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Autore: NPC_Stories    08/09/2017    6 recensioni
Sono un ranger elfo dei boschi della foresta di Sarenestar, o foresta di Mir come la chiamano gli umani. Il mio nome è Johlariel, per gli amici Johel.
Sì, ho degli amici.
Sì, per davvero, anche se sono un elfo, quelle voci che girano sul nostro conto sono solo calunnie. In realtà sono un tipo simpatico e alla mano.
Questa storia è una raccolta di racconti, alcuni brevi altri lunghi e divisi in più parti, che narrano dei periodi in cui ho viaggiato per il mondo insieme a un mio amico un po' particolare. Per proteggere la sua privacy lo chiamerò Spirito Agrifoglio (in lingua comune Holly Ghost, per comodità solo Holly). Abbiamo vissuto molte splendide avventure che ci hanno portato a crescere nel carattere e nelle abilità, e che a volte hanno perfino messo alla prova il nostro legame.
...
Ehi, siamo solo amici. Sul serio. Già mi immagino stuoli di ammiratrici che immaginano cose, ma siamo solo amici. In realtà io punto a sua sorella, ma che resti fra noi.
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Nota: OC. A volte compariranno personaggi esistenti nei libri o nella wiki, ma non famosi.
Luglio 2018 *edit* di stile nel primo capitolo, ho notato che era troppo impersonale.
Genere: Avventura, Fantasy, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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1298 DR: La Guerra e la comparsa dello Spirito Agrifoglio, ovvero Quando pensavo di aver perso un amico, ma gli amici restano sempre con noi


La cerimonia era stata molto toccante. Questa è una cosa che ricorderò per sempre, per quello che vale: un funerale solenne, molto… sacrale. Ma non ci avrebbe restituito i nostri morti. Il dolore del lutto pesava su tutti noi, come una cappa di oscurità.
Noi elfi non siamo famosi per esternare le nostre emozioni. I volti dei miei compagni erano solenni e austeri. Il loro dolore traspariva solo dall’incuria verso sé stessi: nessuno si era ripulito dal fango dopo aver scavato le tombe. Qualcuno non si era nemmeno fatto guarire tutte le ferite di guerra. Forse questo era il nostro modo di vivere il dolore, la gratitudine.
Queste persone non erano il mio clan. Ma erano il clan di mia madre, quindi erano comunque parenti. Il mio dovere nei loro confronti mi era chiaro. Ero passato spesso a trovarli nel corso dei miei viaggi, e qualche settimana prima mi trovavo con loro quando avevamo saputo dell’avvistamento degli orchi. Quando tutti i clan della Penisola del Collo del Drago si erano riuniti, non mi ero tirato indietro.
Adesso non erano più solo parenti. Erano anche compagni d’armi, avevamo combattuto fianco a fianco un’epica battaglia.
È giusto chiamarla così? Quante morti deve contare una battaglia per essere epica?
Mi guardai intorno, facendo mentalmente la conta dei sopravvissuti. Era come fare la conta dei morti, ma alla rovescia.
Mi accorsi che non riconoscevo la maggior parte di quei volti. Dietro quegli sguardi cupi, nasi spezzati, teste fasciate, c’erano persone che per me non avevano neanche un nome. Sapevo solo che mi avevano coperto le spalle in battaglia ed io avevo rischiato la vita per loro, e tanto mi bastava.
I clan della Penisola del Collo del Drago non andavano sempre d’accordo, ma davanti agli orchi qualunque elfo era un fratello.
Ci eravamo uniti per combattere le orde degli invasori, in un luogo che pensavamo essere difendibile. Eravamo centinaia di elfi dei boschi, divisi in piccoli contingenti armati. Più di quanti ne avessi mai visti tutti insieme. Avevamo difeso quella terra al meglio delle nostre possibilità. Solo la metà di noi era arrivata a vedere la fine della battaglia.

