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Autore: Civaghina    12/09/2017    3 recensioni
Com'era la vita di Leo, prima della terribile scoperta della Bestia?
Com'è cambiata la sua vita quando si è trovato davanti ad una verità così devastante?
La storia di Leo prima di Braccialetti Rossi, ma anche durante e dopo: gioie, dolori, amori, amicizie, passioni, raccontate per lo più in prima persona, sotto forma di diario.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leo, Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Lunedì, 20 agosto 2012

Forse avrei dovuto ascoltare la Lisandri e farmi dare quel cavolo di calmante: non riesco a dormire, la mano mi pulsa e mi fa male, la gamba ha ripreso a darmi fastidio come non faceva da prima della chemio (come se sapesse cosa l'aspetta più tardi), e a forza di piangere mi è pure venuto un mal di testa insopportabile.

Mi avvicino alla finestra aperta e respiro l'aria fresca della notte, sperando di riuscire a rilassarmi un po', ma è inutile: mi sento prigioniero di una situazione che non avrei mai voluto, senza via d'uscita, incastrato.

E, di fatto, non è che mi ci senta e basta, così: lo sono.

Ho libertà di scelta, forse?!

Posso andarmene da questo cazzo di posto?!

Posso smettere di curarmi?!

Posso evitare di farmi aprire la gamba in due?!

No.

Nicola dice che c'è sempre un margine di scelta, sempre; e un mese e mezzo fa ci avevo quasi creduto a questa cosa, ma adesso non lo so più.

Che margine ho, a parte mandare tutto al diavolo?!

Nessuno.

E arrendermi non è un'alternativa.


Non ce la faccio a restare ancora in questa stanza: non sono nemmeno le 3 e mezza e l'alba è lontanissima.

Esco in corridoio, sperando di non essere intercettato, ma Laura mi becca praticamente subito: "Leo! Cosa fai in giro a quest'ora?!"

"Ho bisogno di fare un giro."

"Dovresti essere a letto a dormire. Domattina..."

"Lo so. Tra sei ore, a dire il vero."

"Non riesci proprio a dormire, eh?" mi domanda con tono dolce; dev'essersi accorta dei miei occhi rossi e della mia voce nasale, perché mi guarda con una tenerezza che sfiora la compassione.

"No..."

"Vuoi qualcosa per dormire?"

"No, voglio andarmene sul terrazzo a prendere una boccata d'aria."

"Tu scherzi?! È notte fonda e..."

"E tra poche ore mi operano. E adesso ho bisogno di rilassarmi. Ti prego!".

Laura sospira e mi rivolge di nuovo lo sguardo compassionevole di prima: "Dieci minuti" mi concede mentre a me sfugge un sorriso.

"Grazie, Lauretta!"

"Dieci minuti" ripete lei. "E se non ti vedo tornare, giuro che chiamo la sicurezza!" aggiunge mentre io ho già quasi svoltato il corridoio.


Mi piace il terrazzo di notte.

Mi piace anche di giorno, è vero, ma di notte ha un altro fascino; mi avvicino al muretto e guardo le luci della città, lontana e irraggiungibile; mi siedo, lasciando vagare il mio sguardo e i miei pensieri, ma non ne viene fuori nulla di buono: se già ieri ero di pessimo umore, oggi va ancora peggio.

Prendo in mano il cellulare e scorro la rubrica; vorrei parlare con qualcuno... Giulia, o Asia, o anche Mattia, nonostante io l'abbia tenuto fuori da questa faccenda; sto per chiamare Giulia ma ci ripenso quasi subito: a quest'ora della notte la farei solo preoccupare inutilmente.

L'unica persona che chiamerei senza paura di disturbare sarebbe mamma; ma se mamma fosse ancora viva non avrei nemmeno bisogno di chiamarla, perché lei sarebbe già qui, a dormire nel letto accanto al mio; o probabilmente nessuno di noi due riuscirebbe a dormire, in una notte come questa, e adesso ce ne staremmo qua a guardare la città lontana insieme, lei col suo decaffeinato ed io con il mio succo di mela; o forse, stavolta, mi lascerebbe prendere la Coca senza brontolare sul fatto che è piena di schifezze e che, a detta sua, mi mette agitazione: sì, stanotte credo che me la lascerebbe bere senza dire niente. Come non detto..., stanotte mi è vietato persino bere e quindi dovrei fare a meno sia del succo, sia della Coca e lei probabilmente, per non farmelo pesare, rinuncerebbe al suo caffè.


