addosso, assicuratevi di avere munizioni e carburante sufficiente. Dobbiamo agire in fretta e non è detto che arrivino i rinforzi in tempo...sempre che ascoltino le nostre richieste di aiuto"
“Non...abbiamo quasi più riserve. Questi uomini moriranno come mosche se non provvediamo alla ritirata!”
Questa voce la riconosco, si…
“Capitano Faust, la prego. Crede che non lo abbia chiesto, il permesso? Mi creda, nemmeno a me piace quest’idea. Ho avuto questo scialbo contentino, fatene quel cazzo che volete ma la ritirata...la ritirata...non ci sarà concessa.”
Carte vennero lanciate sul tavolo svogliatamente.
“Proverò a fare il possibile per voi, ma aspettiamoci superiorità di uomini e mezzi da parte loro.”
Qualcuno provò ad obiettare ma venne messo a tacere. Tutti furono congedati senza possibilità di replica e l’uomo, il più forte di tutti, si sedette al tavolo in solitudine, ringhiando insulti a denti stretti cercando di far funzionare un telefono da campo.
Spaventato, non mi rimase altra scelta che scappare veloce, inciampando malamente su uno di quei fusti vuoti e leggeri come l’aria.
Nella penombra nessuno riuscì a delineare la mia figura.

~

“Soldati”
Il Capitano si annunciò così, sventolando una manciata di brutte carte stropicciate e compilate alla buona.
Noi quattro sottoposti ci eravamo infossati in un angolo, reduci da un’infinita attesa. Alla fine il lavoro del soldato è fatto in gran parte di attesa, appesi come foglie d’autunno ed incoscienti di quando l’ultima folata di vento ci porterà via.
Il nostro Capitano sembrava avere acquistato un po’ di forza perduta: vigorosamente è tornato a disporci in fila in ordine crescente di grado come tanto amava fare, passeggiando davanti a noi con i suoi imperscrutabili e minacciosissimi occhi azzurri…
Balle. Ha delle belle occhiaie sotto le pupille verdastre e scure ed un taglio traverso da rasoio sulla guancia. Anche i suoi arianissimi crini dorati sono una balla.
E’ biondo si, ma bello scuro. Ed oltretutto sono anche mossi. Ora che iniziano a diventare un po’ troppo lunghi si vedono eccome ma guai a farglielo notare.
Mio padre faceva il barbiere e, modestamente, di queste cose me ne intendo.
Insomma, dopo aver scoperto un po’ di carte dal mazzo già voltato del mio superiore, lui annunciò solennemente di possedere delle pregiatissime carte valide per una licenza di tre giorni più due di viaggio.
Sarebbe stata anche un’ottima notizia...se non fosse stato che eravamo in cinque e solo uno di noi avrebbe potuto ottenere i pregiati papiri di libertà.
Mi sorpresi, però, quando il Capitano disse che non li avrebbe utilizzati per sé, bensì li avrebbe lasciati a qualcuno di noi.
“No, passo per questa volta” disse Tom, sbuffando acre fumo dalla sua sigaretta perennemente accesa.
“Voglio fare questa guerra senza soste, a costo di morirci di stenti.”
A questo punto rimanevamo io, Klaus e Martin. Il Capitano era propenso a dare i fogli al paffuto cannoniere ma io, bramoso di ferie, saltai in punta di piedi, esclamando: “Li dia a me, signor Capitano! Non la deluderò mai più ma la prego, mi faccia tornare a casa!”
Un sorriso stanco si corrugò ai lati del suo viso, facendo trapelare una stupida ed incavata fossetta che esaltava ancora di più il suo malessere nascosto.
“Oh, piccolo Kemple” si avvicinò a me, sistemandomi le spalline cadenti ed il colletto della camicia piegato e storto.
“Volevo darlo ad Achen, in realtà. Credo voglia rivedere i suoi figli...”
“Oh, no, non si preoccupi per me Capitano. Soffrirei troppo il distacco. Li rivedrò quando tutto sarà finito...e sarà meglio per entrambi.”
Sul volto di Kalus comparve un’ombra buia colma di tristezza infinita. Nella giacca conservava sempre una bella foto consunta di famiglia dove in altri tempi, in un’altra vita, sorrideva accanto ad una piccola moglie paffuta e del viso infinitamente dolce, con due bimbi vestiti di bianco anch’essi tondi e coccolosi.
Anche Martin declinò la richiesta. Questo bel capanno distava pochi chilometri dall’ospedale da campo dove lavorava l’infermiera di cui si era preso una cotta folle e, se voleva un’occasione, non avrebbe dovuto sprecare il suo tempo.
Così, a conti fatti, rimasi io che, trionfante, saltai gioiosamente mentre il Capitano mi consegnava i fogli.
“La ringrazio, la ringrazio infinitamente!”
Ero raggiante. Non mi sentii affatto egoista.
Qualcuno, per forza, avrebbe dovuto andarci in licenza e chi più di me, giovane e vigoroso, aveva più cara la vita? Forse loro, infinitamente vecchi che oramai avevano dimenticato l’esistenza prima del fronte? I miei ricordi vividi della città, l’odore caldo del fornaio che cuoce il pane alle sei di mattino, lo stucchevole profumo delle mele caramellate, l’acre fumo delle macchine sull’asfalto battente.
Si, decisamente, ero io quello che più meritava quel posto.