Raccogliere i nostri morti era stato un lavoro lungo, ma c’era ancora molto altro da fare. I cadaveri degli orchi erano rimasti indietro, perché quelle bestie non seppelliscono i loro compagni. Non in guerra, almeno. Ora quei rifiuti giacevano abbandonati nella foresta, sui sentieri, sulle strette mulattiere che si abbarbicavano fra le colline coperte di boschi. Incastrati fra le rocce e fra le siepi, alcuni dimenticati nelle caverne sotterranee.
Le caverne sotterranee.
Il nostro popolo ama la luce del sole e il fruscio delle fronde, non eravamo a conoscenza delle caverne. Il terreno dove avevamo dato battaglia era una specie di terra di nessuno, non lontano dalla strada costruita dagli umani che separa la Penisola dal resto della foresta Wealdath. La Penisola è sempre stata considerata un luogo difendibile perché è una sorta di altipiano. Combattere sui declivi ci era sembrata una buona idea. Gli orchi avrebbero dovuto caricare in salita, facendosi ottimi bersagli per le nostre frecce.
Il rovescio della medaglia era che non conoscevamo quel territorio alla perfezione, mentre invece qualcuno di loro doveva essersi preoccupato di studiarlo. I nemici avevano trovato dei cunicoli sotterranei. Sembrava un’idea troppo astuta per degli orchi, ma avevano anche malefici alleati goblinoidi, un po’ più furbi. Codardi e furbi. Avevano pianificato di sorprenderci alle spalle, sbucando dietro le fila del nostro frazionato esercito.

Per fortuna avevamo con noi qualcuno in grado di pensare anche a quell’eventualità. Era andato da solo ad esplorare le caverne, trovando il punto debole dell’esercito nemico: una strettoia, dove solo pochi orchi affiancati sarebbero riusciti a passare, e di certo un solo ogre. C’erano altre caverne, ma troppo pericolanti o troppo strette, o che giravano indietro troppe volte rallentando eccessivamente la marcia dei nemici, quindi quella via era stata scelta, e quella via avrebbe condotto gli invasori alle nostre spalle.
Tutto molto bello, ma quella scoperta era arrivata troppo tardi. Troppo tardi perché il mio amico potesse tornare da noi a dare l’allarme. Se avesse abbandonato la posizione, gli orchi avrebbero superato quella preziosa strettoia difendibile. Sarebbero dilagati nelle larghe caverne e nei tunnel labirintici che si estendevano sotto la Penisola. E così, mentre noi combattevamo in superficie, difendendo le valli, i passi, le strade, un singolo elfo difendeva le gallerie contro quasi un quarto dell’esercito nemico.

Tutto questo però lo scoprii dopo. Mentre seppellivamo i compagni caduti, non sapevo dove fosse andato. Durante gli scontri eravamo stati separati dalla marea di nemici. Io ero impegnato a combattere vicino al letto di un torrente e lui si trovò bloccato su un altro versante del pendio, costretto a retrocedere verso la cima dell’altipiano. Quando lui aveva avuto l’idea di cercare una via sotterranea, io l’avevo perso di vista già da molte ore.
La battaglia era durata quasi un’intera giornata. Quando finalmente quel carnaio ebbe termine, non sapevo da dove iniziare a cercare il mio amico. Le tracce erano confuse dal passaggio di migliaia di piedi, ovunque nei boschi. Come distinguere le sue leggere tracce da quelle di qualsiasi altro elfo?
Il pensiero che fosse morto era quasi intollerabile e all’inizio lo scartai come un’assurda paura irrazionale. Man mano che le ore passavano, però, stava diventando un chiodo fisso. Non potevo credere che fosse caduto in una battaglia contro degli stupidi orchi, non dopo tutto quello che avevamo passato insieme. Non dopo aver affrontato nemici ben peggiori.
Eppure... non era ancora tornato. Questo lasciava poco spazio alla speranza. Delle semplici ferite non l’avrebbero fermato, lui era sempre stato categorico e privo di mezze misure: se era sopravvissuto, si sarebbe fatto vivo. In caso contrario...