Mi alzo e vado alla ricerca di un pallone; ne trovo un paio sotto il gazebo e li tocco entrambi per capire quale sia il meno sgonfio, poi comincio a lanciare a canestro; non è che il basket proprio mi entusiasmi, ma il pensiero di quanto tempo dovrò starmene buono e fermo, mi fa venire voglia di giocare e la mia testardaggine fa il resto: lancio e rilancio finché non vado a segno.

Dieci minuti sono passati da un bel pezzo ormai e, come previsto, Laura non ha mandato nessuno a cercarmi.

Dopo più di un'ora sono ancora qua e finalmente il sonno e la stanchezza cominciano a farsi sentire; mi decido ad andarmene a letto, sperando di riuscire a dormire alla svelta; nonostante mi senta distrutto, però, ci metto un po' ad addormentarmi e, quando finalmente crollo, sta quasi per albeggiare.


Mi sveglio pochissime ore dopo, sentendo dei rumori nella stanza; apro appena gli occhi e vedo Ester che sta tirando su le veneziane delle finestre.

È già ora?” mormoro sbadigliando.

Sì, sono le otto e mezza” mi risponde lei passandomi il termometro.

Tra un'ora sarò in sala operatoria.

Non sono pronto.

Metto il termometro e mi tiro su a sedere, appoggiando la schiena contro la spalliera del letto, tenendo gli occhi chiusi.

Sei stanco?” mi domanda Ester. “So che hai fatto le ore piccole...”

Tanto tra un po' mi riaddormentano” rispondo io stringendomi nelle spalle, senza aprire gli occhi.

Niente febbre.

Anche stavolta non si scappa.

Ester mi depila la gamba, poi faccio la doccia e indosso il camice; almeno a 'sto giro mi risparmio la cuffia, dato che non ho capelli da coprire.

Quando arriva Orietta, ci sono già mio padre, Asia e Giulia, che stavolta è riuscita ad arrivare in tempo; tra lei e mio padre non so chi sia il più spaesato nel trovarsi qui in questo momento, so solo che non fanno che accrescere la mia ansia che già di suo è intollerabile.

Aspetto fuori” mi dice Giulia quando Orietta mi lega al braccio il laccio emostatico.

Io annuisco accennando un sorriso e la seguo con lo sguardo mentre esce dalla stanza, per poi raggiungerla in corridoio non appena Orietta ha finito di farmi la puntura del coraggio e mi ha messo al polso il mio secondo braccialetto rosso.

Giulia è di spalle e non mi sente arrivare; “Ehi...” la chiamo facendola sussultare; dev'essere parecchio nervosa: si sta anche mordicchiando le unghie.

Oh! Hai già fatto?!” mi domanda sorpresa.

Era solo un'iniezione, che ti aspettavi, che durasse sei ore?!” esclamo facendo un sorriso sarcastico.

Questa te la potevi risparmiare!” ribatte lei incrociando le braccia.

Sì, forse me la potevo risparmiare, dato che l'operazione durerà davvero sei ore, più il resto.

Come farà lei a tollerarlo?

Senti...” le dico prendendo tra le dita una ciocca dei suoi capelli. “Sei proprio sicura di voler restare qua per tutto il tempo?”

Ne abbiamo già parlato di questa cosa, o sbaglio?!”

Sì, ne abbiamo già parlato.”

E allora perché devi insistere sempre sulle stesse cose?!”

Perché... non sarò un bello spettacolo!” esclamo gesticolando.

Guarda che ti ho già visto dopo un intervento, te lo sei dimenticato?!”

Stavolta è diverso.”

Non per me.”

Come fai a dirlo?! Cazzo Giulia, sei uscita perché ti impressionava una puntura! Come pensi di reggere là dentro con me immobilizzato a letto e con tubi da tutte le parti?!”

Ma devi sempre drammatizzare, tu?! Ti ho già visto con la flebo, lo posso sopportare!”

Io dico di no! Hai mai visto dei drenaggi?!”

Oh, adesso basta! Ti ho detto che resto ed io resto!”.

Io sospiro e mi passo una mano sulla testa: “Guarda che io lo dico per te”; e pure un po' per me, a dire il vero: non mi piace l'idea che lei mi veda in quelle condizioni.

Grazie, ma so decidere per conto mio.”

Cazzo, quanto sei testarda!”

