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Autore: FrancescaPotter    08/09/2017    1 recensioni
Long sugli ipotetici figli delle coppie principali di Shadowhunters (Clace, Jemma e Sizzy), ambientata circa vent'anni dopo gli avvenimenti di TDA e TWP. TWP non è ancora uscito al momento della pubblicazione, e nemmeno l'ultimo libro di TDA; questa storia contiene spoiler da tutti i libri della Clare fino a Lord of Shadows, Cronache dell'Accademia comprese.
Dal quarto capitolo:
"Will abbassò il braccio e distolse lo sguardo, ma lei gli prese delicatamente il polso. «Lo sai che puoi parlarmi di qualsiasi cosa, vero?» gli chiese, morsicandosi inconsapevolmente il labbro inferiore. Era una cosa che faceva spesso e che faceva uscire Will di testa. «So che è George il tuo parabatai» continuò abbassando la voce, nonostante non ce ne fosse bisogno perché George era concentrato sul suo cibo e Cath stava leggendo qualcosa sul cellulare. «Ma puoi sempre contare su di me. Mi puoi dire tutto. Lo sai, vero?»
Will sospirò. «Lo so, posso dirti tutto».
Tranne che sono innamorato di te."
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Clarissa, Emma Carstairs, Izzy Lightwood, Jace Lightwood, Julian Blackthorn
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Rinnovo l'avviso: spoiler da Signore delle Ombre (Lord of Shadows)
Capitolo cinque
 
Julian non riusciva a trovare Emma. L’aveva cercata dappertutto: nell’armeria, in cucina, in palestra, persino nello studio, ma di lei neanche l’ombra. Stava andando a controllare nella loro camera, quando la intravide nel suo ufficio al secondo piano, affacciata alla finestra. Gli dava le spalle e stava fissando qualcosa che teneva in mano, i lunghi capelli biondi che le ricadevano morbidi sulla schiena come una cascata dorata.
«Emma» la chiamò Julian, ma lei non si mosse.
Julian notò che stava tremando leggermente e le si avvicinò piano. «Emma» disse di nuovo. Non la toccò, si limitò a stare in piedi dietro di lei a qualche centimetro di distanza.
Emma si voltò, prendendolo dentro leggermente, ma Julian non si mosse. Le poggiò una mano sulla spalla e due dita sotto al mento per farle alzare lo sguardo su di sé. Emma aveva gli occhi rossi, come se avesse pianto, e Julian deglutì. «Cos’è successo?»
«È tutta colpa mia» disse lei con voce sottile, crollandogli addosso e seppellendo il viso nell’incavo del suo collo. Julian la strinse a sé e la sentì singhiozzare. 
Emma non piangeva spesso, ma in quell’ultimo periodo Julian si era spesso svegliato la notte trovandola seduta sul materasso con le mani premute sul viso bagnato di lacrime.
Julian lo odiava. Odiava vederla cadere a pezzi in preda alla preoccupazione e al senso di colpa.
Emma si allontanò leggermente da lui e gli mise in mano una grande foglia accartocciata. Julian aggrottò le sopracciglia e la spiegazzò per poterla guardare meglio. Su quella erano state incise delle lettere: Stiamo arrivando. Se lo direte a qualcuno, pagherete con il sangue.
Era tipico degli appartenenti al Popolo Fatato comunicare in questo modo, stregando pezzi di tronco o foglie, e Julian sapeva chi l’aveva mandata.
«Non è colpa tua» disse Julian, furioso. Spezzò la foglia in quattro e la gettò a terra, per poi prendere Emma per le spalle. «Emma, ascoltami». Emma continuava a scuotere il capo, come se non volesse starlo a sentire, ma lui continuò. «Non è colpa tua».
«Se non avessi ucciso Fal, niente di tutto questo sarebbe successo».
Quando avevano diciassette anni, Julian ed Emma si erano ritrovati ad affrontare i sette Riders di Mannan, mandati dal re della Corte Unseelie per reclamare il Volume Nero della Morte, un libro di magia oscura che credeva fosse in loro possesso. Nessuno in tutta la storia era mai riuscito a ucciderli, la loro forza era sovrumana e la loro armatura inespugnabile. Ma poi era arrivata Emma con Cortana.