~

Dimenticai il discorso che avevo origliato qualche ora prima, con gli ufficiali riuniti. Tanto stavo per andare in licenza, no? Non mi riguardava più la guerra per un po’, vero?
Al diavolo gli altri, ci tengo alla pellaccia.
I miei camerata mi salutarono augurandomi il meglio. Il Capitano mi strinse forte la mano chiedendomi di fare tesoro dell’esperienza. Lo ringraziai raggiante con il mio miglior saluto mentre il furiere mi esortava a sedermi compostamente.
Partii l’indomani alle prime luci dell’alba. Venni stipato in un camioncino assieme a poche altre persone ma, man mano che ci avvicinavamo alla stazione, il mezzo divenne sempre più pieno fin quando non ci fu più posto per nessuno.
Gli altri, rimasti a terra, osservarono per lungo tempo il mio percorso, fin quando del mio furgoncino non rimase altro che un puntino nero nella secca campagna ucraina.

 

~

 

Sospirai appena, dando le spalle al giovane inetto che, coraggiosamente, aveva scelto di sacrificarsi per la più brutta delle missioni.
“Capitano Faust...abbiamo fatto bene a non avvertirlo?” mi chiese Klaus che, più di tutti, si era incredibilmente affezionato a Daniel.
“Achen, credo che il ragazzo debba fare esperienza di questa licenza. Per lui, che ancora puzza di casa, forse il ritorno sarà meno traumatico rispetto al nostro, non crede?”
“...Indubbiamente, Capitano Faust”
Sorrise appena il cannoniere ed io ricambiai. Avevo bisogno di riposo, di qualche ora da spendere assieme a Fiete per dormire. Non mi ero ancora ripreso del tutto dall’incontro con il pilota ma, in qualche modo, mi sentivo più leggero, come se mi fossi tolto un peso enorme.
Che Siegfried fosse nello Stuka di mio fratello quando, anni addietro, venne colpito dalla RAF* non aveva più importanza. Non aveva nemmeno senso chiedersi perché il bombardiere fosse riuscito a salvarsi e lui no...era passato tanto tempo e non mi importava se fosse una grottesca coincidenza o una drammatica realtà.
Avevo avuto le mie risposte, valeva crederci. Sorrisi appena senza motivo, socchiudendo gli occhi in sospiro di sollievo.
“Capitano, va tutto bene?”
Dal tanfo di fumo potevo immaginare che si trattasse di Tom.
“Mai stato così bene, Weisz. Ed ora mi dica, ha ancora quelle belle riviste che le avevo prestato durante la sua convalescenza?”
“Si ma...”
“Me le restituisca. E’ un ordine. Sento la mancanza di Sophie ed il suo costumino rosso...e Julia, Annelise ed Annabelle...”

Il pilota roteò scocciato gli occhi, sbuffando come un toro.
“Vado a prenderle...”
Lo osservai trotterellare verso il suo misero giaciglio, intento a rovistare tra i cumuli di spazzatura che aveva accumulato nel tempo.
Si, decisamente,
Andava tutto bene.

Note:

*RAF: Royal Air Force, ovvero areonautica militare inglese. 


 

   
 
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