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Autore: mirkovilla7    12/09/2017    0 recensioni
Dal PROLOGO: "La Sala del Consiglio cadde in un silenzio cupo creato dalle ultime parole del Governatore Barber.
La stanza era grande e per la maggior parte vuota. Sulle pareti grigie l’unica decorazione consisteva nei quadri raffiguranti i Governatori successi prima di quello attuale. Su un lato una porta di vetro scorrevole con di guardia due uomini lasciava intravedere un lungo corridoio che terminava con una porta identica. Tre sedie completavano l’arredamento con un tavolo ovale posto al centro della Sala. Sulle sedie, con aria stanca di chi discuteva da ore, c’erano due uomini ed una donna."
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il dondolio dei movimenti e il continuo sbattere del mio stomaco contro la
spalla del mio trasportatore mi fecero quasi vomitare la cena a base di mele
della sera precedente.
«Lasciami and…» provai a urlargli, ma ricevetti solamente un colpo in faccia.
Non riuscivo nemmeno a capire dove stessimo andando, in quanto la posizione
distesa sulla spalla di una persona ed il conseguente dondolio non ti
permettono di capire le svolte effettuate.
Sentivo gli urli di Sam come se venissero da un altro pianeta e mi chiesi come
fossero messi lui e Joanna. Ripensai a lei.
Mi era piaciuto ascoltarla mentre raccontava del suo passato. Mi aveva fatto
sentire parte di lei.
Avevo il sospetto che non fossero tante le persone con le quali si fosse aperta
così tanto, forse nessuna a parte me.
Avevo anche un altro sospetto che riguardava me stesso, ma mi dissi che non
fosse il caso di pensarci in quel momento.
Avevo altro a cui pensare.
Per esempio, sospettai che il mio trasportatore non sarebbe stato troppo
contento di avere il mio vomito di mela sulla spalla.
Passò un’altra buona mezz’ora prima che ci fermammo. Venni sbattuto per
terra e, poi, trascinato fino a quello che supposi fosse un albero. Sentii che mi
legavano le braccia e, di seguito, mi tolsero il cappuccio che avevo in testa.
Mi trovai davanti un uomo di una decina di anni più grande di me, di
carnagione mulatta e con delle braccia possenti.
Indossava solamente uno straccio che copriva a malapena il sedere e il davanti
e mostrava troppo per i miei gusti.
Il suo corpo era pieno di tatuaggi di un colore azzurro che risaltava di una bella
sfumatura sulla carnagione più scura rispetto alla mia.
Dopo pochi minuti arrivò un uomo simile al primo con Joanna su una spalla e la
legò al mio stesso albero, così vicini che sarei riuscito a toccarle la spalla con la
mia. Sentii il suo respiro affannoso.
«Joanna…» cercai di dirle, ma venni fermato nuovamente dal mio trasportatore
con un colpo in faccia. «Stai zitto o ti faccio fuori» mi disse.
Dopo quell’episodio aspettammo.
Aspettammo per quelle che parvero ore mentre una serie di passi risuonavano
alle mie spalle, dietro l’albero.
Supposi che dietro stesse succedendo qualcosa di importante a sentire i
rumori, ma mi avevano escluso la vista da ciò che accadeva nel momento in
cui mi avevano legato rivolto verso il bosco.
Passarono i minuti in una quiete che mi parve anormale, considerando il
disastro degli ultimi due giorni.
Fino a meno di una settimana prima mi ritrovavo in un’altra quiete, quella della
mia cella dove nessuno mi disturbava e il mondo mi aveva dimenticato.
Adesso mi ritrovavo nella quiete di un destino che nemmeno conoscevo.
Condannato a vagare nel Mondo di Sotto per conto di persone che mi avevano
segregato in una cella di isolamento per anni e anni.
Dopo un sacco di tempo, tanto che il sole era alto in cielo e il mio stomaco
brontolava più del dovuto per la fame, vennero a prenderci.
Feci un disperato tentativo di liberarmi, ma servì solamente a prendermi un
altro colpo allo stomaco. Se l’avessi preso prima avrei vomitato la cena, ma il
mio stomaco, ormai, era vuoto.
Questa volta mi legarono le mani e mi dissero «Cammini da solo» prima di
farmi alzare con la forza. Sentii che altri uomini discutevano su chi avesse
dovuto trascinare Joanna, in quanto svenuta.
Appena mi girai, notai il villaggio.
Non era difficile da notare, considerando che vedevo capanne davanti a me e
sia a destra che a sinistra.
Mi balzò all’occhio subito il fatto che non ci fossero recinzioni a delimitare il
luogo, perciò intuii che non dovessero subire attacchi di nessun genere da
anni.
Un secondo sguardo, un po’ più accurato, mi fece capire dove mi stavano
portando: un edificio di gran lunga più grande delle capanne.