Julian ricordava quel giorno come se fosse ieri, nonostante fossero passati anni. Avevano dovuto combattere contro quattro di loro sulle scogliere della Cornovaglia, e Julian era stato messo con le spalle al precipizio da Fal. Aveva nascosto la sua balestra dietro a una roccia poco lontano, ma non aveva fatto neppure in tempo ad afferrarla che Emma aveva infilzato Fal tra le scapole con Cortana. Il Cavaliere era caduto al suolo con un grido disperato e i suoi fratelli avevano giurato vendetta. Per molto tempo, Emma aveva temuto che la loro ira potesse abbattersi su di loro come un uragano, ma per più di vent’anni non era successo nulla, tanto che Julian ed Emma pensavano di essere al sicuro, che i Riders avessero deciso di lasciarli stare.
Julian sapeva che si trattava di un’effimera illusione e che gli appartenenti al popolo fatato pagavano sempre i propri debiti. E il momento era arrivato.
«Se non lo avessi ucciso, probabilmente sarei morto» replicò Julian prontamente. Avevano già avuto quella discussione un sacco di volte.
«È ufficiale ora. Sono loro. Sono i Riders di Mannan» continuò Emma con voce strozzata, sedendosi sulla grande sedia di legno. «Spiega anche tutte le altre morti che si sono verificate nell’ultimo periodo. Ci stavano cercando e ora ci hanno trovato».
Julian guardò il cielo azzurro fuori dalla finestra, aspettandosi quasi di vederli arrivare in groppa ai loro cavalli volanti.
«Devo andare» disse Emma improvvisamente. «Se mi consegno a loro, vi lasceranno stare».
Julian la fulminò con lo sguardo. «Se credi davvero che ti lascerei…»
«Ma devi!» esclamò lei, alzandosi in piedi. «Devo. Per le bambine. Hanno avuto anche loro il sogno, lo abbiamo avuto tutti. Se non mi consegno, vi faranno del male».
Julian le carezzò piano il viso, sentendo una tenerezza dolorosa salirgli nel petto. Emma non aveva capito, e Julian la amava proprio per quello, perché era buona, e onesta. Emma aveva onore e non aveva neppure preso in considerazione l’idea che i Riders volessero far pagare qualcun altro per ciò che lei stessa aveva fatto.  
«Emma» le disse piano, tracciandole lo zigomo con il pollice. «I Riders non vogliono te».
Emma sbatté un paio di volte le palpebre. «Cose intendi dire? Ho ucciso uno dei loro fratelli e Ethna è stata chiara: non avrà pace finché non mi vedrà morta».
Julian sospirò, sentendo il sapore della bile in bocca. Non riusciva neppure a dirlo. «Non vuole te, Emma. Vuole noi, Rose, Holly e me. Vuole ucciderci davanti ai tuoi occhi, è questo che significa il sogno».
Emma sbiancò e fece qualche passo indietro, come a volersi allontanare da lui. «No» disse, scuotendo il capo. Alcune ciocche di capelli le andarono negli occhi. «No no no. Rose e Holly non hanno fatto niente».
Emma lo guardò, e Julian sapeva cosa stava per dire ancora prima che aprisse bocca. «Li ucciderò tutti prima che ci raggiungano».
Si voltò e fece per uscire dall’ufficio, ma Julian fu più veloce e le bloccò la strada. «Non essere ridicola, Emma! Non puoi affrontarli tutti da sola, anche se hai Cortana, ti ucciderebbero prima ancora che tu possa…»
«Fammi passare» gli disse lei. Julian poteva leggere la determinazione nei suoi occhi, quella determinazione che lui stesso amava e che la rendeva una Shadowhunter tanto temibile, ma anche lui era determinato, e se Emma avesse davvero voluto fare qualcosa di così stupido, avrebbe dovuto passare sopra al suo cadavere.