Finimmo di sotterrare i corpi tre giorni dopo. Nel frattempo avevo chiesto in giro. Uno degli ultimi elfi a vederlo vivo accettò di parlarmi, anche se controvoglia. Aveva i suoi lutti da piangere e sembrava che non gli importasse molto del mio amico, ma mi raccontò quel che ricordava: lo aveva sentito parlare della sua idea delle gallerie.
Fu allora che scoprii che le gallerie c’erano davvero. Rimasi immobile per un lungo momento, rabbrividendo, e non per l’aria fredda che arrivava dal sottosuolo. Stavo iniziando a rendermi conto del rischio che avevamo corso.
Passai il primo giorno ad esplorare le grotte nella zona sbagliata. Stavo per rinunciare (per quel giorno) e tornare in superficie, quando da una fenditura nella roccia mi arrivò una zaffata di odore vomitevole. Sangue, putrefazione: l’odore della morte. Quella fenditura era troppo stretta perché potessi passarci e le gallerie che riuscii a trovare non mi condussero a nulla. Tornai in superficie e cercai di orientarmi, per capire dove fosse la caverna di cui sospettavo l’esistenza.
Ci misi quasi un’altra giornata intera, ma alla fine la trovai.
Era il luogo di un massacro. Una pila di corpi di orchi e goblin ostruiva quasi del tutto la galleria, alcuni di essi sembravano essere stati calpestati, forse dai loro stessi compagni che cercavano di scavalcare la montagna di cadaveri e proseguire nella loro folle battaglia. Era chiaro che per quanti nemici fossero entrati in questa caverna, non tutti dovevano essere morti qui: quando il mucchio di cadaveri era diventato un ostacolo insormontabile, il resto della truppa doveva aver voltato le spalle per tornare all’aperto, rinunciando a questa strategia.

Lo trovai sotto il cadavere di un orco particolarmente grosso, forse un ogrillon.
Forse avete già sentito il modo di dire “è un lavoro sporco, ma qualcuno deve farlo”. Non credo che lo possiate comprendere davvero, se non avete mai spostato a mani nude una mezza dozzina di carogne. Vecchie di quattro giorni. Solo per ritrovare infine ciò che speravate di non trovare: il cadavere fracido del vostro migliore amico.
Era a stento riconoscibile e aveva diverse ferite, molte delle quali mortali. Questo era strano, sapevo bene che il suo stile di combattimento lo rendeva un maestro nell’evitare i colpi. Solo la sete di battaglia poteva averlo spinto ad attaccare con abbandono, senza pensare alla propria protezione. Quella, oppure la rassegnazione. Tutto questo però non spiegava come avesse potuto continuare a combattere con ferite del genere e con quella che sembrava una gamba rotta.
Mi imposi di pensare a questo e ad altri dettagli, mentre avvolgevo il suo corpo nel suo mantello e mi davo da fare per riportarlo fuori. Avevo bisogno di tenere la mente occupata per non cedere all’orrore e alla tristezza per quello che stavo facendo.

La nostra non era un’amicizia convenzionale. La prima volta che l’avevo visto, ammetto che ero confuso. Non era tutta colpa mia, avevo preso un colpo in testa. L’intera vicenda risaliva a quasi mezzo secolo prima, all’epoca io ed un gruppo di ranger eravamo in viaggio per una missione segreta. Ad un certo punto eravamo stati attaccati da alcuni briganti su una strada sterrata che costeggiava una foresta, non ho mai scoperto se cercassero proprio noi o se fosse stata solo sfortuna. In qualche modo io ero sopravvissuto, forse mi avevano creduto morto, forse non ero una preda di loro interesse. Sia come sia, dopo un po’ mi ero risvegliato da solo. Le mie ferite erano state medicate, ma le mie mani erano legate davanti al petto. Pensavo che i briganti mi avessero preso prigioniero, invece sembrava che anche loro fossero tutti morti.
Lui era lì, poco distante da me. Stava seppellendo i miei compagni di viaggio. Non li conosceva, ma li stava seppellendo perché perfino qualcuno del tutto digiuno dei nostri usi e costumi aveva capito che era poco rispettoso lasciare dei corpi agli animali divoratori di carogne. Stava seppellendo i miei compagni, e anche i briganti che ci avevano attaccati, perché non vedeva differenza fra due schieramenti che non conosceva e i cui componenti erano quasi tutti morti. All’epoca non sapeva nulla, non era in grado di dire chi fosse nella ragione e chi nel torto, e forse era troppo disgustato da concetti come “ragione” e “torto” per curarsene davvero.
Io, al contrario, sono cresciuto sapendo bene chi sono i buoni e chi sono i malvagi, cosa meritano i difensori e cosa gli invasori, e fui lieto di lasciarmi alle spalle i cadaveri maleodoranti degli orchi; che i vermi se li prendessero pure.
Lui era un altro discorso. Volevo dargli una degna sepoltura, come prevedeva la comune decenza e come prevedevano le nostre tradizioni funebri, soprattutto per quanto riguarda i Ruathar.
Qualcuno ebbe il coraggio di opporsi. Elfi delle propaggini occidentali della Penisola, esponenti di clan isolati e isolazionisti, guardarono con sospetto quello che stavo facendo e qualcuno osò perfino aprire bocca. Glie l’avrei chiusa con un pugno se non li avessero zittiti subito i miei parenti, il clan con cui avevamo passato molte liete settimane negli ultimi anni. Altri elfi di clan vicini al nostro difesero il mio diritto di seppellire il mio amico insieme ai nostri morti. Alcuni di loro mi aiutarono nel mio compito.
Prima di ricoprire la fossa, appoggiai una ghianda sul corpo del mio amico, come voleva la tradizione, e quando la fossa fu ricoperta infissi la sua grande spada nel terreno.
Fu questione di attimi: un virgulto di quercia spuntò timidamente dal terreno e si eresse nei suoi pochi pollici di altezza accanto alla spada, bevendo la luce del sole. Quel piccolo miracolo mi dava ragione, e rendeva giustizia al cuore del mio amico: solo la tomba di un vero Ruathar avrebbe fatto crescere una quercia protettrice. Dopo questo, nessuno mosse più alcuna obiezione.