Non più di te” dice lei con un sorrisetto soddisfatto. “E poi lo so che ti piace, la mia testardaggine! Anzi... come dici tu: ti manda ai matti!”

Sì, ma mi ci mandi davvero ai matti! Tra te e tutto il resto finiranno col trasferirmi in psichiatria!” sbuffo mentre Giulia ride e poi mi bacia sulle labbra.


Sei nervoso, Leo?” mi chiede il dottor Abele in sala operatoria mentre un'infermiera mi attacca a tutti i vari macchinari.

No no...” rispondo scuotendo la testa, impossibilitato dallo sfregarmi l'occhio con l'infermiera che mi gira intorno.

Dire che sono nervoso è riduttivo.

Alquanto riduttivo.

Credo che la puntura del coraggio fosse difettosa.

O che il mio cervello sia troppo lucido e stavolta non si sia fatto fregare.

Vorrei solo essere da un'altra parte.

Ti preoccupa la durata dell'intervento?”

No, quello no... tanto mi farò un bel trip, no? Spero solo di svegliarmi!” esclamo ridacchiando nervosamente.

Fai così... pensa a un momento bello. Un ricordo... oppure una fantasia piacevole. Poi dividilo in due e mentre ti addormenti pensa solo alla prima parte, tenendo la seconda per quando ti risvegli. Vedrai che senza accorgertene ti ritroverai in sala risveglio a pensare al tuo bel momento”.

Non è che la sua idea non mi convinca, è che io è proprio del risveglio che ho più paura; sì, non mi piace nemmeno l'idea di starmene su questo tavolo per tutte quelle ore mentre mi squartano una gamba ma il pensiero di come mi sentirò al mio risveglio, e di tutto quello che succederà dopo, è ancora peggio.

Provo comunque a dargli retta e cerco di pensare a un bel momento da dividere in due mentre un infermiere mi attacca la flebo e Orietta prepara l'anestesia; le prime immagini che mi vengono in mente riguardano tutte Giulia ma le scarto subito perché non c'è dubbio che mi farebbero eccitare e con questo camice si vedrebbe praticamente tutto. Torno allora indietro con la memoria, a prima, a prima di ammalarmi, a prima che mamma non ci fosse più e all'improvviso il mio momento affiora, nitido e chiaro: è la vigilia di Natale e io e mamma stiamo preparando insieme la cena.


Asia guarda il proprio orologio da polso per l'ennesima volta: sono passate quasi tre ore, ormai, da quando Leo li ha salutati con un sorriso, sollevando in aria la mano, prima di scomparire dietro l'inquietante porta del Blocco Operatorio; l'ha sempre inquietata quella porta inaccessibile, sempre, fin dalla prima volta che si è ritrovata in questa sala d'attesa ad aspettare sua madre: quella porta l'ha sempre fatta sentire esclusa, tagliata fuori, ed è una sensazione che detesta.

Circa un'ora fa, uno dei chirurghi è uscito da quella porta per venire a parlare con lei e suo padre, per dire loro che Leo è stabile e che l'intervento sta procedendo senza complicazioni, anche se ci vorrà più del tempo del previsto perché si sono accorti che il tumore, oltre all'osso, ha intaccato pure una parte del muscolo e che quindi devono rimuovere e ricostruire pure quello.

Il cuore di Asia ha mancato un battito; non dovrebbero permettersi di annunciare che non ci sono complicazioni e poi dire che l'intervento durerà più a lungo del previsto e che dovranno togliergli pure un pezzo di muscolo.

Non è una complicazione, questa?

Come diavolo si chiama, se non complicazione?!

Suo padre ha ascoltato in silenzio, continuando a rigirarsi la fede al dito e poi ha annuito, senza fare domande, ma lei ha dovuto farla, quella domanda che le è immediatamente balenata in testa, perché sa che è la domanda che balenerà in testa immediatamente anche a Leo e lei ha bisogno di sapere quella risposta prima di lui: “Ma questo comprometterà la mobilità della gamba?”.

Il chirurgo ha scosso la testa e con tono rassicurante le ha risposto che no, la mobilità della gamba non risulterà compromessa perché il muscolo rimanente compenserà quello mancante e con la dovuta riabilitazione tutto tornerà a funzionare come prima; le ha perfino sorriso prima di scomparire di nuovo dietro l'inquietante porta.