«Emma». Julian cercò di mostrarsi calmo e di celare il panico che si stava facendo strada nel suo petto. «Sistemeremo tutto, te lo prometto. Chiederemo a Mark di andare a parlare con Kieran. I Riders servono il Re della corte Unseelie da un millennio ormai, dovrà pur valere qualcosa».
«Pensi che Kieran possa riportarli all’ordine?» chiese Emma.
Julian non ne era sicuro, la speranza era tutto ciò a cui poteva aggrapparsi. «Sicuramente» disse invece.
«Non lo so, Jules». Emma tirò su con il naso. «Non so…»
Si bloccò e si passò velocemente una mano sulle guance per asciugarsi le lacrime.
Julian si voltò e trovò Rose davanti alla porta aperta. Li stava osservando con sguardo penetrante e Julian poteva quasi vedere gli ingranaggi del suo cervello tanto brillante lavorare.
«Rose» la salutò Emma con un sorriso. «Dove stai andando?»
Rose si era truccata e stava indossando una gonna lunga che Julian non aveva mai visto.
«Sto uscendo con Logan» disse lei.
Emma sbiancò e Julian temette potesse svenire da un momento all’altro. Avrebbe voluto andare da lei, prenderla tra le sue braccia e sussurrarle che sarebbe andato tutto bene, ma non poteva. Se lo avesse fatto Rose si sarebbe non solo arrabbiata, ma anche insospettita ancora di più.
«Oh» fece Emma, riprendendosi leggermente. «Oh. Quindi l’appuntamento ieri è andato bene?»
Rose annuì. «Credo…»
«Ma non puoi uscire anche stasera» continuò Emma con un finto tono allegro. «Devi farti desiderare, figlia mia».
Rose spalancò gli occhi. «Ah, davvero?»
«Se c’è una persona dalla quale non devi accettare consigli di questo genere» disse Julian. «Quella è tua madre».
Emma alzò un sopracciglio nella sua direzione. «Parlami di nuovo di tutte le tue fidanzate… ah, no. Aspetta».
Rose alzò una mano per zittirli e chiuse gli occhi. «Non voglio sentirlo. Ero solo passata a salutare».
Julian iniziava a provare la stessa ansia di Emma, non solo perché sua figlia stava crescendo e stava uscendo con un ragazzo per la seconda volta –si saranno già baciati? Avranno fatto di più? Julian non ci poteva pensare- ma soprattutto perché non si sentiva tranquillo a saperla fuori da sola con i Riders sulle loro tracce.
Emma si portò una mano alla schiena e sfoderò Cortana.
«Io sono Cortana, dello stesso acciaio e tempra di Gioiosa e Durlindana» lesse l’incisione sulla lama e Julian sapeva che cosa stava per fare ancora prima che pronunciasse le parole.
Rose stava guardando Cortana con la stessa riverenza di Emma.
«È tua ora. Per sempre».
«Mamma» disse Rose. «Il mio compleanno è a fine mese».
«Lo so» Emma alzò le spalle. «Ma voglio che tu la abbia adesso».
Rose allungò una mano titubante e prese la spada per l’elsa. «Perché?»
«Perché è il momento giusto» rispose Emma. «Acciaio e tempra, Rose. E ricorda che una spada…»
«… forgiata da Wayland il Fabbro» continuò Rose, passando una mano sulla lama. «Può tagliare ogni cosa».
 
---
 
George sentì qualcosa sfiorargli la guancia. Aprì gli occhi e trovò Cath che lo fissava assorta, le labbra socchiuse e le guance arrossate per il sonno.
«Scusa» disse, allontanando la mano. «Non volevo svegliarti».
George gliela prese e se la portò alle labbra. Le diede un bacio sul palmo, e poi un altro sul polso, dove la pelle era più morbida e delicata.
«Non devi scusarti». George era sdraiato a pancia in su con un braccio dietro la testa, mentre Cath si era messa su un fianco e lo guardava dall'alto verso il basso, appoggiata su un gomito.