Il colore grigio anonimo si distingueva nettamente dal marrone scuro del legno
utilizzato per le capanne.
Un uomo alto e di corporatura robusta, con un copricapo sgargiante di color
giallo e verde in testa e con un gonnellino un po’ meno svolazzante
dell’indumento indossato dall’uomo che mi aveva trasportato fino a qui, ci
attendeva all’ingresso dell’edificio grigio.
Quando arrivammo ci fece cenno di entrare.
Dopo aver varcato la soglia mi ritrovai in una stanza molto simile ad una sala
di attesa di un ospedale.
Sulla sinistra vi era un’altra stanza delimitata da un vetro sporco. Su un
cartello nero al muro si intravedeva una scritta “RECEPTION” con le lettere (un
tempo probabilmente bianche, ma adesso sporche) su uno sfondo nero.
Alla mia destra vi era una sala con delle sedie ammucchiate in un angolo.
Di fronte a me un corridoio che iniziammo a percorrere.
Prendemmo la seconda porta del corridoio e mi rassicurò il fatto che, rispetto
alla stanza dietro la prima porta aperta, in questa non vi erano armi di nessun
tipo.
Mi fecero sedere su un lettino medico, mentre Joanna venne distesa su un
altro.
Una donna, piena di tatuaggi azzurri, entrò.
«Devo curarti» esordì.
Capii che era inutile opporre resistenza, perciò le feci cenno di procedere.
Mi curò i tagli e le contusioni poco gravi, poi il taglio in faccia e, infine, iniziò a
lavorare sulla gamba.
Trattenni un urlo al dolore lancinante che mi penetrò ma resistetti. Dopo un
attimo la gamba diventò insensibile.
Continuò a lavorare sulla mia gamba per una buona mezz’ora, poi mi mise una
fasciatura stretta.
«Dovrai tenere la fasciatura e non sforzare troppo la gamba per qualche
giorno. Se avessi la vecchia tecnologia ce la caveremmo con un gesso e una
settimana.» mi disse.
Si alzò e chiese a una delle persone che ci avevano scortato di andare a
prendere le stampelle. Dopodiché, andò verso Joanna e si mise a curare lei.
Al termine delle cure ricevute la fece rinvenire e, dopo un breve stordimento
iniziale, la fece alzare a sedere.
Supposi che Joanna avesse capito di restare tranquilla perché non fece nessun
gesto violento nei confronti del medico.
«Aspettate un attimo qui» ci disse la donna, poi uscì insieme alla nostra scorta
e chiuse a chiave la porta.
Feci per alzarmi dal lettino ed andare verso Joanna ma non feci in tempo ad
alzarmi che il medico rientrò, accompagnata dall’uomo con il copricapo in
testa.
«Quando la tua gamba guarisce ve ne andate da qui» esordì l’uomo.
Mi stupì questo suo inizio, in quanto l’accoglienza delle altre persone mi aveva
fatto credere in un altro atteggiamento di questo gruppo.
«Chi siete e perché siete qui?» proseguì l’uomo, rivolto a me.
Ci misi un attimo a rispondere, in quanto nemmeno io sapevo cosa dire
esattamente. Sarebbe risultato credibile se gli avessi detto che venivamo dal
mondo di sopra ed eravamo stati paracadutati lì sotto contro la nostra volontà?
L’uomo aspettò la mia risposta, ma non per lungo, poi proseguì da solo: «Io
sono Clyde Brady, il capo della tribù Ridash.»
Pensai fosse meglio dire la verità: «Io sono Patrick Harper, lei è Johanna
Mason, mentre il ragazzo che era con noi è Sam Reyes. Siamo stati spediti qui
contro la nostra volontà da…»
Mi bloccai vedendo la mano dell’uomo alzarsi in segno di STOP.
«Stai dicendo la verità» mi disse, «Verrete ospitati nel nostro villaggio fino a
quando la tua gamba guarisce e lavorerete per guadagnarvi da vivere. Quando
sarà il momento, ve ne andrete e non farete più ritorno né in questo villaggio,
né in tutti gli altri villaggi della tribù Ridash, altrimenti vi uccideremo.»
La mia risposta suonò stupita: «Quanti villaggi avete e quanti siete nella vostra
tribù?»
«Abbiamo 17 villaggi e un totale di circa 5000 unità. Eravamo più di 7000
prima che il vostro popolo non venisse a combatterci.»
Si alzò e se ne andò. Alzai lo sguardo su Johanna e la vidi visibilmente stupita
e scossa dalle informazioni appena udite mentre guardava nel vuoto.
Dopo alcuni istanti, entrò la donna che mi aveva curato la spalla con un paio di
stampelle in mano e me le porse: «Vi accompagniamo alla vostra capanna,
domani mattina discuteremo sui vostri incarichi»
Annuimmo e si girò, senza aspettare che la seguissimo.