Il giorno successivo ci dedicammo a liberare i boschi e le strade dalla sgradevole presenza dei cadaveri di orchi. Era ormai calata la sera, ero andato al ruscello a lavarmi di dosso la polvere e lo schifo, e decisi di portare un po’ d’acqua alla quercia per innaffiarla. Forse non ce n’era bisogno, si dice che questi alberi siano magici, ma volevo fare qualcosa, un gesto di gentilezza o di cura verso quello che mi restava del mio amico. Trovai la spada piantata nel terreno, ma il giovane virgulto che il giorno prima era alto meno di una spanna, oggi era già alto quasi quanto me. Il tronco era sottile e giovane, ma forte e rigoglioso. Stavo per commuovermi e volevo dire qualcosa di significativo, lo volevo davvero, qualcosa che fosse poetico e solenne, ma una voce alle mie spalle mi batté sul tempo:

“Ecco cosa resta di un’intera vita: un albero. Una cosa su cui i cani potranno pisciare.”

Dette da chiunque altro, quelle parole mi avrebbero fatto indignare, ma conoscevo quella voce. Al diavolo, solo lui avrebbe potuto dire una cosa del genere.
Tremante per l’emozione, timoroso di quello che avrei potuto trovare, mi voltai.
Lui era lì.
Ed era un fantasma.
E io ero un ranger educato a rispettare la natura e a combattere le cose innaturali, ma all’improvviso non me ne importava niente.

Lasciammo il clan quella notte stessa, diretti a sud, verso i confini meridionali della foresta.
“Come hai fatto?” gli chiesi ad un certo punto, rompendo il silenzio. “Ho visto in che stato era il tuo corpo, quindi... come hai fatto?”
“Cosa, a riapparire in perfetta forma? Ho imparato a controllare il mio aspetto prima di mostrarmi a te.”
“No, intendo, a combattere. Da una breve analisi mi sembrava che fossi troppo malmesso, forse morente, ma non ti sei fermato fino a quando non si sono fermati loro.”
Si passò una mano dietro alla testa, a disagio. “Non l’ho fatto io.”
Lo guardai senza capire. Poi, lentamente, ci arrivai. “Lei ti ha posseduto?”
“Io glie l’ho chiesto.”
“Ma mi hai sempre detto che è molto pericoloso, che se non metti fine alla cosa entro breve tempo tutta la tua energia vitale viene consumata e...”
“E cosa? Cosa poteva farmi una possessione che un’orda di orchi non potesse fare? Sarei morto comunque, ne ho portati nella tomba qualche decina e poi ho visto che non avevo altra scelta se non chiedere a lei di usare il mio corpo come un burattino e finire il lavoro.”
Sospirai. Non mi piaceva, ma non potevo confutare quella logica. Poi lasciai che un sorriso si allargasse sul mio volto. Avevo di nuovo il mio insopportabile amico, non c’era motivo per covare rimpianti.
“E quindi, quanti ne hai uccisi?”
“Ma di cosa parli?”
“Andiamo, non ci credo che tu non li abbia contati. Quanti?”
“Oh, per favore! È una cosa così infantile!”
“Quindi li hai contati.”
“Falla finita!”

In lontananza cominciava a intravedersi il riflesso della luna sul mare. Mancavano ancora alcuni giorni di marcia ai confini della foresta e solo la nostra posizione sopraelevata ci permetteva di vedere già la nostra meta, ma entrambi sapevamo di avere ancora molta strada davanti a noi.

   
 
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