Iniziò a disegnargli con il dito dei cerchi irregolari sul petto. «Credo che i tuoi si siano alzati».
George emise un verso esasperato. «Mamma o papà?»
I genitori di George avevano la sgradevole abitudine di entrare in camera sua senza bussare. Una volta avevano trovato Cath e George abbracciati nel letto senza vestiti, e da quel momento i due avevano deciso di indossare sempre qualcosa prima di addormentarsi. A George non andava molto a genio e avrebbe preferito che i suoi genitori rispettassero la sua privacy, ma se quello era il prezzo per avere Cath con sé la notte, era più che disposto a pagarlo.
Quella mattina, infatti, Cath si era infilata la sua casacca del pigiama -una maglietta di Batman che suo padre gli aveva regalato al compleanno- mentre George era rimasto a torso nudo con indosso solo un paio di boxer.
Cath appiattì la mano sul suo cuore e si chinò per dargli un bacio. «Io scommetto su tuo padre».
Era un gioco che facevano ormai da tempo, indovinare quale dei genitori di George sarebbe entrato senza bussare. Non succedeva sempre, George doveva ammetterlo, ma accadeva comunque troppo spesso per i suoi gusti.
A distanza di anni si ritrovava ancora a ringraziare l'Angelo che la prima volta che lui e Cath erano stati insieme i suoi genitori fossero in viaggio di lavoro a Idris, altrimenti l’avrebbero fatta scappare a gambe levate.
«Allora dobbiamo sbrigarci» disse George, prendendo Cath per i fianchi e facendola sdraiare su di sé. Cath si mise a ridere e il cuore di George perse un battito. Non si sarebbe mai abituato all'effetto che lei gli faceva, alla sua risata, al suo corpo, al suo profumo. La camera di George era ancora immersa nell'oscurità, ma alcuni raggi di luce erano riusciti a sfuggire alle tende consentendo a George di distinguere i tratti del viso di Cath. Gli zigomi alti, l'arco delicato delle sopracciglia, le labbra sottili. Gliele baciò lentamente, quasi con devozione, e la sentì trattenere il respiro quando le sollevò la maglietta. Aveva bisogno di sentire il calore della sua pelle, di baciarle la cicatrice sulla clavicola che aveva scoperto solo qualche giorno prima, di baciarle ogni cicatrice e ogni marchio che la rendevano la Shadowhunter che era. Fece per sfilarle completamente la maglietta, ma in quel momento un fiotto di luce si riversò nella stanza, illuminandola a giorno.
«George, non ci crederai mai, ma gira voce che Hulk morirà nel prossimo...» disse Simon, il papà di George, spalancando la porta. «Ciao, Cath».
Cath sussultò e rotolò velocemente di lato, lontano da George, che imprecò mentalmente. Lui li odiava, i fumetti.
«Signor Lovelace» disse Cath, mettendosi seduta e sistemandosi i capelli.
Simon le sorrise. «Quando inizierai a chiamarmi Simon?» Cath arrossì, non solo in viso ma anche alla base del collo e sulle braccia.
Quando George glielo aveva fatto notare, lei gli aveva spiegato che avendo la pelle chiara arrossiva ovunque. George provò il desidero di baciarle tutte le macchie rosse che le stavano spuntando sul collo, ma non poteva perché suo padre stava proprio in piedi di fianco a loro.
«Papà» sibilò, cercando di mantenere la calma. «Quante volte ve lo devo dire di bussare?»
Simon lo guardò e sbatté le palpebre un paio di volte, come se non si fosse reso conto di aver fatto qualcosa di male. «Ah, giusto. Scusate».
George gli lanciò un'occhiataccia, ma non fece in tempo ad aggiungere altro che sua madre li raggiunse, i capelli lunghi sciolti sulle spalle e un vestito viola che le svolazzava attorno alle caviglie.
«Buongiorno!» li salutò allegra. «Ciao Cath, mi sembrava di aver sentito la tua voce».
Cath le fece un cenno con la mano e Isabelle si sedette sul letto accanto a loro.