Non mi erfa mai capitatao di camminare con un paio di stampelle, perciò ci
misi un attimo per capire come fare per bilanciare in maniera corretta il peso.
Mi ritenni fortunato che almeno l’altra gamba era apposto e mi permetteva un
appoggio mentre imparavo ad usare i supporti.
Venimmo accompagnati fuori dall’edificio e, poi, fino ad un sentiero laterale che
si scorgeva tra due capanne sulla destra, circa a metà del villaggio.
Percorremmo il sentiero che continuava in una piccola discesa ghiaiosa fino a
raggiungere un set di capanne disposte a cerchio. Al centro, un pozzo di pietra
faceva da vertice per il cerchio di capanne, che in totale erano 15. Sopra al
tettuccio del pozzo, una piccola statua di un uomo con un arco puntava la sua
arma verso una capanna ornata in maniera un po’ più appariscente, con degli
stendardi blu ai lati della porta di legno.
Da qui, uscì una donna prosperosa, vestita con un gonnellino ed un reggiseno
blu e si diresse verso di noi.
«Io sono Laurine, del villaggio Militridash, della tribù dei Ridash. Voi abiterete
in quella capanna» e indicò la capanna più fatiscente delle 15, poi continuò:
«Appena ristabilito completamente il vostro amico vi raggiungerà. Da domani
lavorerete per me, adesso riposatevi.»
Se ne andò e noi venimmo scortati davanti alla nostra capanna, dove la nostra
scorta ci lasciò e tutti tornarono alle loro mansioni.
Entrammo e ci ritrovammo di fronte ad una capanna poco più grande di una
stanza di un motel scadente, con un piccolo letto matrimoniale e un letto
singolo sul quale qualsiasi adolescente medio non riuscirebbe a star sdraiato
disteso.
«Tu dormi per terra» mi disse Johanna, accennando un mezzo sorriso.
Dopotutto, non sembrava così male avere di nuovo un tetto sulla testa, per
quanto fosse fortuito.



Venni messo a tagliare la legna, in quanto impossibilitato ai movimenti.
Johanna venne aggiunta ad un gruppo che andava a lavare i vestiti degli
abitanti del villaggio. La gente del villaggio, tuttavia, non ci amava molto. Tanti
ci squadravano da capo a piedi quando ci incrociavano. La peggiore di tutti era
Laurine, che ci parlava solamente per darci ordini. Ai pasti dovevamo mangiare
da soli per il pranzo, in quanto Johanna restava al fiume fino a sera, e insieme,
ma sempre in disparte dal resto del gruppo, a cena.
Sam si aggregò a noi al quarto giorno, visibilmente dolorante e con l’ordine di
restare a letto almeno per una settimana.
La nostra permanenza lì, perciò, venne prolungata fino a quando Sam non si
fosse ripreso del tutto.
La mia gamba si rimise in moto prima che Sam riuscisse ad alzarsi
completamente dal letto.
Insieme a Johanna, imparai anche a combattere con spade, lance, coltelli e
persino a tirare con l’arco, anche se in questo campo la mia compagna era di
gran lunga peggiore di me.
Qualche abitante iniziò a starci simpatico, tanto che iniziammo a mangiare con
l’intero gruppo del villaggio e ci vennero raccontate storie su vari attacchi del
Mondo di Sopra al villaggio che ci fecero capire il motivo di tanta diffidenza nei
nostri confronti.
Ci raccontarono delle loro battaglie e delle loro perdite e di come avevano
sconfitto gli eserciti di New Town sfruttando il territorio nel quale erano nati e
cresciuti.
Ci insegnarono persino a sopravvivere nella foresta, per quando saremmo
dovuti andare via.
Fu proprio quando ci stavamo abituando alla nostra nuova vita che, una sera,
ci annunciarono che avremmo dovuto partire il giorno seguente.
Venne direttamente Laurine ad avvisarci, donandoci armi e provviste e
ringraziandoci in maniera palesemente forzata dell’aiuto che avevamo dato al
villaggio.
Quella sera venne indetta una festa in nostro onore da parte degli abitanti del
villagguio e alla quale Laurine non partecipò.
A notte fonda, quando fummo svegli solo noi tre, riuscimmo a parlare dei
nostri progetti per i giorni seguenti.
«Torniamo su e ammazziamoli tutti» fu la proposta di Johanna.
«Io dico di costruirci un villaggio nostro e vivere da soli fino alla fine dei nostri
giorni» propose Sam.
La realtà era che, nonostante le battute, nessuno aveva la più pallida idea di
come andare avanti.
Tuttavia, dovetti ammettere che l’idea di Johanna attirava anche me, in quanto
anche io ero una vittima del nostro ex Governo.
Con questi pensieri per la testa, e con la promessa che ne avremmo parlato il
giorno seguente a mente lucida, ci addormentammo.

  
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