Asia ha tirato un sospiro di sollievo ed è tornata a sedersi, cercando di riprendere a studiare quella maledetta Statistica II che per due volte non è riuscita a passare; non è da lei non passare un esame, non è da lei doverlo rifare tre volte, ma tra la morte della mamma e quello che è successo a Leo, la sessione estiva degli esami non è stata propriamente brillante; e adesso si illude di riuscire a capirci qualcosa, ma da tre ore è ancora ferma sulla stessa pagina e in testa ha solo della gran confusione.

Suo padre è sprofondato nella lettura di un quotidiano, ma anche lui non volta pagina da un po'; Giulia era anche lei lì con loro, fino a poco prima che arrivasse il chirurgo: si era seduta in disparte e si alternava tra il mordicchiarsi le unghie e lo scrivere compulsivamente al cellulare, probabilmente messaggiando con qualcuno; a un certo punto si era avvicinata a lei e le aveva detto che andava a fare due passi all'aperto e che sarebbe tornata dopo.

Forse due passi all'aperto farebbero bene anche a lei, ma non vuole lasciare da solo suo padre; potrebbe proporgli di accompagnarla, è vero, ma dubita che lui accetterebbe; o forse sì. Ad essere onesta con se stessa, lei due passi non vuole andare a farli; di sicuro le farebbero bene ma l'idea di allontanarsi da questa sala d'aspetto è inconcepibile; anche con la mamma non è mai riuscita ad andarsene. Forse è scaramanzia, ma stare qui la fa sentire più tranquilla: è come se, con lei a tenere d'occhio quella maledetta porta, Leo sia più al sicuro; come se da qui lei possa proteggerlo.

Lui la prenderebbe in giro, per questi pensieri, se solo lo sapesse; e le direbbe che lui è il re Leone e non ha affatto bisogno di essere protetto da nessuno.

Come vorrebbe, Asia, che fosse davvero così e che lui fosse inattaccabile.

Invincibile.

Eppure lui stesso, delle volte, cede. Sì, solo per poco, ma già questo basta a spiazzarla.

Non so se ce la faccio.”

Cosa dici? Certo che ce la fai.”

Lo pensavi anche della mamma”.

Quella conversazione, avvenuta un mese prima, le rimbomba ancora nelle orecchie.

La verità è che, ormai da un po', lei aveva smesso di pensare che la mamma ce l'avrebbe fatta; la verità è che, ormai da un po', si era resa conto che la donna forte e risoluta che tanto amava si stava spegnendo a poco a poco.

Era successo il 22 aprile, il giorno del suo ventunesimo compleanno: dopo aver pranzato tutti e quattro nel suo ristorante preferito, sul lungomare, avevano fatto un giro tra le bancarelle; Leo aveva brontolato un po', perché è una cosa che lo annoia tantissimo, ma visto che era il suo compleanno l'aveva accontentata senza fare troppe storie e l'aveva accompagnata a curiosare tra le bancarelle mentre la mamma si sedeva ad aspettarli su una panchina e il papà le faceva compagnia. La mamma non si era mai persa un giro tra le bancarelle.

Mai.

Quando erano ritornati alla panchina, la mamma li aveva accolti con un sorriso e si era entusiasmata al racconto di Leo su quel tizio da cui lei aveva comprato un paio di orecchini pendenti con una goccia azzurra sul finale (che Leo aveva poi finito col pagare al posto suo, per farsi perdonare il fatto di non aver pensato prima a prenderle un regalo per il compleanno) e Leo aveva preso un fermacapelli di legno per Giulia e per sé un braccialetto di cuoio, con al centro un tao inciso nell'osso; il proprietario della bancarella era un uomo di mezza età, di etnia visibilmente indio-americana che si faceva chiamare Watanka; aveva raccontato loro tutta una storia che lei, contrariamente a Leo che lo ascoltava affascinato, aveva faticato a seguire per intero e che finiva con una specie di motto che adesso non si ricordava bene, qualcosa con sia detto o sia scritto.

Dopo erano andati a fare un giro in campagna, nella masseria del nonno, e lì la mamma aveva ripreso apparentemente vigore e aveva cominciato a scattare innumerevoli fotografie a tutti loro; eppure lei, in quel gesto, aveva colto un altro dei segnali della fine: era da un po' che era ormai troppo debole per dedicarsi con la sua solita passione alla fotografia, ma quel giorno sembrava non voler smettere mai, ed Asia si era ritrovata a pensare che fosse il suo modo per rendere indimenticabile quella giornata: l'ultimo momento veramente felice della loro famiglia unita.