George la guardò con gli occhi fuori dalle orbite. «Mamma, che stai facendo?»
«Ho trovato una camicia bellissima ieri» spiegò lei, rivolgendosi a Cath e ignorando il figlio. «Ma non avevano la mia taglia, quindi ne ho comprata una più piccola che sono sicura ti piacerà».
«Signora Lovelace, non doveva...» iniziò Cath, ma Simon la interruppe. «Lasciala fare» disse con un sorrisetto. «Quando George era più piccolo ha tentato di vestirlo da bambina una volta».
George voleva morire.
«Io vado a fare una doccia» decretò, alzandosi dal letto e non degnando i suoi genitori di uno sguardo. Era in quei momenti che desiderava avere un fratello, almeno gli avrebbero dato fastidio solo per la metà del tempo.
Era da un po' che George stava meditando sull’idea di andare a vivere da solo. Ormai aveva diciotto anni, e aveva sempre pensato che una volta diventati maggiorenni lui e Will sarebbero andati a vivere assieme. Adesso però non vedeva più Will al suo fianco, o meglio, non solo Will: ci vedeva anche Cath.
L'appartamento nell'Upper East Side che condivideva con i suoi genitori non era molto grande, con solo due camere e un piccolo salotto nel quale a mala pena ci entravano un divano e una libreria, ma era un luogo intimo e personale, con le pareti decorate da vecchie fotografie e poster di Star Wars, saga amata sia da Simon che da Isabelle. George lo adorava, ci aveva sempre vissuto e lo avrebbe sempre ricordato con affetto, ma sentiva il bisogno dei suoi spazi, di un luogo che fosse suo.
Si infilò nella doccia e lasciò che l'acqua calda sciogliesse la tensione accumulata in quegli ultimi giorni. Era sempre più preoccupato per Cath e desiderava solo che raggiungesse la maggiore età al più presto possibile. George osservò l'anello dei Lovelace che portava al pollice e provò a immaginarlo al dito di Cath. Chiuse gli occhi e sospirò. Non lo aveva detto a nessuno, nemmeno a Will, e sentiva che da un momento all'altro sarebbe esploso. Come se non bastasse, gli omicidi che si stavano verificando in quell'ultimo periodo non aiutavano a migliorare il suo umore.
Uscì dalla doccia controvoglia e indossò un paio di jeans scuri e un maglione nero, per poi dirigersi in cucina. Lì suoi genitori stavano chiacchierando con Cath, che però gli dava le spalle. I capelli biondi le ricadevano morbidi sulla schiena, di qualche tonalità più chiara dell'oro fuso. George non aveva il minimo senso artistico, ma Will gli aveva detto che si trattava di un misto di biondo platino e biondo vaniglia.
«George!» esclamò sua mamma. «Stavamo giusto dicendo a Cath che dovremmo organizzare una cena per conoscere finalmente suo padre».
Cath si voltò e gli rivolse un sorriso teso.
George non sapeva come rispondere e cercò di mostrarsi tranquillo. «Uhm, se per voi va bene...»
«Mio padre è un uomo molto impegnato» disse lei. «Ed è sempre ad Alicante».
Simon aggrottò le sopracciglia. «Strano. Non l'ho mai incontrato di persona. Anche ora è a Idris?» Cath annuì, stropicciandosi le mani. Si era rivestita e indossava la gonna bordeaux e la camicia bianca della sera precedente.
«Allora dovresti fermarti qua qualche giorno» propose Isabelle subito. «Oppure George può venire da te. Non voglio che tu stia sempre da sola».
«Non c'è problema» si affrettò a dire Cath. «Sono abituata».
George dovette contare fino a dieci per non confessare tutto, per non urlare che il padre di Cath era a New York, probabilmente collassato sul divano con una bottiglia di vino in mano.
Simon e Isabelle si lanciarono uno sguardo preoccupato, e Isabelle fece per dire qualcosa, ma George si era calmato e intervenne in favore di Cath. «La accompagno a casa».