Leo e il papà non sembravano essersi accorti di nulla e Asia aveva deliberatamente tenuto per sé quel presentimento, che poi si era rivelato fondato, e fino alla fine aveva ostentato ottimismo e fiducia nella capacità di ripresa della mamma, perché sapeva che era di questo che la sua famiglia aveva bisogno; il suo timore, se l'era tenuto solo per sé: nemmeno con le sue amiche ne aveva parlato.

E adesso, ritrovarsi di nuovo in questa stessa sala d'attesa, ma per il suo fratellone, le sembra assurdo e impossibile.

Anch'io potrei morire. Ci pensi mai?”.

No. Come ha risposto a lui quel giorno, non ci pensa mai; è un pensiero che assolutamente non può prendere forma nella sua testa.

Vado a prenderti un caffè?”; la voce di suo padre la riscuote e lei si sforza di sorridergli mentre si volta a guardarlo.

No papà, grazie. Ne ho già presi due stamattina e non sono riuscita a mangiare niente. Se ne prendo un altro finisce che mi brucia lo stomaco.”

Vai a mangiare qualcosa allora, è quasi l'una”.

Asia scuote la testa. “Non riuscirei a mangiare, adesso.”

Nemmeno se ti porto qualcosa qui?”

Nemmeno. Vai a mangiare tu.”

Pensi di fermarti a dormire qui, stanotte?” le domanda suo padre alzandosi.

Sì, certo.”

Lo sai che tuo fratello non sarà d'accordo.”

Lo so.”

Lo farai arrabbiare.”

Se ne farà una ragione. Tanto non potrà sbattermi fuori a calci, no?”; Asia ride e suo padre accenna un sorriso; una battuta così sarebbe degna di Leo.

No, almeno per stasera non potrà. Domani però potrebbe essere già in grado di farlo.”

Sì” sorride Asia. “Lui è sorprendente”.


Quattro ore.

Il tempo sembra non passare mai.

Sembra essersi fermato, come lei, alla pagina 55 del libro di Statistica.

Sperava che qualcuno aprisse di nuovo quella porta e arrivasse per darle notizie, ma niente.

Tutto tace.

Torna suo padre, e ha tra le mani un panino e una bottiglietta d'acqua frizzante ghiacciata.

Papà, ti avevo detto di no...” protesta Asia quando lui glieli porge.

Avrai bisogno di energie per discutere con Leo, fidati” ribatte mentre Asia si arrende, chiude il libro e li afferra. “Dai, è pure il tuo preferito!”

Grazie” dice lei prima di dare un morso al panino; salame piccante, rucola e maionese: è il preferito di Leo, non il suo, e tanto per cambiare suo padre ha fatto confusione tra i loro gusti, ma

stavolta preferisce evitare di prenderlo in giro e non glielo fa notare.

Grazie a te” risponde lui con la voce che trema impercettibilmente. “Per tutto quello che fai..., per me... e soprattutto per Leo.”

Non mi devi ringraziare. Io lo faccio volentieri, mi viene naturale.”

Vorrei tanto che venisse naturale anche a me...” sospira lui abbassando lo sguardo. “Io invece non ce la faccio. Ogni volta che vengo in questo posto mi sento soffocare, mi prende il panico e... non faccio che pensare alla mamma, a quanto è stata male qua dentro, a come...”; deve fermarsi: ha gli occhi lucidi e le mani che tremano e Asia ne prende una e la stringe.

Lo so, papà. Io ti capisco. Davvero.”

Ma Leo no. Dice che sono un vigliacco, e ha ragione... Ma io proprio non ce la faccio a vederlo stare male come lei, non... Se venissi qui tutti i giorni, lo farei stare solo peggio.”

Lo capirà, vedrai. Crescendo capirà che non tutti sono forti come lui.”

O come lo era lei...”.

Asia sorride, commossa: “Chissà da chi ha preso, Leo, eh?”

Già...” annuisce suo padre ricambiando il sorriso, asciugandosi gli occhi con le dita.


Freddo.

Tanto freddo, soprattutto ai piedi.

Questa è la prima sensazione che ricordo della sala risveglio.

Il bip costante dell'elettrocardiografo è la seconda.

Ok, almeno so per certo di essere ancora vivo.

Apro gli occhi a fatica e vedo Orietta che mi sta osservando.

Ciao Mister Sorriso! Come va?”

Ho freddo”; la mia voce esce così bassa e rauca che quasi non la riconosco; la gola è secca e mi brucia da matti. “E ho...” comincio a dire portandomi una mano sul collo; vorrei dirle che ho mal di gola ma la tosse mi interrompe.

Hai mal di gola? È normale. Anche il freddo. Ti prendo una coperta.”

L'altra volta non avevo freddo” dico ricominciando a tossire mentre lei mette una coperta sopra il telo verde che mi copre.

Gli effetti dell'anestesia possono cambiare di volta in volta, lo sai. Non sforzarti di parlare, adesso. Riposati”.

In effetti mi sento stanchissimo; non mi sembra affatto di aver dormito per tutte quelle ore.

Che ore sono?” le domando in un sussurro.

Quasi le sei.”

E sono ancora qua?!”; di nuovo la tosse.

L'intervento è durato un po' più del previsto. Ma ora smettila di parlare, se no ti riaddormento!” sorride lei rimboccandomi la coperta. “Tra un'oretta ti portiamo in camera. Loro sono Anna e Francesco” dice indicando due infermieri che non ho mai visto prima. “Resteranno qui con te. Se cominci a sentire che l'effetto dell'antidolorifico svanisce, diglielo subito, non stare a fare l'eroe! Io vado ad avvertire di là che ti sei svegliato, altrimenti tra un po' ci tocca ricoverarli tutti e tre!”; Orietta ride ed io annuisco accennando un sorriso.

Mi sento sollevato al pensiero che lei vada da mio padre, Asia e Giulia a rassicurarli e che questa lunga attesa per loro sia finita; mi rilasso e scivolo di nuovo nel sonno.

Non è più il 20 agosto ed io non sono in questa sala sterile.

È la vigilia di Natale, papà è rientrato da poco dalla caserma, l'albero è storto e tutti e quattro ci sediamo a tavola a cenare.

E siamo felici.


Matteo non era preparato a questo.

A tutto questo.

Sì, l'ha già passato con Irene.

Ed è sempre rimasto accanto a lei durante i due lunghi, interminabili, anni di lotta e sofferenza.

Sempre.

Non si è perso una tac, una risonanza, una seduta di chemio, un risveglio post-operatorio.

Niente.

Ma con Leo non ce la fa.

Forse perché aveva creduto che dopo due anni avesse finalmente finito di assistere a tutto quel dolore.

Forse perché Irene, nonostante tutto, sembrava non aver bisogno di lui.

Lui c'era sempre, è vero, ma più per un proprio bisogno che per un reale bisogno di lei.

Ma con Leo è diverso.

Leo è il suo bambino.

E lui non riesce ad accettare che tutto questo stia capitando al suo bambino.

Gli fa troppo male vederlo così, steso su quel letto, senza capelli, pallido da far paura, attaccato alla flebo; e per fortuna i drenaggi della gamba sono nascosti dalla coperta, perché quelli davvero non riuscirebbe a guardarli.

Con suo enorme sollievo, si è di nuovo addormentato e ha un'espressione molto serena; è così bello.

Non se n'è mai curato più di tanto, e Irene gli riferiva ben poco, ma è ben consapevole del fascino che suo figlio ha sulle ragazze e che continua ad avere nonostante la malattia, a giudicare da Giulia che è ancora qui dopo questa lunghissima giornata, nonostante lui le abbia urlato di andarsene a casa. Lei non se n'è andata; l'ha guardato dritto negli occhi e si è incamminata a testa alta verso il corridoio, per poi sedersi su una sedia e fermarsi lì, orgogliosa e testarda; è perfino riuscita a non piangere: non sa proprio come lei sia riuscita a trattenersi; lui ha faticato molto per farlo.

Leo era tornato in camera da poco, ancora addormentato, e quando si era svegliato non aveva fatto in tempo a dire che gli veniva da vomitare, che in attimo era già successo; lui era rimasto bloccato, senza sapere cosa fare mentre Asia e Giulia si erano subito precipitate da Leo e Asia aveva premuto il campanello.

Per fortuna, dopo pochi secondi, era arrivato l'infermiere a prendere in mano la situazione: aveva allontanato le ragazze, aveva messo seduto Leo che intanto continuava a rimettere e col cerca-persone aveva chiesto che qualcuno venisse a ripulire.

Leo li aveva guardati tutti per un attimo, come spaesato, e quando aveva incontrato gli occhi sgomenti di Giulia le aveva urlato di andarsene a casa, o almeno ci aveva provato, perché la voce gli era uscita gracchiante e subito aveva cominciato a tossire.