«Ma, George...» iniziò Simon, come per protestare, ma qualcosa nello sguardo di George lo convinse a cedere. «Fermatevi almeno a colazione».
«Prendiamo qualcosa per strada» disse George, poggiando una mano sulla spalla di Cath. «Andiamo?»
Cath si alzò e guardò Simon e Isabelle con occhi grandi. «Grazie mille per tutto, mi dispiace non restare, ma non posso proprio. Devo badare... alle piante e ai gatti».
Cath non aveva gatti, e se avesse avuto piante, George era sicuro che sarebbero già morte. Distolse lo sguardo, perché non lo sopportava. Non sopportava quella situazione.
Alla fine i suoi genitori li lasciarono andare e Cath e George si diressero in silenzio verso la metro.
Fuori faceva freddo e George si strinse nel tessuto caldo del cappotto senza riuscire a trarne conforto, perché Cath era distante anni luce e camminava con il capo chino e le braccia strette attorno al torace per proteggersi dal vento. I capelli biondo chiaro le svolazzavano negli occhi e George doveva trattenersi dallo scostarglieli ogni volta che si fermavano a un semaforo.
Quella domenica mattina la stazione della metro era quasi deserta, fatta eccezione per qualche senzatetto che ne aveva fatto la sua casa provvisoria. Sul treno Cath e George non si parlarono, non si toccarono, a mala pena si guardarono.
«Devi dirlo ai miei genitori» iniziò d'un tratto George, prendendo un respiro profondo. «Possono aiutarti. Ti prego, lascia che ti aiutino. Lascia che io ti aiuti».
George sapeva già come quella conversazione sarebbe finita: con un litigio e con Cath in lacrime.
«Va bene così» disse lei. «È sotto controllo».
George sentì la rabbia scorrergli nelle vene come fuoco liquido. «Sotto controllo come quando ti ha quasi pugnalata alla gola?»
Cath non lo stava guardando. Fissava dritto davanti a sé. «È stato un incidente, non era in sé».
«È questo il punto!» esclamò George. «Non è mai in sé!»
Cath incrociò le braccia al petto e non disse niente. George si accasciò sul sedile e lasciò cadere il discorso: non si era mai sentito così impotente in vita sua.
Dopo quella che parve un'eternità, sentì Cath prendergli la mano. George gliela strinse e lei poggiò la testa sulla sua spalla. George si beò di quel contatto tanto desiderato per tutto il resto del viaggio. Arrivarono a Brooklyn nel giro di quaranta minuti, ma a George parvero molti di più. Scesero dal treno e raggiunsero velocemente la casa di Cath, un appartamento situato al quattordicesimo piano di un palazzo grigio scuro.
«Sarà meglio che vada» disse lei. «Ringrazia di nuovo i tuoi genitori. Per tutto».
George annuì. «Vuoi che ti accompagni di sopra?» chiese, indicando con il capo il portone di ingresso.
Cath sospirò. «No, George. È meglio di no».
Tutta la rabbia che George aveva provato fu spazzata via dallo sguardo che lei gli rivolse in quel momento. «Mi dispiace tanto» gli disse. «Mi dispiace così tanto. Vorrei che le cose fossero diverse, ma non lo sono. Ti chiedo solo di capire perché non lo posso dire a nessuno, neanche ai tuoi genitori».
George non capiva, non capiva e odiava i segreti. Ma proprio come nel caso di Will, anche quello non era il suo segreto da confessare e perciò avrebbe taciuto, aggiungendo un altro fardello al carico che stava già sopportando da anni.

NOTE DELL'AUTRICE
Ecco qua il nuovo capitolo, spero che vi piaccia! 
Finalmente scopriamo cosa tormenta i poveri Blackthorn. Sono consapevole che nell'ultimo libro di TDA i Riders verranno sistemati, ma visto che non è ancora uscito ho dato una mia versione dei fatti. 
Il re della corte Unseelie è Kieran qui nella FF, già proprio lui. Di nuovo: non so se lo diventerà, me lo sono inventato e vedremo come andrà a finire! 
 
  
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