Ànnate fuori tutti, va'!” era intervenuto l'infermiere mentre staccava momentaneamente la flebo dal braccio di Leo per poterlo spogliare; Giulia era già uscita e lui ed Asia non avevano potuto far altro che seguirla.

Asia si era seduta accanto a Giulia, provando a tranquillizzarla, lui invece non era riuscito ad allontanarsi più di tanto dall'uscio ed era rimasto a guardare quell'omone grande e grosso che si prendeva cura di Leo con un fare quasi materno: l'aveva spogliato e lavato, gli aveva messo una maglietta pulita, gli aveva riattaccato la flebo, lo aveva aiutato a bere un po' d'acqua e poi lo aveva riadagiato sui cuscini, coprendolo con un lenzuolo fresco di bucato e una coperta leggera.

Lasciatelo riposà” gli aveva detto appoggiandogli una mano sulla spalla mentre gli passava accanto, uscendo, e lui aveva annuito, grato a quell'uomo che aveva accudito suo figlio come lui non sarebbe mai riuscito a fare e che probabilmente, anzi, sicuramente, gli era stato più vicino di lui nell'ultimo mese. Aveva aspettato fuori in corridoio che Leo si riaddormentasse e poi era rientrato nella stanza e si era seduto su una poltroncina vicino al letto a guardarlo dormire, come quando era piccolo e aveva la febbre.

E adesso è ancora lì, a guardarlo dormire.

Stavolta però non arriverà Irene a prenderlo in giro per le sue ansie e a dirgli di venire a letto, che tanto se Leo dovesse aver bisogno di loro li chiamerà.

Stavolta Irene non c'è.

E Leo ha smesso di chiamarlo la notte, e di chiedere il suo aiuto, ormai da troppi anni.

O forse è lui che un giorno, all'improvviso, ha smesso di sentirlo.


Quando mi sveglio di nuovo, è già sera inoltrata e la stanza è illuminata solo dalla luce fioca che c'è sopra all'altro letto. Non ho più i brividi di freddo, ma la gola mi fa sempre male, sto morendo di fame e devo fare la pipì.

Ciao papà” dico tirandomi su a sedere, facendo perno sulle braccia con tutte le mie forze; la mia voce sembra un po' migliorata.

Oh, ciao!” esclama lui sorpreso alzandosi in piedi; a quanto pare non si era accorto che mi fossi svegliato. “Stai bene?”

Sì... sto solo morendo di fame. E devo fare la pipì.”

Chiamo l'infermiere” dice lui premendo il campanello.

Ecchime!” esclama Ulisse entrando. “Ben svegliato re Leone! Come andiamo?” mi domanda con un sorriso mentre mi prende un polso per controllare il battito.

Ho fame.”

Oooh! Questo è un buon segno! Un ottimo segno! Ma purtroppo nun te posso accontentà! È passato troppo poco, nun te posso fa' magnà! Vedèmo più tardi, se la Lisandri dice de sì”.

Io sbuffo: “Figurati se quella mi dice di sì!”

Credi che te voglia fa' morì de fame?!” ride lui. “Vedrai che più tardi qualcosina la rimedi!”

Vabbè” dico spostando la coperta e il lenzuolo. “Devo fare la pipì. Mi porti una carrozzella?”

Eh no Leo, lo sai che nun te poi mica alzà con la gamba così!”

E come faccio, scusa?!”

Con questo!” esclama chinandosi verso la parte bassa del comodino e prendendo un pappagallo che qualcuno deve aver provveduto a mettere lì, in previsione dell'intervento.

No dai, Ulisse! Non ce la faccio a fare pipì seduto qua a letto!”

Perché me sembra de averla già sentita 'sta storia?!” ride lui; quella volta a cui sta alludendo, però, alla fine ero riuscito a convincerlo a farmi andare in bagno con la sedia a rotelle, quindi provo ad insistere.

Dai, vai a prendere una carrozzella!”

No, Leo. C'ho l'ordine de non farti alzà per ventiquattr'ore e non ne sono passate mànco quattro!”

Eddai! Non lo diciamo a nessuno!”

No. Ma se preferisci... te posso rimette il catetere!”.

Io alzo gli occhi al cielo, sbuffando, e allungo una mano per prendere il pappagallo. “Lasciatemi da solo però!”

E certo sua maestà!” esclama Ulisse. “E chi te vole vedè?! Nun ce tengo proprio! Lei ce tiene pé caso?” domanda a mio padre facendolo ridere. “Suona er campanello quando hai fatto!”.


Dopo che Ulisse è venuto a svuotare il pappagallo, a lavarlo, a rimetterlo sotto il comodino e se n'è andato, arriva Giulia.

È ancora qui?!

Non so bene che ore siano, ma so che fuori è già buio.

E lei è ancora qui.

Nonostante il pessimo spettacolo che le ho offerto prima e nonostante le abbia quasi urlato addosso.

Tuo padre mi accompagna a casa” mi dice incrociando le braccia e mantenendo una distanza di sicurezza da me. “I miei stanno cominciando ad agitarsi.”

Immagino” sorrido io, mettendomi seduto. “Va bene. A dire il vero credevo che te ne fossi già andata.”

Credevi male.”

Vieni qui”; lei mi rivolge un'occhiataccia ma poi si avvicina. “Scusa per prima” dico prendendole una mano e riempendogliela di baci.

Non mi piace quando mi tratti male.”

Hai ragione, scusa.”

E mi fai stare male quando mi allontani.”

Non ti ho allontanata. È stato umiliante per me che tu fossi qui a vedermi vomitare.”

Cosa dovevo fare?! Scappare fuori?! Io volevo aiutarti...”

Non è il genere di aiuto che voglio da te. Faccio già fatica ad accettarlo dagli infermieri, figurati!”.

Lei abbassa lo sguardo, poi torna a guardarmi in faccia: “Non potrai fare sempre così, lo sai? Mandarmi via ogni volta che starai male...”

Lo so...” dico sospirando. “Però potrà succedere ancora...”

Che mi mandi via?”

Sì.”

Ed io non me ne andrò”.

Chiudo gli occhi per un momento e stringo le labbra, mentre inspiro profondamente: “Come ti pare, io però ti ho avvisata.”

Anche io ti ho avvisato” ribatte lei sostenendo il mio sguardo.

Dio, se mi fa incazzare, quando fa così!

Allo stesso tempo, però, adoro questo lato del suo carattere.

Sei fortunata che ti amo troppo per mandarti a fanculo!”.

Giulia sorride e pare illuminarsi: non glielo dico spesso che la amo. “Lo stesso vale per te” mi dice chinandosi a baciarmi.


È già passata mezzanotte quando la dottoressa Lisandri entra nella stanza di Leo, con passo leggero per non svegliare lui e sua sorella che dorme nel letto di fianco.

Tutta una serie di imprevisti e di emergenze le hanno impedito di venire prima ad accertarsi che il decorso post-operatorio stia procedendo bene e, alla fine, si è rassegnata a mandare il dottor Rinaldi a visitarlo al posto suo.

Prima di andarsene a casa, però, non può fare a meno di controllare personalmente che lui stia bene; la stanza è illuminata solo dalla fievole luce dei lampioni che filtra dalle veneziane socchiuse, ma le è comunque sufficiente per notare che il respiro di Leo è lento e regolare e che lui sembra immerso in un sonno profondo e tranquillo.

Prende la sua cartella clinica e poi esce in corridoio per poterla leggere con attenzione: pare che tutto proceda bene; ha lamentato freddo e ha avuto un episodio di emesi, ma poi sembra essere tutto rientrato e verso le 23 ha perfino cenato; i suoi parametri vitali sono buoni, a parte un po' di febbre che è comunque nella norma dopo un intervento chirurgico; non lamenta dolore, segno che la dose di antidolorifico che gli stanno somministrando è corretta. Richiude soddisfatta la cartella clinica e torna nella stanza per rimetterla a posto, ai piedi del letto di Leo.

Rimane a guardare ancora un po' l'espressione serena del suo viso, consapevole che, da adesso in poi, non la rivedrà molto spesso: i giorni e le settimane a venire saranno parecchio duri e di sicuro ci sarà da discutere con lui di continuo, ma va bene così.

Lei è pronta; è pronta a fare di tutto per riuscire a salvarlo, anche a farsi detestare: glielo deve.

Glielo deve per i suoi sedici anni e per la sua voglia di vivere.

Glielo deve per la sua famiglia, già devastata dall'aver perso un componente fondamentale.

Glielo deve per quella madre che fino all'ultimo non si è arresa e che fino all'ultimo lui ha tenuto stretta tra le sue braccia.

Glielo deve.





   
 
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